La scuola di Marcello

 

Questi scritti dialogici rappresentano un’occasione davvero unica di apprendimento, tanto preziosa quanto imprevedibile. Per chi è impegnato nella didattica e nella comunicazione della scienza, e nell’insegnamento in particolare di tematiche connesse alla teoria dell’evoluzione, l’incontro con un formatore dello spessore e dell’esperienza di Marcello Sala è un dono del quale essere grati. I motivi per appassionarsi sono molteplici ma in prima battuta ruotano tutti quanti, in un modo o nell’altro, attorno all’evidenza per cui per Marcello concetti e metodologie da tempo evocati come la “co-costruzione della conoscenza”, la creazione di un “contesto di apprendimento autorganizzato”, l’“agire nell’incertezza” non sono - come talvolta in studiosi e praticanti pur di valore – petizioni di principio astratte, enucleazioni teoriche vaghe, affermazioni apodittiche o formulette pronte per l’uso. Al contrario, quei principi sono pratiche quotidiane dello stare in classe, sono comportamenti operativi messi alla prova e raffinati con il tempo, sono il distillato di una competenza artigianale sviluppata in migliaia di ore di lavoro in gruppo nei contesti più diversi di apprendimento.

Il territorio in cui Marcello ci conduce in questi testi è aperto da due mosse metodologiche fondamentali. La prima è la valorizzazione dello spazio autonomo irriducibile da attribuire ai processi di apprendimento, uno spazio che si conquista palmo a palmo grazie all’arte del levare, dello smussare, del togliere, dell’asciugare, grazie all’esitazione, e alla discrezione, come atteggiamento epistemologico prima ancora che etico. In questa prima opzione teorica dell’“arte di (non) insegnare” troviamo sicuramente un’opposizione programmatica non nuova a quelle logiche di finalizzazione, di linearità applicativa, di problem-solving che spesso permeano, quasi inconsapevolmente, i processi di apprendimento. La seconda mossa è più radicale e consiste nel considerare pervicacemente i bambini come portatori di una cultura propria, di un’epistemologia pertinente, di un modo di pensare indipendente, più centrato sulle connessioni, più libero, più emancipato da schemi costrittivi, più integrato e meno scompositivo rispetto alle cristallizzazioni apparenti della vita adulta socialmente codificata. Pur senza alcuna idealizzazione dell’infanzia, l’ipotesi è che forse i bambini costitutivamente, e nonostante tutti i tentativi di dissuaderli, pensano complesso e pensano evolutivo.

Assistere ai laboratori di Marcello significa vedere emergere - inesorabilmente ma ogni volta con modalità inedite - le presupposizioni implicite, le epistemologie profonde in azione nei contesti di apprendimento, le latenze epistemologiche - per dirla con un’espressione di Riccardo Massa cui Marcello Sala fa spesso riferimento qui con originalità – che organizzano i nostri modi di pensare e di imparare. Adottando la storia naturale delle specie come serbatoio contingente ma particolarmente fecondo di casi di discussione, affiorano dalle esercitazioni di Marcello – sapientemente calibrate ai confini fra competenze disciplinari differenti, dalla genetica su piccola scala alla paleontologia su larga scala - le grandi metafore radicate, le “iconografie” influenti, come le chiamava Stephen J. Gould, del progresso, della funzionalità, della linearità cumulativa, dell’ottimizzazione standardizzata, dell’essenzialismo. Fanno capolino i tanti fraintendimenti che gli adulti spesso si costruiscono quando narrano a posteriori le storie significative delle loro origini e che invece i bambini non hanno o trattano con maggior disinvoltura, forse perché per loro il presente non è una necessità astorica per giustificare la quale occorre inventarsi un passato. Difficile sottovalutare l’importanza di un simile allenamento alla contingenza in un paese in cui l’evoluzione ha un così scarso ruolo nei curricula scolastici e universitari, che così si ritrovano privati di una cornice di riferimento storica per le scienze della vita.

Che si tratti dell’evo-devo, la biologia evolutiva dello sviluppo – questa affascinante congiunzione disciplinare che sta oggi riformando radicalmente la comprensione del dato biologico – o della spiegazione del motore fondamentale dell’evoluzione all’interno delle popolazioni di organismi, cioè il meccanismo darwiniano di variazione e selezione naturale, con i suoi dispositivi pedagogici incalzanti Marcello, di improvvisazione in improvvisazione, va al cuore dei fondamenti di quelle acquisizioni scientifiche e aiuta anche il docente universitario, e chi le deve comunicare per esempio ad un pubblico non specialista, ad avvicinarsi al nucleo dei problemi cruciali (di tipo teorico, ma anche culturale più generale) che esse sollevano. E’ una sorta di epistemologia sul campo, o di epistemologia da campo, un’epistemologia sperimentale che ci permette di vedere all’opera, e quindi di mettere eventualmente in discussione, le assunzioni implicite nei nostri modi di interpretare la logica del vivente. Marcello tiene così insieme dentro un’unica trincea tre livelli che troppo frequentemente viaggiano disgiunti: quello dei contenuti delle teorie scientifiche considerate, quello dei modelli epistemologici sottesi e quello dei processi di formazione.

Lo sfondo di riferimento è dato chiaramente dalle teorie sistemiche e dalle cosiddette “teorie della complessità”, ma interpretate qui con grande concretezza, vitalità, originalità e intensità. Si ha l’idea di un felice percorso solitario a partire da precursori, e non da guru, che hanno lasciato tracce feconde, anche se necessariamente non sistematiche. E’ un tentativo che si pone, in questo, agli antipodi di quelle visioni della “complessità” biologica e antropologica ispirate a un sincretismo vuoto, a un olismo tuttologico buono per ribadire qualsiasi banalità. Questa complessità viva, animata dai discorsi di bambini ricercatori, non è un addensato di luoghi comuni spacciati per profondità filosofiche, e dunque a loro volta trasfigurate in un universalismo teorico doppiamente riduzionistico, dove ripetitivamente ci accontentiamo di ribadire che tutto è complesso, che tutto è interconnesso, che tutto è pertinente e compatibile con tutto. Al contrario, qui esiste anche il disconnesso, il conflittuale, l’incompatibile, esiste anche la consapevolezza della necessità di una precisione di analisi, di un’oscillazione creativa fra metodo scompositivo e metodo sistemico. Ma l’originalità sta soprattutto in un approccio che è del tutto estraneo alla deriva antiscientifica e consolatoria che la “filosofia della complessità” ha imboccato nel nostro paese, tradendo in questo modo la sua ispirazione originaria di dialogo scientifico transdisciplinare.

Epistemologia sperimentale significa però anche abituarsi a scoperte ricorsive inaspettate. Stai studiando altro e scopri che hai scoperto qualcosa su te stesso. Percepisci il ruolo fondamentale dello spiazzamento, il non dare troppa confidenza a ciò che si pensa di sapere. In un circolo virtuoso di insegnamento/apprendimento capisci l’importanza dell’utilizzo nei laboratori sull’evoluzione con i bambini di metodi “exattativi”, cioè fondati sul continuo riutilizzo creativo di ciò che si ha a disposizione, sul rimettere in circolazione le intuizioni del singolo, sull’interpretazione dei vincoli esistenti come risorse e non come limiti paralizzanti. Ti accorgi di essere immerso in un processo relazionale in fieri che genera la scelta e l’identità in una trama già da sempre intersoggettiva, come del resto suggeriscono oggi le neuroscienze.

I tre livelli della scienza, dell’epistemologia e della formazione si intrecciano dunque nuovamente. Da questo libro avrete di primo acchito un’idea, dall’interno, della complessità e dell’articolazione della teoria dell’evoluzione, delle sue implicazioni filosofiche, della sua capacità di attivare idee e interpretazioni inedite della realtà, della sua capacità esplicativa ma anche del suo carattere a volte controintuitivo. Ma entrerete anche dentro il cantiere della spiegazione evoluzionistica e delle sue interessanti controversie: il continuo e il discreto, le funzioni e i fini, il caso e la contingenza, la legge e le storie, il progresso e la catastrofe, il tempo profondo e il tempo recente, le cause prossime e le cause remote, l’antropocentrismo e il decentramento naturalistico. E poi, ancora, attraverso gli occhi dei bambini, attraverso le loro illuminazioni improvvise, le discussioni, i ripensamenti, la costruzione collettiva di un consenso condiviso attorno a un’idea o a una distinzione cruciale, tornerà la necessità di fare chiarezza nei concetti, di mettere ordine fra le categorie, di correggersi a vicenda e così modulare un apprendimento autorganizzato in cui svanisce la demarcazione netta fra chi apprende e chi insegna.

Ecco allora che questa dinamica di rigore e di immaginazione insieme svela tutte le sue analogie con quella della scoperta scientifica stessa. Forse la comunicazione della scienza farà un passo avanti quando prediligerà, anziché l’esclusiva (e più sicura) divulgazione di teorie e di conclusioni già acquisite, la “messa in scena” dei processi sorprendenti - di curiosità, di connessione fra idee, di modellizzazione estetica, di approfondimento e integrazione – che intervengono nella scoperta scientifica, nel momento aurorale e creativo della costruzione di una nuova ipotesi, di una nuova interpretazione dei fenomeni naturali da parte della mente. In fondo Marcello lavora, con i suoi bambini ricercatori e con gli insegnanti che forma, attorno alle logiche della scoperta scientifica. E rivela che i bambini, con gli scarti di lato e la libertà delle loro esplorazioni, hanno una spiccata dimestichezza con la dimensione precipua della scoperta.

Capita di incontrare scienziati, anche molto anziani, che conservano questo tratto neotenico di divertimento quasi fanciullesco, una certa irriverenza verso i confini disciplinari e gli schemi precostituiti, un fiuto speciale per i nuovi spazi di indagine, una disinvoltura nell’utilizzare metodi e conoscenze già sedimentate ma sempre con l’idea di un loro prossimo superamento. E’ l’atteggiamento che traspare, per esempio, dalla lettura dei “Taccuini della Trasmutazione” del giovanissimo Charles Darwin, appena tornato dal suo viaggio intorno al mondo. Si definisce un geologo, ma si occupa di tutte le scienze naturali. Sfida i maestri. Cerca connessioni inedite. Cambia idea, intuisce di avere una grande teoria, la “sua” teoria. Alla fine tenacemente la trova. Vi è qualcosa di molto giovanile e neotenico, e umano, in questo atteggiamento.

Vi è qualcosa che risuona con una posta in gioco non solo scientifica, ma anche e soprattutto educativa, tanto preziosa quanto delicata, che Marcello Sala non ha il timore di affrontare di petto, anziché rimuovere. In fondo, l’orizzonte è pur sempre quello di una scuola democratica, non più intesa come il terreno di conquista delle ideologie. Pensiamo alla vicenda infinita della revisione dei programmi delle scuole pubbliche, con la scienza umiliata come se fosse una sottocultura, con il ritorno periodico a ridicole valorizzazioni delle culture locali, con l’ossessione per un fantomatico umanesimo minacciato, con l’esigenza nascosta, e inconfessabile, di liberalizzare i programmi per introdurre surrettiziamente una formazione della “persona” ispirata da principi confessionali di parte. Ecco, la scuola di Marcello è un’altra cosa: è l’isola che non c’è della libertà di scoperta, è l’isola dove insegnanti e bambini fanno ricerca gli uni con gli altri, dove l’errore non è eresia, ma esplorazione di possibilità per apprendere insieme.

Telmo Pievani