Quando il rapporto tra i corpi sta
nella dimensione del conflitto Una amica maestra mi racconta di
colleghe pateticamente ridicole nella ripetitività del gesto di aprire la
borsetta per regalare caramelle, carezze e sorrisi ai bambini. Il giornale mi
racconta di scoloriti e irreprensibili professori che improvvisamente
picchiano selvaggiamente i bambini procurando loro gravi lesioni. Dolcezza e
violenza, femminile e maschile? Quanto segue è un percorso di memoria e riflessione
messo in moto da una domanda: c'è una relazione tra le maestre delle
caramelle e i professori delle botte? TENERE LA DISCIPLINA Una volta si discuteva molto su
autoritarismo e permissività. Poi è venuta la psicologia e sono cambiate le
categorie del discorso, che hanno perso le connotazioni etico-sociali:
oggi non si parla più di "tenere la disciplina",
e forse si perde qualcosa in profondità; che cosa nasconde infatti una parola
che copre due aree semantiche apparentemente distanti come quella del
corretto comportamento e della suddivisione del sapere? [1]. Nelle varie fasi di un compiuto
processo formativo sono implicate funzioni irrinunciabili (come l'istituzione
e lo scioglimento del setting in quanto
"area potenziale" protetta dove sperimentare/rsi,
la definizione delle regole, lo spiazzamento cognitivo, la elaborazione del
necessario distacco, la rottura della dipendenza, l'accesso alla realtà…) che
nel linguaggio degli psicologi appaiono riferite a un registro
"paterno" [2].
Se si è convinti di questo, allora un insegnante, maschio o femmina che sia,
ha il problema di come gestirle nella relazione educativa. Insegnanti e anche genitori, gli
insegnanti forse più dei genitori perché i bambini non sono neppure "di
loro proprietà", continuano ad avere, se non a porsi, il problema di
queste parti della relazione educativa che richiedono distinzione,
separazione, opposizione, e generano conflitto. La comunicazione educativa è, anche
se non solo, un fatto corporeo. Che cosa comunica il mio corpo di insegnante
nella sua specificità di ruolo? E come comunicano i corpi la qualità
conflittuale della relazione educativa nei momenti in cui lo è? Se penso a me, penso subito alla
voce, al suo volume, tono e timbro, e alle posture che ne accompagnano
l'emissione, come strumento di esibizione di forza; e lo sfondo che subito mi
appare è quello etologico: i combattimenti ritualizzati con cui si stabiliscono
le relazioni all'interno di un gruppo sociale e si mantiene quell'organizzazione
che è vitale per la sopravvivenza. Se penso a me, penso alla regola
incarnata nei limiti di tolleranza dell'educatore. Discorso certamente
ambiguo, che apre la possibilità della arbitrarietà e della prevaricazione se
non sostenuto dalla "ragionevolezza", dalla socialità e dal
dialogo, che ancora una volta passano attraverso una diversa voce e un
diverso modo di usare il corpo. Non c'è dialogo senza un corpo che rende
manifesta la volontà di coinvolgersi attraverso il contatto. Ma il contatto con il tatto
non sempre avviene con tatto.
Ricordo quando Francesco lo tirai per i capelli, e lo tenni così per più di
dieci minuti, lui alto dieci centimetri più di me, per staccarlo dal corpo
del compagno con cui si azzuffava selvaggiamente davanti a scuola, cioè,
secondo il nostro preside, fuori dal territorio di nostra responsabilità.
"E se, sempre fuori di scuola, mi fa picchiare da suo fratello
malavitoso?" era il pensiero che mi pungeva molesto. E invece Francesco,
che io perseguitavo non concedendogli quello che i miei colleghi accoglievano
come liberazione, che cioè finalmente, senza "disturbare", si
facesse i fatti suoi nel suo angolo disinteressandosi della vita della
classe, Francesco a distanza di anni mi ricorda come l'unico insegnante
"bravo": perché? Forse perché disponibile a entrare in contatto con
lui, magari attraverso l'unico linguaggio del corpo a lui comprensibile? No, qui non racconto le storie di una
relazione corporea felice, quelle che vogliono convincere che la psicocomotricità o l'educazione ai sentimenti (quelli
buoni naturalmente) sono le uniche attività veramente necessarie nella
scuola; qui racconto storie sporche, come quella volta che diedi una sberla a
un bambino. Un'altra storia di insegnante maschio che picchia i bambini? CIRO DEI GUAI Ciro, 9 anni, era uno di quelli che,
dopo un po' che guidi campi-scuola come animatore, riconosci subito come
destinato ai guai. Non sto parlando di quei ragazzini che "disturbano"
sempre a scuola, che i primi giorni del campo ti rendono dura la vita, e che
poi invece "svoltano" nel modo più imprevedibile, impastando il
pane, facendo i massaggi ai compagni, o costruendo capanne, e diventano
"mitici". No, Ciro era di quelli che i guai se li portano da
qualche parte dentro, e quindi non cambiano stando fuori di scuola in campagna.
Li tieni d'occhio continuamente sperando che il guaio succeda quando stanno
con la maestra. Irritabile sempre ai limiti
dell'esplosione isterica, nel torrente non è attento a ciò che gli sta
intorno e si riempie gli stivali di acqua; reagisce urlando piangendo e non
facendo nulla per svuotare gli stivali. E io lo vedo già che si sfracella
sulle rocce. E poi al ritorno quando penso che anche stavolta è andata bene,
mi accorgo con terrore che ha tra le mani un bellissimo acuminato aculeo
d'istrice lungo venticinque centimetri: un'arma perfetta. Non faccio in tempo
a pensare a che cosa gli dirò per toglierglielo che già scoppiano le urla e
il pianto della compagna ferita sul viso vicino all'occhio da una maldestra
aggressività motoria più che da un'intenzionalità aggressiva. Non commetto l'errore di chiedergli
(o imporgli, che è sarebbe solo il passo successivo) di consegnarmi l'arma,
gliela sfilo improvvisamente di mano prima che si accorga delle mie
intenzioni. La reazione è violenta. Mi si scaglia contro tentando di
riprendersi l'aculeo che io tengo fuori dalla sua portata. Mi percuote (per
fortuna è un piccoletto) e urla che è suo; io con voce assolutamente calma e
guardandolo in viso gli dico che non voglio portarglielo via, che io ne ho
tanti a casa, ma che non posso lasciarglielo tra le mani perché è troppo
pericoloso, come si è già dimostrato. Lui grida e piange rabbiosamente, tenta
invano di riafferrare l'oggetto che io, a un certo punto, senza che se ne
accorga, faccio sparire. Lo rivuole, lotta per riaverlo e io gli dico, sempre
più calmo, che non posso darglielo anche perché lui è troppo agitato. La scena prosegue ossessiva per
almeno 30 minuti: il corpo di Ciro, frenetico nella sua violenta esplosione
di energia senza controllo, contro il mio corpo che si muove il minimo
indispensabile, saldo e insieme elastico nel resistere. Tutti gli altri,
compagni, maestre, animatori, si sono allontanati: è un problema mio. Sono
calmo, assolutamente convinto che non posso, non devo, non voglio ridargli in
mano quell'aculeo. Comincio a chiedermi però quale sarà
la fine. Forse sentendomi in forze e tranquillo spero in una conclusione per
sfinimento suo. E a un certo punto credo che ci siamo arrivati perché mi
lascia. Mi allontano, ma dopo pochi metri mi è di nuovo addosso. Ricomincia,
assolutamente uguale a se stessa, la sequenza di aggressione, contenimento,
urla, risposte ragionevoli. Quasi in un'altra dimensione da
quella corporea, nella mia mente scorrono pensieri ragionati, ripasso letture
psicologiche, e in fondo mi complimento per non aver reagito con violenza
alla violenza, apprezzo la mia capacità di mantenere il controllo, penso che
un corpo scatenato possa trovare quiete solo incontrando la quiete. Sì, ma
resta il problema di trovare una fine: è chiaro che la mossa finale spetta a
me, ma quale? Una delle maestre, passando accanto,
dice, non so se a lui o a me, che ho troppa pazienza e che lei a quest'ora
gli avrebbe già menato. L'evidenza si impone subito: è quella la fine,
l'unica possibile. In pochi attimi mi libero degli scrupoli etici, della deontologia
professionale: mi sento la coscienza a posto perché ho la consapevolezza
dell'assenza in me di ogni intenzione violenta, dentro di me non trovo nulla contro
Ciro; non sono al limite della sopportazione, non mi devo difendere da lui,
provo compassione per lui che sento sofferente. La sberla è forte, della giusta
forza, un gesto efficiente. Ciro resta immobile, cambia colore, un attimo
dopo i suoi occhi si riempiono di lacrime: ho l'immagine di un palloncino
pieno d'acqua che, bucato, si sgonfia. E qui commetto l'errore. Il successo
mi fa strafare: il bravo educatore sa usare la forza e la tenerezza, sa
essere autorevole e accogliente, sa punire e consolare. Così, per un'idea di
perfezione educativa, stringo Ciro tra le mie braccia sul mio petto. Forse mi
aspetto di sentire lo sciogliersi della sua tensione dolorosa nel calore
protettivo del mio abbraccio: lui si ribella e ricomincia ad agitarsi. Prima
che io possa formulare qualsiasi pensiero arriva una maestra e, troppo in
fretta per capire se è una decisione mia o sua o di entrambi, e se è una
decisione, glielo passo. Il mattino seguente lo rivedo: sta
con gli altri, si muove, parla, non evita il mio sguardo e non lo provoca:
insomma nessuna traccia dell'accaduto. Rimozione di un rapporto con me troppo
conflittuale? negazione di un vissuto troppo violento? A tavola si rivolge al
compagno che gli sta accanto con il tono diretto e un po' eccitato dei
bambini quando parlano tra di loro dei loro traffici. Colgo brandelli del suo
discorso "… ho trovato un'altra
spina [l'aculeo d'istrice], ma gli brucio la punta così quel signore là non
si arrabbia". Fine dell'agitazione isterica, della
violenza aggressiva, riassunzione di controllo, sottomissione alle ragioni
dell'altro: per Ciro il conflitto si era risolto con l'accettazione della
regola dentro un rapporto asimmetrico di autorità. Ma questo non era stato
possibile fino a che questo rapporto non era stabilito dentro un linguaggio
corporeo. A me ritorna ancora una volta l'immagine, tante volta vista nei documentari
televisivi, dello scontro ritualizzato tra animali maschi che si conclude,
quando il divario di forza diventa manifesto, con i segnali di sottomissione
del più debole che inibiscono l'aggressività del più forte. A livello di vissuto psicologico il
conflitto era una spirale senza uscita. Quale "ragione" poteva
trovare Ciro per cedere? perché avrebbe dovuto accettare quello che per lui
era un sopruso (gli rubavo un prezioso oggetto che lui aveva trovato, un
oggetto di grande valore nella relazione con compagni e adulti)? La soluzione poteva venire solo da
qualcosa che rompesse lo schema, spostando la situazione fuori dal quadro
definito; ma, in una interazione così fuori dal controllo razionale, quel
qualcosa non poteva essere certo una meta-riflessione capace di rielaborare attraverso
il distacco emotivo. Il motivo per cedere non poteva che venire da un evento
che si imponesse per necessità naturale, che potesse mettere in moto reazioni
più ancestrali a livello biologico. Un evento del genere non poteva che
passare dalla fisicità del corpo. La mia supremazia, quella che a scuola
esercitavo soprattutto con la voce e gli altri segni complementari del corpo,
per un bambino difficile in una situazione difficile, aveva bisogno di manifestarsi
attraverso la pura forza fisica. DOMANDE Per me la domanda interessante è:
perché ci ho messo tanto ad arrivarci? Perché ho lasciato che lui stesse così
male, incastrato in un conflitto cui non poteva sottrarsi se non punendo se
stesso e che non si poteva risolvere con il raggiungimento dell'oggetto del
desiderio? Quello che mi ha impedito di dare
subito quella sberla credo sia stata un'immagine di me stesso come insegnante
democratico, non violento; una figura cresciuta, nella mia storia, in
opposizione a un autoritarismo arrogante e incivile. Come può essere un buon
educatore un educatore che picchia i bambini? Uno stereotipo, un'immagine
cioè generalizzata e decontestualizzata, uno stereotipo potente, frutto della
cultura progressista, ma anche forse, in strati più profondi, di quella
cultura per cui abbiamo tante volte visto mamme difendere figli stupratori,
quella cultura che appare come una estensione abnorme della difesa del
piccolo, che, ignorando l'etica, si radica nella biologia. Forse c'è anche dell'altro nella mia
inibizione alla sberla. Penso alle maestre che regalano caramelle: Ciro
avrebbe accettato caramelle, o carezze, o sorrisi, in cambio della rinuncia
al suo aculeo? avrebbe accettato tenerezza come compensazione della irragionevole
protervia di un adulto che glielo voleva rubare? D'altra parte quella sberla potrò mai
farla passare come "soluzione creativa di un conflitto"? Mi
racconto questa storia e non so se ho fatto bene o male, per dirla in un linguaggio
obsoleto (oggi dovrei dire che non so se sono stato un educatore
"sufficientemente buono"). Quello che so di me è che non voglio
essere né la maestra che regala caramelle né il professore che picchia i
bambini. Perché la prima mi si mostra
frustrata nella sua vita familiare e svalorizzata dall'ambiente lavorativo? e
perché il secondo, prima del tragico episodio, è "una così brava persona,
seria e posata". L'una imposta il suo incontro con i bambini sulla
seduzione, creando benessere, blandendo il corpo, l'altro non si oppone ai
bambini, reprime le proprie reazioni nei loro confronti fino a un livello
insopportabile di tensione che esplode d'improvviso senza controllo possibile:
la rinuncia all'aggressività (dal latino "andare verso" il corpo
dell'altro) lo porta allo scoppio della violenza. Entrambi fuggono il conflitto: la
prima, prendendo l'iniziativa, si mostra "buona", per suscitare risposte
di riconoscenza e affetto, l'altro in negativo evita le occasioni di essere
percepito come "cattivo". E se entrambi esprimessero un doloroso
bisogno di essere amati, in circostanze e ruoli che forniscono loro possibili
amanti nelle persone dei loro alunni? Ma il conflitto è insito nella
asimmetria del rapporto educativo e quando comunque riaffiora e diventa
insopportabile, la maestra delle caramelle distrugge sé stessa con la
depressione, il professore distrugge il ragazzino. E non so se ci aiuta l'elogio
del conflitto che sentiamo fare da qualche tempo nei corsi di aggiornamento
dallo psicologo o dal pedagogista, perché quando ci rendiamo conto che il
conflitto fa male, ci scopriamo fragili e indifesi. C'è sicuramente in tutto questo una
componente culturale inseparabile da quella psicologica. Il discorso, fatto
dalla parte dei maschi, è che vogliamo anche noi essere oggetti d'affetto
nella materialità del rapporto corporeo. Ai tempi dei nostri nonni o padri,
nessun uomo si aspettava questo dalla relazione con i propri figli; non su questo
si giocavano aspettative, stima di sé, saturazione di bisogni corporei. Il
corpo è un prodotto culturale; il rispetto non è solo una categoria morale:
tra bambini e padre, attorno al registro del "rispetto" si strutturava
tutto un linguaggio corporeo, il cui riferimento poteva essere un'estetica
dell'armonia e dell'ordine, che richiede distinzioni e forme nel modo di
rapportarsi nello spazio fisico della relazione. Oggi il "rispetto"
come organizzatore di senso non funziona più, perché non è più un valore
positivo. Al rispetto associamo immediatamente caratteristiche maschili negative:
l'autoritarismo, la dominanza, la negazione dei sentimenti… E mi domando se
non sovrapponiamo l'attacco a una inaccettabile disparità di potere a favore
dei maschi al non riconoscimento di una reciproca dipendenza nella diversità,
di una complementarietà tra maschile e femminile. Così noi maschi non sopportiamo più
la distanza con i corpi dei bambini. Scopriamo dimensioni dell'accudimento finora
riservate al femminile; scopriamo il piacere del contatto dei corpi e
vogliamo sperimentarvi il disordine della fusionalità. Così, mentre le madri anche loro
"portano a casa lo stipendio" o si spendono nella "costruzione
della città" senza smettere di essere
mamme, nelle nostre case i padri o continuano a non esserci o si provano a fare le mamme. Ma le sberle a Ciro chi le dà? |
[1]
<<Le istituzioni
disciplinari hanno finito col secernere un apparato di controllo che ha
funzionato come microscopio della condotta; le divisioni puntuali e analitiche
ch'esse hanno realizzato, hanno formato, intorno agli uomini un apparato di
osservazione, di registrazione e di addestramento. […] Appare, attraverso le
discipline, il potere della Norma […] Il momento in cui si è passati da
meccanismi storico-rituali di formazione dell'individualità a meccanismi
scientifico-disciplinari, in cui il normale ha dato il cambio all'ancestrale, e
la misura ha preso il posto dello status, sostituendo così all'individualità
dell'uomo memorabile quella dell'uomo calcolabile, questo momento in cui le
scienze dell'uomo sono divenute
possibili, è quello in cui furono poste in opera una nuova tecnologia del
potere e una diversa anatomia politica del corpo.>> (Michel Foucault,
Sorvegliare e punire, Einaudi 1976, 1993).
[2] Paolo Mottana, Formazione e affetti, Armando 1993.