Marcello Sala

PIETÀ O GIUSTIZIA?

-pubblicato in- 

INSEGNARE on-line 12-12-2003

Paravia Bruno Mondadori

 

 

Nelson Mandela, quando assunse il poteresponsabilità di governare il SudAfrica, si trovò di fronte a un enorme problema formativo: la possibilità di convivenza tra neri e bianchi, e quindi la possibilità di sopravvivenza del nuovo stato, dipendeva da un cambiamento nel modo di pensare l’altro, diverso da quello consolidatosi con l’apartheid. La vendetta dei neri avrebbe radicato il nuovo stato nella vecchia struttura relazionale dell’odio razziale, mentre la cancellazione del passato lo avrebbe fondato sull’ingiustizia.

Conosco una rappresentazione visiva del dilemma di Mandela: è una di quelle ”istantanee” di Henri Cartier-Bresson che “evocano una situazione, una verità” cogliendo il “momento decisivo”.

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CARNEFICE E VITTIMA

La storia che vedo in questa immagine è ambientata nel 1945 in una delle zone liberate dall’occupazione nazista: protagonista (gli sguardi di tutti convergono su di lei) una donna in divisa (una collaborazionista, forse una “kapò” di un campo di concentramento) catturata e condotta davanti a una autorità inquirente. Intorno un gruppo di persone, in maggioranza civili, che fino a poco fa sono state vittime (qualcuno indossa la divisa a strisce) di quella organizzazione di potere criminale di cui la donna ha fatto parte. È un arresto, non un linciaggio: le persone, ostili ma silenziose e composte, che fanno cerchio tenendosi a un passo di distanza, costituiscono una organizzazione sociale, che esprime un’autorità ancora provvisoria (lo stanzone in cui siamo è forse un luogo di ritrovo popolare, e il vecchio tavolino che fa da scrivania è macchiato dal vino versato), cui è delegato il compito di fare giustizia.

Ma c’è un altro sguardo su questa immagine: nel qui e ora della situazione vedo la donna in divisa esposta inerme alla rudezza dell’altra donna che funge da guardia e che la strattona (unico movimento nella staticità della scena sospesa nella tensione), alla freddezza del funzionario che maneggia gli strumenti dell’autorità (i documenti, la penna o il timbro), al risentimento del  coro tragico dei presenti, sola di fronte all’inevitabilità del proprio destino; vedo sul suo viso un’espressione infantile, quella di una bambina colta in fallo che esala dalle labbra un “non l’ho fatto apposta” di fronte ad un potere da cui dipende la sua vita e da cui non può sfuggire. Questo secondo sguardo è quello della pietà.

A nessuno dei due moti dell’anima che l’immagine suscita, la giustizia e la pietà, posso e voglio rinunciare senza sentire che ne uscirebbe mutilata la mia umanità e con essa la dimensione etica della mia professionalità di educatore. Mandela scelse una terza via per il suo popolo, quella della rinuncia non solo alla vendetta, ma anche alla punizione, ma come esito di un processo di ricostruzione storica di fatti, in cui venissero giudicate e assunte pubblicamente responsabilità individuali.

Del resto alle dicotomie moralistiche preferisco le spiegazioni che mantengono un legame con la biologia. Nel mondo vivente la sopravvivenza è riferita a una entità che va al di là dell’individuo, sia nel senso del gruppo, sia nel senso di quella continuità attraverso le generazioni che trova supporto nella dinamica genetica. Per la specie umana, alla biologia si aggiunge la cultura: il senso della sopravvivenza collettiva si struttura su dinamiche emotive e affettive che partono dalla possibilità di identificarsi: l’altro è un mio simile, e questo fonda l’idea di un bene che è tale solo se è per tutti. In questo senso non posso rinunciare alla pietà per una ragione etica (“trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e non semplicemente come mezzo” è l’ “imperativo categorico” di Kant).

Ed è questa stessa dimensione etica radicata nella biologia che, all’interno di in una organizzazione sociale, produce anche la giustizia, come sistema di idee e di pratiche.

Ma affermare di non voler rinunciare a nessuna delle due istanze in nome di una stessa esigenza etica non mi esime dal fare i conti con la loro diversità e con il conflitto.

UN CONFLITTO EPISTEMOLOGICO

Eviterò l’errore di collocare la diversità in una dicotomia del tipo ragione/sentimento, come se non ci fosse anche un sentimento di giustizia, o la pietà non fosse una qualità dell’uomo saggio e ragionevole; ma si tratta comunque di un conflitto profondo, perché la diversità coinvolge le premesse epistemologiche.

Chi pratica la psicologia in un ambito terapeutico (e questo vale in generale per tutte le relazioni di “presa in cura”) assume il contesto delle relazioni personali nelle loro dinamiche emotive e affettive; l’identificazione empatica è un suo strumento fondamentale di lavoro, e può limitarla di volta in volta alla persona che prende in cura; la colpa è per lui un elemento di patologia e una causa di sofferenza; la soggettività è un riferimento ineliminabile e quindi può assumere come criterio l’intenzione (il “non l’ho fatto apposta”).

Chi invece deve fare giustizia si fa carico delle regole di convivenza da cui dipende la sopravvivenza dell’organismo sociale; attribuisce pari dignità a tutti i soggetti contemporaneamente, e quindi non può dimenticare le vittime; assume un contesto storico all’interno del quale il giudizio ricostruisce i fatti come effetti di azioni per attribuire responsabilità; la colpa è per lui un risultato del giudizio e da essa dipende una qualche forma di risarcimento; e questo perché ha come contesto l’organizzazione sociale, che è qualcosa di più e di meno, ma comunque di diverso, dalla somma delle relazioni e delle identità personali.

Io sono perplesso quando leggo su un quotidiano destinato alla “gente comune” che “La violenza e l’abuso producono nella vittima un’incresciosa identificazione con l’aggressore” [1] o quando sento dire che, se un “branco” esercita una violenza sistematica su una persona, c’è qualcosa in lei che la porta ad assumere quel ruolo di “capro espiatorio”. Ma il fatto che io non capisca non è importante, perché in qualche teoria che non conosco queste potrebbero essere delle “spiegazioni”; quello che mi è chiaro però è che il punto di vista di un educatore ha pertinenze diverse da quelle di uno psicoterapeuta. Non solo il primo non ha le competenze del secondo (e forse chi è in difficoltà starebbe meglio se potesse contare su competenze diverse), ma soprattutto la responsabilità dell’educatore deriva dalla funzione di inserimento dei giovani nella cultura in cui vivono, in quel contesto sociale che comprende, per la sua storia, una dimensione etica, e quindi anche istituzioni, pratiche e sentimenti, di giustizia.

PERTINENZE E CONTESTI

Ho detto che non posso rinunciare né alla pietà né alla giustizia e poi ho mostrato come siano in conflitto; e dunque: che fare? Se devo seguire la via più facile e più praticata, posso rappresentarmi un mondo in cui uno dei due elementi in conflitto non esiste e vivere dentro di esso. E se il mio lavoro implica una relazione con altre persone che in qualche modo dipendono da me, come quella educativa, posso trascinare anche loro dentro questo mondo.

Ma i sistemi viventi, biologici e sociali, necessitano sia della distinzione che della integrazione delle parti. È essenziale, in termini di sopravvivenza, che i viventi apprendano a reagire ai significati, e quindi a distinguere i contesti. Saper riconoscere in quali contesti è pertinente la giustizia e in quali la pietà è vitale per una umanità che le comprenda entrambe.

Anche l’educazione è un sistema di pertinenze, e il fatto che si parli di educazione in contesti diversi come la famiglia e la scuola rende più difficile distinguerli. Sarebbe semplificatorio, al limite del ridicolo, dire che l’educazione familiare è centrata sulla pietà, ovvero sull’amore, mentre la scuola è luogo di una pedagogia della giustizia. La realtà è ben più complessa; pure è importante non trascurare il salto di livello di organizzazione, e quindi di pertinenze, che c’è tra i due contesti.

In occasione di vicende giudiziarie recenti, in cui ancora una volta etica della pietà ed etica della giustizia entravano in drammatico conflitto [2], con sollievo ho potuto ascoltare voci che hanno tentato di costruire un’integrazione nella distinzione. Si tratta di persone che si sono assunte la responsabilità di decidere sul destino di altre all’interno di una organizzazione sociale, persone che nello specifico dei meccanismi giudiziari hanno pienamente assunto la dimensione della colpa e della relative conseguenze di riduzione della libertà, e che contemporaneamente hanno pensato e iniziato a praticare percorsi di cura ed educativi nei confronti dei colpevoli.

Esse si sono sottratte alla logica della separazione che ci costringe a scegliere, disconoscendo la complementarietà necessaria, tra solidarietà e giudizio, tra “materno” e “paterno”.

Io credo che già l’utilizzare termini come “codice materno” e “codice paterno” in situazioni che non riguardano la famiglia sia un errore epistemologico, perché tende ad assimilare i contesti disconoscendone la costitutiva diversità. Seguendo un modello suggeritomi dalla saggezza epistemologica di bambini di quinta elementare, io credo che tra biologia e cultura non ci sia né separazione né uniformità, ma una specie di stratificazione successiva nella direzione che va dalla natura alla cultura, in cui ogni strato include i precedenti: in questo senso famiglia e società umane, così come relazioni personali e relazioni sociali, stanno in “strati” diversi caratterizzati da una diversa distanza dalla “natura” biologica.

CODICI RELAZIONALI

A livello delle relazioni personali lo stupro è una violenza di un uomo su una donna. Ma lo stupro è anche un fatto sociale (la sua pratica nei conflitti etnici ne è una riprova): come ci sono condizioni che lo favoriscono o che lo ostacolano, ci sono discorsi e azioni che lo inseriscono in un contesto di significati, di valori, di rapporti sociali. La figura, resa familiare dalle cronache, della madre dello stupratore, che difende il figlio dalle pratiche di giustizia che la società ha elaborato per difendere le vittime della violenza, ci dice qualcosa sulla contraddizione che si crea quando un codice relazionale (quello materno in questo caso), che nasce in uno “strato” di relazioni più vicino alla biologia, viene esteso a un livello di ordine di complessità superiore come quello della organizzazione sociale.

In questo caso, a livello sociale, il codice femminile della cura finisce per colludere con quello della violenza maschile, perché contribuisce di fatto alla sopraffazione della vittima, opponendosi alle prassi di risarcimento personale che, pur nella loro limitatezza, la società civile ha saputo elaborare, e interferendo, a livello educativo, con l’attribuzione di valore e disvalore che è implicito nel sistema di legalità, e con l’azione di dissuasione dai comportamenti contro la persona.

Un ricordo indelebile del mio primo viaggio in Sicilia è quello delle manifestazioni di compiacimento con cui una madre accoglieva, attorno alla tavola familiare di una festa di cresima, la narrazione delle imprese di “gallismo” dei propri figli. Ciò che mi rendeva insopportabile la situazione era vedere come quella persona, evidentemente vittima, in quanto donna e in quanto siciliana, di una sottocultura governata da rapporti di dominio, ne diventava non solo complice, ma attiva trasmettitrice, in quanto educatrice dei propri figli.

Quando Primo Levi [3], per i deportati dei Lager, parla della “zona grigia”, dove l’essere vittima e l’essere oppressore sono inestricabilmente e dolorosamente intrecciati, parte dalla premessa che la prima condizione non cancella le responsabilità della seconda, ovvero che, in un codice di relazioni sociali, non viene meno il giudizio negativo sui comportamenti che nuocciono ad altre persone.

DEMOCRAZIA

La non distinzione di pertinenze e la non integrazione tra lo “strato” dei rapporti personali e quello della organizzazione sociale ha effetti anche su un valore fin qui fondamentale nella nostra pedagogia, quello della democrazia.

Naturalmente la differenza che ho fin qui nominato nei termini di “pietà e giustizia” o di “empatia e responsabilità” può venire iscritta nel linguaggio della differenza di genere come “codice femminile” e “codice maschile”.

In questo contesto ho registrato critiche alle forme della democrazia perché la logica “oggettiva” della maggioranza, nel codice maschile della legge, reprime le irriducibili soggettività, a cominciare da quella di genere. Ho visto anche che cosa succede in un gruppo, una piccola organizzazione sociale, quando quelle forme di democrazia vengono eliminate: la convivenza sociale passa (torna) al regime di clan, ovvero una rete di relazioni affettivo-economiche retta dall’inclusione-esclusione. E qui a lungo mi sono interrogato su quale relazione ci fosse tra la caratterizzazione femminile (oltre che femminista) di questa critica alla democrazia e la instaurazione di un sistema sociale di clan in ambienti a forte dominanza femminile come quello educativo. La domanda è: quale ruolo costitutivo gioca il femminile nella struttura del clan, che, almeno nella nostra cultura, ci appare nelle forme della dominazione maschile?

C’è una metafora di fondo rispetto al femminile che mi convince proprio perché si radica nella biologia; riguarda l’attitudine all’accogliere e la “metafora vivente” è quella della gravidanza: niente può essere più accogliente che portare e nutrire dentro di sé un altro.

Ma la biologia mi aiuta a completare la metafora: la femmina è quella che si prende cura della propria prole. La parola che viene dimenticata è “propria”. Biologicamente c’è una fondamentale cifra di inclusione-esclusione nel comportamento femminile di cura-difesa. Se la cura del proprio e la difesa dall’altro nella relazione biologica è basata sui legami genetici, nella relazione sociale è basata sull’empatia e sul legame: accolgo, mi prendo cura di, difendo, chi empaticamente sento legato a me.

Se i confini della protezione e della presa in cura sono stabiliti da legami d’origine o dall’empatia, allora la regolazione delle relazioni interpersonali nel clan[4] è ricondotta a fattori soggettivi, nel senso che si sottraggono a qualsiasi definizione, permanenza, controllo sociale. È chiaro come su questo terreno, soggetto all’arbitrio, possa essere la forza, individuale o di aggregazione, a divenire l’elemento regolatore.

Se per superare i limiti della democrazia si finisce per fare un salto indietro nella storia della civiltà, credo che, ancora una volta, l’errore sia nella separazione e contrapposizione di ciò che, come in questo caso oggettivo e soggettivo, è invece complementare in una relazione necessaria e dinamica.

 



[1]  Così Silvia Vegetti Finzi sul Corriere della sera in un commento ad episodio di stupro.

[2]  Una lettura di Foucault (“Io, Pierre Riviére,…” , “Storia della follia nell’età classica”) ci aiuta a capire le origini storiche di una relazione tra esercizio della giustizia e psicologia che è cruciale nella nostra cultura, o il rapporto “genealogico” tra la psicoanalisi e pratiche in cui la cura di sé si integra con relazioni di potere, come la confessione nella religione cattolica.

 

[3]  Primo Levi, “I sommersi e i salvati”, Einaudi.

[4]   È Freud a sostenere che all’empatia si giunge attraverso l'identificazione e che queste identificazioni "stanno a fondamento dello spirito di clan" (Freud S. (1921), Psicologia delle masse e analisi dell'Io).