a Stefania e Massimiliano

con loro è stato possibile che la relazione tra maestro/a e allievo/a

diventasse reciproca

 

PROLOGO

 

Per introdurre l’argomento di questo libro vorrei partire dalle suggestioni che mi vengono dalle parole del suo titolo.

L’ARTE

“Arte” in greco si dice técne ed è la stessa parola che indica “mestiere”; infatti il mio vecchio Zanichelli alla voce “tecnica” detta: “dottrina applicata all’arte; arte in quanto esercizio ed applicazione”. E, per chi cerca riferimenti più attuali, il thesaurus del mio word processor elenca come contrari di “tecnica”: “improvvisazione”, “estro”, “imperizia”, “inesperienza”, “incapacità”, “incompetenza”, “impreparazione”, e persino “dilettantismo”. Questo per eliminare subito eventuali equivoci e per tirare qualche filo di senso verso le “tecniche di vita” della pedagogia di Célestin Freinet o di Bruno Ciari. Per Freinet tecniche come il testo libero, il “libro di Vita”, la corrispondenza interscolastica, la stampa e il giornalino, l’organizzazione cooperativa, hanno la capacità di suscitare relazioni di “vita naturale” anche dentro la scuola e l’organizzazione dell’apprendimento.

Il titolo di questo libro poteva dunque essere “La tecnica di non insegnare”? Le parole non abitano solo nei vocabolari: c’è un uso sociale che dà loro una connotazione che si aggiunge o si sovrappone alla pura denotazione. Non posso negare che “arte”, rispetto a “tecnica”, per noi è qualcosa di più: è una questione di “classe”, sia nel senso della gerarchia sociale, sia in quello, più sottile e derivato, della “buona qualità”, della “eccellenza”.

Represso con il riferimento alla “tecnica” ogni tentativo di interpretare l’insegnamento come un esercizio di libera espressione tutta fantasia ed estro, posso concedere con la parola “arte” l’aggiunta indispensabile al mestiere di una qualità creativa . Da biologo tendo però ad interpretare la “creatività” nel contesto evolutivo, come matrice di cambiamento per variazione e selezione, qualcosa di imparentato con il gioco e la strategia più che con la metodologia.

Forse una ragionevole mediazione tra tecnica e arte sta nella parola “artigiano” e allora forse possiamo accettare sorridendo la definizione “colui che esercita un’arte manuale, che però richieda una certa abilità e un non largo impiego di macchine” che ne dà ancora il mio vecchio (e un po’ “classista”) Zanichelli. Con qualche aggiustamento, come ad esempio la sostituzione di “manuale” con “corporea”, di “una certa” con “molta” (togliendo decisamente il “però”), di “macchine con “tecnologie”, e forse di “colui” con “colei”, è quasi pronta per essere applicata all’insegnante: “(colui)/colei che esercita un’arte corporea, che richiede molta abilità e un non largo impiego di tecnologie” .

Ma non posso azzerare la cultura e dimenticare che per noi italiani dire “arte” significa quasi inevitabilmente andare con la mente alle glorie nazionali e al Rinascimento. E allora scelgo Michelangelo. Non per la sua pittura, alla quale preferisco quella di chi l’ha preceduto, Masaccio, Giovanni Bellini, Antonello da Messina… ma per l’ “arte di levare” con la quale intendeva liberare la forma già presente nel marmo, la vita imprigionata nella materia.

E se l’insegnamento fosse un’arte di levare, una tecnica ben formata e sapiente del non fare, per dare spazio alla vita che si autoorganizza, cioè per dare ascolto all’autonomia dei processi di apprendimento?

Il “(non)”

Gregory Bateson, riflettendo sull’evoluzione, ritiene che un passaggio cruciale avvenga nella comunicazione “quando l’organismo a poco a poco cessa di rispondere ‘automaticamente’ ai segni dello stato di umore dell’altro e diviene capace di riconoscere che il segno è un segnale, di riconoscere, cioè, che i segnali dell’altro individuo, e anche i suoi, sono soltanto segnali, che possono essere creduti, non creduti, contraffatti, negati, amplificati, corretti e così via.”  [1]

Bateson assume come emblematica di questo passaggio l’estrema difficoltà per gli animali di comunicare una negazione, ad esempio l’intenzione di non aggredire, come accade quando gli animali giocano al combattimento.“L’asserzione ‘questo è gioco’, se la si sviluppa, assume la forma: ‘le azioni che in questo momento stiamo compiendo non denotano ciò che denoterebbero le azioni al posto delle quali esse stanno’[2].

La possibilità di meta-comunicare, di costruire “cornici” che delimitano contesti di comunicazione (e quindi di relazione tra soggetti) che cambiano i significati, fa un salto di livello con il linguaggio, con la possibilità di dire “non…”. Divengono possibili la liturgia, la barzelletta, la simbologia, la citazione e la recitazione...

Ma è con la conquista della consapevolezza che è iniziata la storia dell’inganno (“si può ingannare solo se si sa che i propri messaggi sono effettivamente messaggi” [3]). Sono convinto che è questo, il “non”, il peccato originale: l’uomo acquisisce con la coscienza, e fissa con il linguaggio, la possibilità di uscire dal flusso della vita così com’è, dalla sua “verità”. Ed è, la perdita dell’innocenza, un punto di non ritorno.

Ma, da biologo, non posso pensare ad un passaggio evolutivo come ad una “colpa”: la cultura è la natura dell’uomo. Forse dobbiamo cercare di applicare su grande scala il motto del bravo educatore: “fare di ogni vincolo una risorsa”. E allora il “non” può diventare il segno positivo della “esitazione”.

Il libro postumo di Gregory Bateson, redatto dalla figlia Mary Catherine, prende il titolo "Dove gli angeli esitano"  [4] da un verso di Alexander Pope: “... gli stolti si precipitano dove gli angeli esitano a metter piede”.

L’essere cosciente porta l’uomo ad agire in base alla finalità, che connette linearmente un’azione ad un risultato (chi insegna avrà riconosciuto lo stile della “programmazione per obiettivi”). Il problema è che così funziona la coscienza, non il mondo. Agendo secondo la “finalità cosciente”, l’uomo ignora i circuiti complessi delle relazioni, trascura la natura sistemica del mondo di cui anch’esso fa parte, e, con la sua arroganza nei confronti dell’ambiente (la hybris), ne distrugge la rete di connessioni. Bateson è convinto che “questa massiccia congerie di minacce all'uomo e ai suoi sistemi ecologici sorga da errori nelle nostre abitudini di pensiero” [5]. E se, per curare quelle patologie, l’uomo utilizza ancora la finalità cosciente nell’illusione di poter controllare i processi dall’esterno, non può che peggiorare la propria situazione.

Di qui l’esitare, come atteggiamento epistemologico prima che etico, come modalità del pensare prima che dell’agire [6]. Esitare di fronte ai sistemi viventi è dar loro modo e tempo di “curarsi da sé”, ma anche di percorrere in autonomia i processi che caratterizzano la vita: l’evoluzione (del mondo vivente) e l’apprendimento (dell’individuo).

È dunque questa esitazione il senso che vorrei dare a quel “non” davanti all’azione dell’insegnare. E anche le parentesi hanno un loro significato: le ho messe per riparare quel “non” da una precipitosa interpretazione del non fare come dismissione di responsabilità o disinteresse nei confronti dell’altro che nella relazione educativa ci è affidato; insomma questo “non” non è un “dis”.

E questo mi porta dritto al paradosso dell’insegnante: l’apprendimento dei bambini dipende e non dipende dall’insegnante, per questo l’insegnante deve comportarsi come se da lui/lei dipendesse e non dipendesse l’apprendimento dei ragazzi. L’insegnante deve agire come se ci fosse sempre una strategia di insegnamento possibile per qualsiasi bambino o bambina in qualsiasi contesto; ma, d’altra parte, l’insegnante non  può far dipendere il suo impegno o la sua rinuncia da quelle che lui/lei ritiene risposte positive o negative da parte dei bambini. Non si tratta solo di “attendersi gli imprevisti”, questo fa parte della strategia, ma più profondamente di essere consapevoli che ciò che un bambino apprende, quando e come, non dipende dall’insegnante: non siamo padroni della loro vita. Quella di apprendere è la loro responsabilità, intenzionale o no.

L’INSEGNARE

Ho pensato a lungo se usare il termine “educare” invece di “insegnare”: il primo scenario del libro del resto ha come protagonista un educatore che non è insegnante.

D’altra parte forse non volevo portarmi dietro la zavorra di una serie di connotazioni culturali che il termine “educare” implica. Riccardo Massa ha dedicato molte delle sue energie di pedagogista perché venisse superata la perniciosa dicotomia tra educare e istruire, smontandone prima di tutto proprio la presunta dicotomia [7]. E ha anche messo in luce come a partire dalla doppia etimologia latina (da “educare” che vuol dire “nutrire” “allevare” e da educere che significa “portare fuori”) “il concetto di educazione deve essere pensato rispetto a due ordini strutturali. Si tratterà di capire come si incrocino e si incastrino tra di loro. […] è come suggerire che, per condurre via, bisogna prima accudire e nutrire; così come che, dopo essere stati accuditi e nutriti, occorre il venire portati via dal luogo della nutrizione e della cura.”  [8].

In questo senso “insegnare” indica anche dei luoghi, dei contesti, o meglio ancora dei “setting pedagogici”. Questo riferimento ai contesti è stato decisivo per preferire un termine “stretto”, che rischia di non comprendere qualcuno che sta sicuramente dentro il mio discorso, invece che un termine troppo “largo”, che comprende anche categorie di persone che sicuramente educano ma non per professione, come i genitori, o che lo fanno come inevitabile ma non intenzionale aspetto del proprio ruolo, come i medici ad esempio.

La distinzione che mi interessa ha a che fare con l’intenzionalità dell’educare e l’istituzionalità e “pubblicità” (in un tempo in cui il Ministero non è più della “Pubblica” Istruzione) dei suoi contesti. In questo senso “insegnare” rende l’idea di questa collocazione sociale.

Senza contare, per chi scrive, il sicuro vantaggio pratico che viene dal fatto che “insegnante” è un’unica parola per il maschio e la femmina.

QUESTO LIBRO

Questo libro parte dalla proposta di un apprendimento “naturale”, nel senso forte di “radicato nella biologia”, nella autoorganizzazione dei sistemi viventi. La parola “naturale” ci porta dentro un altro dei paradossi dell’insegnamento, questa volta condiviso con il teatro, e che gli viene dal fatto che la natura dell’uomo è la cultura: per fare in modo che possano avvenire processi spontanei in un ambiente culturale, in larghissima parte artificiale, e addirittura, in misura significativa, virtuale, occorre predisporre delle condizioni particolari, intraprendere delle azioni positive, mettere in atto degli artifici, anche se per “arte di levare”. Un insegnamento pensato in funzione della autonomia dei bambini è dunque frutto di formazione e di intenzionalità.

Se “tecnica” è anche “dottrina applicata all’arte”, della formazione fa parte anche la “teoria”. “Il rapporto educativo si differenzia da altri tipi di rapporto, in quanto ricade all’interno di una esperienza agìta, per produrre la quale la pedagogia si qualifica come una teoria dell’azione” [9]. Ovvero: anche l’insegnante, l’educatore/trice, ha bisogno di strumenti per pensare il proprio lavoro.

Per questo, per dare un contenuto più preciso e specifico ad un discorso sull’ “autonomia” dei bambini e su una relazione insegnamento-apprendimento che ad essa faccia riferimento, nella parte introduttiva propongo delle idee attorno all’autoorganizzazione dell’apprendimento.

Il libro mostra in azione questo tipo di relazione tra apprendimento autoorganizzato e insegnamento in tre diversi scenari: una ludoteca, una pratica di conversazione scientifica e una ricerca in ambito scolastico. La successione risponde ad una direzione di senso: si parte da un contesto in cui l’autonomia dei bambini è assunta come progetto, ma prima ancora si radica nella gratuità del gioco, per arrivare ad una situazione orientata istituzionalmente all’inserimento dei bambini in una cultura, con la conseguente necessità di una acquisizione di competenze.

La scommessa con chi legge è di ritrovare nella discontinuità dei contesti la continuità di un’idea, nella diversità dei ruoli e delle funzioni educative il motivo di una comunicazione e di uno scambio.

All’idea di autoorganizzazione è dedicato un capitolo intero, ma posso anticipare un immagine, più che un esempio.

I semafori servono a dirigere il traffico, alternando i tempi di via/stop per flussi che si incrociano. Può capitare che il flusso su una direttrice sia più intenso che sull’altra e che tempi uguali provochino “code” sulla prima. Si possono assegnare al semaforo tempi differenziati; ma, se l’intensità dei flussi si inverte, la soluzione adottata peggiora il problema. Allora si può dotare il semaforo di un dispositivo capace di modificare i tempi di via/stop: un vigile, con in mano un cavo collegato alla “centralina” del semaforo, osserva il traffico e allunga o accorcia i tempi a seconda della contingenza. Un notevole risparmio (di vigili) si otterrebbe con un dispositivo automatico di regolazione capace di leggere i flussi di traffico e di retro-agire modificando i tempi. Un aggeggio che sappia contare le automobili ormai è alla portata della tecnologia. Ma può capitare che, per qualche ragione, sia utile dare tempi più favorevoli alla direttrice con meno autoveicoli; e potrebbe essere importante non solo l’intensità del flusso ma anche la sua velocità, oppure la sua composizione (autotreni, autobus); tutto ciò richiede una possibilità di modificare la regolazione automatica. E se la si vuole realizzare con un dispositivo automatico, esso dovrebbe essere in grado non solo di contare gli autoveicoli, ma di valutare ogni altra variabile quantitativa e anche qualitativa del sistema. E così via complicando. Questo se si vuole dirigere il fenomeno. Ma c’è un’altra possibilità.

Presso casa mia, su un cavalcavia sopra un nodo ferroviario, convergono tre strade da cui giunge un flusso abbastanza intenso di traffico e a volte, in certi orari, si formano code fino ad un centinaio di metri, che avanzano lentamente. Ci passo spesso fin da bambino e non ho mai visto un incidente né mai ne ho avuto notizia. Un bel giorno al trivio comparve un semaforo. Per qualche giorno code puzzolenti e strombazzanti di veicoli bloccarono il traffico in tutta la zona, dopo di che i semafori divennero lampeggianti sul giallo. Sono passati quasi dieci anni e ancora lampeggiano imbarazzati, mentre le code di veicoli scorrono più o meno lente defluendo dai tre accessi. In uno spazio comune e con un’unica regola (dare la precedenza a destra, o all’ingresso se ci fosse al centro una “rotonda”) i flussi di traffico interagiscono con tutte le loro caratteristiche effettive e contingenti, che intervengono cioè qui e ora, spesso non prevedibili (dalla lunghezza di un veicolo alla reazione di un guidatore ecc.). In questo caso il traffico non viene diretto dall’esterno, ma si autoorganizza.

 

Ringraziamenti

a Giuliana Monzio Compagnoni che, come osservatrice e intervistatrice, ha fornito il materiale necessario alla ricerca sulla ludoteca di Amelia, alla quale del resto ha contribuito in modo decisivo;

a Massimiliano Spaziani per avere messo a disposizione della ricerca la ludoteca e se stesso;

a Marco Testa per il ruolo interpretato nel “teatro invisibile”;

alle insegnanti del progetto “Fare e dire le scienze”, Tiziana Angeletti, Claudia Angeluzzi, Vera Barbini, Emanuela Cocchi, Catia Danielli, Masha Dionisi, Stefania Isacco, Laura Laurucci, Beatrice Lorenzoni, Maria Letizia Ottavi, Rita Paoluzzi, Alessandra Proietti, Teresa Quadraccia, Adriana Renghi, Rossella Riccioli, Mirella Tigroni, della “Jole Orsini” di Amelia; a M. Grazia Lazzarini e  Mara Biancardi del II circolo di Senago (MI), a Anna Maria Cavallari della Scuola Materna MonteRotondo (Roma) e alle loro classi per le conversazioni scientifiche;

a Mirella Tigroni per il resoconto del suo percorso di ricerca;

a Stefania Cornacchia e alla sua classe per tutto il materiale “vivo” della ricerca.

 

 



[1]  Gregory Bateson (1955), Una teoria del gioco e della fantasia, in: Verso un’ecologia della mente, Adelphi 1976

[2]  ibidem

[3]  Gregory Bateson (1976), Lo sviluppo dei paradigmi della psichiatria, in Una sacra unità, Adelphi 1997

[4]  Gregory Bateson – Mary Catherine Bateson (1987), Dove gli angeli esitano, Adelphi 1989

[5]  Gregory Bateson (1972), Patologie dell’epistemologia, in: Verso un’ecologia della mente, Adelphi 1976

[6]  su questa tema: Giovanni Madonna, La psicoterapia attraverso Bateson, Bollati Boringhieri 2003

[7]  Riccardo Massa, Educare o istruire?, Unicopli 1987

[8]  Riccardo massa, Cambiare la scuola. Educare o istruire?, Laterza 1997

[9]   Riccardo Massa, Educare o istruire, Unicopli 1987