INTRODUZIONE Questo
libro - fondato, come il precedente Il volo di Perseo (Junior,2004),
su basi culturali ed esperienze professionali molto solide ed estese - è
frutto di un lungo e paziente lavoro sul campo dell’autore in stretta interazione
con insegnanti, educatori e scolari. È dunque in primo luogo destinato a
tutti coloro che quotidianamente lavorano con i bambini. Da questo punto di
vista, non avendo io esperienza di insegnamento in questa fascia di età, né
competenze specifiche nel campo della pedagogia, non sono in grado di motivare
il mio giudizio positivo attraverso riferimenti specifici e puntuali attinenti
al mio mestiere. Mi limito perciò ad affermare che, secondo me, si tratta di
uno strumento prezioso per gli operatori scolastici che condividono
l’obiettivo di stimolare i bambini affidati al loro lavoro di “insegnanti”
alla elaborazione collettiva di nuove conoscenze, attraverso un processo di
autonoma autoorganizzazione dei rapporti reciproci
e di riorganizzazione collettiva della visione del mondo circostante, preesistente
in ciascuno di loro. Si tratta di un processo che può essere suscitato, a seconda
dei casi, dall’osservazione di particolari fenomeni o dall’azione diretta
all’adempimento di particolari compiti, guidate dall’educatore senza che ne
vengano fornite interpretazioni o giustificazioni precostituite, in modo che
possano emergerne, dal confronto diretto tra i bambini, spiegazioni
condivise, adeguate all’oggetto e al tempo stesso a misura dell’età dei
soggetti. Detto
questo, posso dire qualcosa di più motivato sul valore culturale del libro
per un pubblico di non addetti ai lavori. L’autore è infatti un profondo
conoscitore dell’opera di Gregory Bateson e delle
teorie sulla complessità formulate dai pionieri di questo campo di studi,
come dimostrano chiaramente le pagine introduttive del libro intese a fornirne
gli elementi di base ai lettori che non avessero familiarità con il loro pensiero.
In particolare della teoria della autopoiesi,
che è stata introdotta da Humberto Maturana e Francisco Varela per
interpretare la risposta di un organismo vivente agli stimoli esterni come
risultato di un processo di auto-riorganizzazione finalizzata alla sopravvivenza
al tempo stesso delle sue componenti e dell’organismo intero nelle condizioni
ottimali. Da
questo punto di vista, obiettivo del libro di Sala è quello di adottare
questa teoria come chiave interpretativa delle complesse dinamiche che
coinvolgono i protagonisti – i bambini, gli educatori e l’osservatore - di microcosmi
caratterizzati da finalità educative differenti. La ricerca tuttavia non si
ferma qui. Essa ne suggerisce anche un uso metaforico, che ne mette in
evidenza slittamenti di contesto e suggerisce modulazioni del modello capaci
di arricchirla e di fornire nuove ipotesi pedagogiche. Senza entrare nei
dettagli tecnici di questa disciplina – cosa che del resto non sarei nemmeno
in grado di fare – mi sembra utile fornire qualche rapido elemento per cogliere
l’essenza del metodo proposto nei due casi concretamente studiati. *
* * Nel primo si trattava di studiare il
processo di autoorganizzazione delle attività e dei
rapporti reciproci dei bambini affidati alle cure di un educatore in una
ludoteca. Tanto per dare un’idea della ricchezza e della varietà dei concetti
utilizzati al fine di fare emergere un ordine dall’osservazione delle azioni
dei soggetti coinvolti e dalla registrazione delle loro conversazioni –
inizialmente percepite a prima vista dall’osservatore come indecifrabile
“casino” - ne scelgo due o tre che mi hanno particolarmente incuriosito. Uno è
l’uso dell’analogia con il teatro che ricorre spesso nelle considerazioni
dell’autore. “Nel percorso che andava
dalla nostra reazione a una mancanza di ordine - leggiamo - al tentativo di
riconoscere un ordine diverso, uno degli organizzatori di senso che avevamo
trovato si può esprimere in una parola che appartiene alla pratica teatrale:
il flusso”. E ancora: “Un pomeriggio in ludoteca ci dava l’impressione
di una ‘improvvisazione’: i gruppi si componevano e si scomponevano;
territori di gioco si costituivano, si dilatavano elasticamente, si
suddividevano o si dissolvevano; spazi, strutture e oggetti venivano
investiti di intenzione e abbandonati; interazioni si intrecciavano e si
sovrapponevano; il tutto come all’interno di un unico flusso soggetto
a modulazioni ma che mai si interrompeva.” Un altro termine che ricorre spesso è
ovviamente quello, tipicamente batesoniano, di gioco.
“Un gioco – spiega Sala – iniziava in molti modi per messa in atto di un
progetto che il bambino si portava dietro arrivando in ludoteca, per
continuazione di un gioco del giorno precedente, per incontro casuale con un
oggetto che catturava l’attenzione, per ricerca della compagnia di persone
cui si era affezionati, per osservazione curiosa o per esplorazione
dell’ambiente, per variazione di un gioco precedente, per contrattazione,
anche per suggerimento di un adulto...” E ancora: “Un gioco, una volta
iniziato, definiva un territorio nel senso che diventava possibile percepire
un ‘dentro’ e un ‘fuori’. Non si trattava di uno spazio fisico stabile,
perché il gioco si poteva trasferire in luoghi diversi, poteva allargare o
restringere la sua superficie di azione; poteva essere anche fisicamente uno
spazio discontinuo, sovrapposto e intrecciato con territori di altri giochi,
più simile allora a una ‘nicchia ecologica’ definita dalla continuità delle
relazioni funzionali.” Il percorso dell’indagine sulla ludoteca
come sistema autopoietico, che tocca una grande
varietà di altri temi - dall’ambiente educativo alla forma dell’azione educativa
- si compie con un ritorno ai temi iniziali: il corpo dei bambini tra
gioco e teatro e la pratica teatrale nella formazione dell’educatore. E
se l’educazione – si chiede in conclusione l’autore – fosse propriamente un gioco,
dove bambini ed educatori compiono le loro mosse secondo delle regole, ma con
una dinamica imprevedibile che costruisce la storia della coevoluzione
delle rispettive identità? * *
* Il secondo sistema oggetto di
indagine ha, in un cero senso, caratteristiche più specifiche. Esso è
costituito dall’insieme di conversazioni scientifiche dei bambini di una
scuola elementare come luogo di costruzione sociale della conoscenza, all’interno di una ricerca che
ruotava attorno all’interrogativo essenziale: come si favorisce lo sviluppo
della conoscenza scientifica nei bambini? I punti di partenza centrali per
portare avanti la risposta a questa domanda mi sembrano due: uno è che “fare
educazione scientifica è mediare tra il sapere scientifico ‘esperto’ e
le rappresentazioni spontanee dei bambini”, e l’altro, non meno importante,
che “l’insegnante di scienze costruisce le condizioni, i contesti, per
le scoperte dei bambini”, sulle quali essi fondano “la costruzione di
conoscenza a partire dalla propria esperienza”. Prima di entrare nel merito dei temi
trattati nelle conversazioni con e tra i bambini conviene accennare ad una
premessa metodologica che l’autore considera essenziale. Essa è che in una
pedagogia che faccia riferimento all’auotoorganizzazione
dei bambini una parola chiave è ascolto. Se è vero, infatti, che gli
esseri umani non sono “macchine banali” (nel senso di von Foerster)
cioè prevedibili, e dunque che bisogna rinunciare all’illusione che il
bambino si possa trattare come una “scatola nera” nella quale occorre mettere
in atto determinati input didattici (causa) per ottenere i corrispondenti
output di apprendimento (effetto), è necessario assumere l’ascolto “come
idea pedagogica, che appartiene cioè alla problematizzazione
e alla riflessione sul campo dei fenomeni educativi” Per fare dell’ascolto oggetto
di ricerca occorre mettere in atto una situazione costruita appositamente. La
proposta è quella di dar vita nella classe a una piccola comunità di ricerca
che si interroga a partire da domande e situazioni problematiche”. La domanda
da cui partire può emergere spontaneamente, ed allora sta all’insegnante di raccoglierla.
Ma può anche essere l’insegnante direttamente a proporla come problema
da risolvere. L’essenziale è che si tratti di una domanda legittima,
cioè che viene fatta perché non si conosce già la risposta. Naturalmente può
essere che l’insegnante sappia già qualche cosa sull’argomento: in questo
caso lo spirito della domanda legittima sta nell’accertare che non
esistano risposte “giuste” in partenza. Per un insegnante di scienze la
“risposta” pertinente riguarda la relazione tra soggetto e oggetto della conoscenza,
il percorso che ogni bambino, ogni bambina, ogni gruppo di bambini fa per rispondere
in modo adeguato. Per chiudere scelgo due conversazioni
con protagonisti diversi per età e cultura per illustrare concretamente come
si è proceduto. La prima è quella dei bambini di una seconda che ha avuto
luogo sulla riva del mare alle 16.00 di un giorno di settembre. Essa comincia
con la domanda della maestra: Di che colore è l’acqua del mare? Le
prime due risposte sono una “Celeste” e l’altra “Gialla e verde acqua”: Alla
richiesta di spiegazioni entra in gioco il Sole. Si innesca una digressione
sul Sole, la luce e l’ombra. Ma presto qualcuno osserva: “Maestra, l’acqua
non è blu... cioè la immaginiamo blu ma veramente è trasparente perché quando
la metti in un bicchiere bianco è bianca.” Non è qui il caso di andare
avanti, ma posso assicurare il lettore che la conversazione, proprio perché è
imprevedibile, è avvincente: sembra di essere a teatro. “Come si vede – interviene a questo
punto Sala – l’insegnante in questa conversazione interviene molto, ma mai
per dire la propria idea nel merito: assume quelle dei bambini e semmai
chiede loro di motivarle, di confrontarle con ciò che possono osservare
direttamente, cogliendo al volo gli spunti che i bambini offrono. Questo atteggiamento
garantisce la ‘scientificità’ della conoscenza su due versanti: il
riferimento a un oggetto e la pratica di un pensiero logico sperimentale.” La seconda conversazione, che ha per
protagonisti bambini della quinta elementare, si sviluppa a partire dalla
domanda: Come si è formato il sistema solare? Essa viene tuttavia
questa volta analizzata da Sala a più riprese per individuarne anche aspetti
diversi da quello puramente cognitivo. Per esempio quello affettivo-relazionale.
È il caso di una enunciazione, che vede in disaccordo Giulia a Matteo
sull’origine del Sole e delle stelle, di fronte alla quale la maestra, pur
ritenendola “errata”, non manifesta giudizi negativi né fornisce le risposte
“giuste”: adotta invece, alimentando il conflitto cognitivo, una strategia
per fare in modo che i bambini si correggano da soli. Poco dopo, ritornando sullo stesso
tema, l’autore vuole cogliere l’aspetto dei meccanismi di costruzione cooperativa
della conoscenza e quello del conflitto cognitivo. Il primo caso si
verifica quando i bambini trovano un concetto comune che, pur apparendo scorretto
nella nostra terminologia – nel caso specifico il termine atmosfera per significare il campo comune nel quale sono immersi tutti e
nove pianeti del sistema – può rappresentare il segno di un significato
condiviso. Nel secondo caso - questa volta è Giulia che si interroga sulla
relazione fra rotazione e gravità - è una ipotesi che nasce nel corso della
conversazione che permette di sottoporre a prova la “teoria”. Il resoconto del processo autopoietico di costruzione sociale della conoscenza
attraverso le conversazioni scientifiche dei bambini si chiude infine
con due sezioni molto dense. La prima vuole mostrare come i “comportamenti cognitivi”
osservati possono essere messi in “relazione con aspetti fondamentali della
conoscenza scientifica, come il riferimento all’esperienza, i modelli, il
pensiero logico, la rappresentazione e il linguaggio.” La seconda ha per
oggetto “l’esame del dominio delle interazioni tra il sistema autopoietico dei bambini impegnati nella conversazione e
quell’elemento fondamentale del suo “ambiente” che è l’insegnante.” Sono
sicuro che entrambe saranno giudicate assai stimolanti da chi fa questo
mestiere. *
* * Lascio a questo punto il lettore a
scavare da sé nella miniera di osservazioni, intuizioni, stimoli profusi a
piene mani in questo libro, esortandolo a imparare da Marcello Sala, a
leggerlo con lo stesso metodo con il quale l’autore legge le conversazioni
dei bambini, Questo significa che la “com-prensione” del libro va
riorganizzata, dopo una prima ricognizione globale, attraverso successivi
incontri parziali e mirati per coglierne via via
ogni volta ciò che risuona in quel momento con quello che il lettore ha già costruito
dentro di sé. In sostanza esortandolo a fare quello che tutti noi batesoniani abbiamo imparato a fare dal nostro Maestro. Marcello
Cini |