Un approccio diverso alla
formazione dell’educatore: dall’insegnamento alla regia
educativa. L’importanza dei contesti, degli
sfondi, dei tempi…
Nel MCE (Movimento
di Cooperazione Educativa) viaggiamo molto, e ci capita spesso di essere
ospitati in casa di qualcuno, con cui per un po’ condividiamo un tempo anche
al di là del lavoro. Schematizzando si può dire che i modelli di riferimento
dell'ospite ospitante sono due: quello che ci dà le chiavi di casa e, continuando
a vivere la sua vita, lascia che ci organizziamo il nostro soggiorno, e
quello che sta con noi, avendo predisposto un tempo comune. E noi cosa
preferiamo: essere liberi ma soli, oppure sentirci accolti ma inglobati? Nel caso di iniziative
residenziali il ruolo del padrone di casa si sdoppia: un gruppo organizzatore
MCE si pone come intermediario tra i partecipanti e la struttura estranea che
ospita; pur essendo ospitato dalla struttura, questo gruppo si pone come
ospitante nei confronti dai partecipanti. Alla prima edizione
della Scuola Estiva del MCE, nel '93 a Revine, il gruppo organizzatore si era in qualche modo
impadronito della struttura rimodellandone gli spazi (o i significati degli
spazi) per l'uso della scuola. Gli ospitati arrivando trovavano non soltanto
il "banchetto" di segreteria dove iscriversi e ricevere indicazioni
logistiche e informazioni, ma anche un luogo già abitato e caratterizzato (mostre,
cartelloni, luoghi di lavoro allestiti). I commenti avevano sottolineato
positivamente l'aspetto dell'accoglienza. ACCOGLIENZA In sede di
progettazione '93 si era pensato che anche nel pomeriggio
di pausa, che si apriva tra i laboratori della prima parte e i seminari della
seconda, fosse opportuno offrire la possibilità di partecipare a delle
attività. Se si vuole, era la proposta di una "ricreazione
intelligente", in termini di ecologia della persona: il che implicava essenzialmente
"staccare", uscire fisicamente dalla sede per attività non connesse
ai temi di laboratori e seminari. L'idea era anche di mostrare come nel MCE
vi sia una capacità e uno stile di gestione di un "tempo scuola"
complessivo, un modo di praticare globalmente l'esperienza educativa. A questa idea se ne era
aggiunta un'altra: costruire una relazione con il luogo che avrebbe ospitato
la scuola. Una terza esigenza era entrata poi a fare parte del progetto:
poiché i nostri laboratori curano e creano una buona dimensione di gruppo,
era prevedibile un inizio difficile per i seminari, che si sarebbero
costituiti smontando i gruppi di laboratorio. Alle attività del "giovedì
pomeriggio" era stato affidato dunque il compito di "fondare"
i nuovi gruppi., Ciò di fatto implicava da una parte una partecipazione obbligatoria
e dall'altra un "contenitore" complessivo che mettesse in relazione
le attività dei gruppi: uno spazio di comunicazione dunque. Dal numero di gruppi e
dal tempo a disposizione venne l'indicazione che questo comunicare, cioè
provare a condividere significati, fosse conciso e significativo.
Dalla necessità di un luogo per questo incontro sociale, nacque l'idea
che uno dei gruppi curasse il luogo e desse forma all'accoglienza degli
altri. Ciò richiedeva una struttura di tempi e spazi, e il silenzio
come spazio di ascolto per accogliere le comunicazioni dei gruppi. Le caratteristiche del
lavoro vennero individuate nella relazione con il proprio corpo
(corpo-movimento, corpo-percezione, corpo-voce, corpo-memoria) e nella relazione
tra il corpo e ciò che lo circonda. Ciò richiede come condizioni una
sospensione del commentare, del meta-pensare, la disponibilità a mettersi in
relazione "diretta" (azione-reazione). Ma questa disponibilità è
prigioniera del guscio delle abitudini e liberarla quasi inevitabilmente
richiede una extraquotidianità dei gesti. TEATRALITÀ E RITO Ecco dunque gli
elementi in gioco: condividere significati, comunicazione concisa e
significativa, incontro sociale, struttura di tempi e spazi, silenzio come spazio
di ascolto, extraquotidianità dei gesti. È evidente, soprattutto nel
contesto di una "animazione", il riferimento al teatro.
Pensavamo la dimensione teatrale come organica rispetto a una esigenza di
"ritualità", che a sua volta è organica all'esigenza di un gruppo
di vedersi restituita una immagine di sé, nella misura in cui l'esperienza
che sta vivendo lo costituisce come gruppo. L'esperienza suscitò
qualche critica; qualcuno la lesse attraverso altre categorie e parlò di
"liturgia". Ma c'è un totale capovolgimento del rapporto tra segno
e significato tra una liturgia, in cui si pretende che i segni abbiano
valore di per sè, indipendentemente dal tempo, dal
contesto e dal fatto che le persone non ne vivano più il significato nella
loro esperienza, e una ritualità teatrale, che nasce dalla ricerca
organica di gesti che rendano visibili nient'altro che i significati vissuti
in quella esperienza, per verificarne la condivisione. In quel "giovedì
pomeriggio" la strutturazione dello spazio e del tempo, il silenzio, l'accoglienza
erano condizioni, la condivisione dei significati era una scommessa
(le persone presenti potevano sentirsi o no immerse in una esperienza
comune); il rapporto tra segno e significato era molto una sineddoche
(parte per il tutto), o tuttalpiù una metafora.
Del simbolico mancava una stabilizzazione del rapporto segno-significato
dentro la continuità di un contesto antropologico o sociologico o
psicologico. Quello che interessa in
questo tipo di metafore (pensiamo sempre al teatro) non è un meccanico
riconoscere i significati a partire dai segni, ma chiedersi se l'agire la
metafora apre o no alle persone nuove possibilità di dare senso
all'esperienza, di fare nuove esperienze, o di fare nuova l'esperienza. LA RELAZIONE CON IL CONTESTO Anche quest'anno l'équipe che progetta e gestisce la
Scuola Estiva del MCE per la seconda edizione a Caorle
si è posta il problema dell'esperienza complessiva di soggiorno dei
partecipanti, dunque anche di tutto ciò che sta intorno al nucleo duro
costituito dai laboratori-seminari tematici. In quella sede si è sviluppata
una dialettica tra due poli, quello della libertà (non più attività che coinvolgessero
tutti come passaggi obbligati) e quello dell'accoglienza (prendersi cura dei
partecipanti non solo al loro arrivo ma per tutto il tempo del soggiorno). Da
una simile dialettica può nascere una tensione all'equilibrio o una
contraddizione insanabile. A noi non piaceva l'idea
di una scuola che potrebbe svolgersi allo stesso modo in qualunque altro
luogo e tempo, che cioè non vive alcuna relazione con il contesto in cui si
colloca. Ma assumere il contesto quest'anno voleva dire fare i conti non con
un unico spazio "nostro" in cui alloggiare e lavorare, bensì una
situazione di dispersione: un luogo di lavoro lontano da quello di soggiorno,
un luogo di soggiorno condiviso con centinaia di altre persone estranee (un
villaggio turistico), una convivenza per piccoli gruppi (bungalows). Su questi elementi
abbiamo lavorato. Si è cercato di creare un "centro" attraverso dei
segni visibili e una funzionalità di riferimenti, ma a renderlo vivo è stata
poi la qualità di presenza di una persona. Stante la dispersione, abbiamo
pensato di sottolineare ancor più il momento dell'accoglienza iniziale. Dopo
le indicazioni pratiche sui dove e i come, gruppetti di neoarrivati
venivano affidati a una "guida" che li conduceva attraverso il villaggio
in un luogo particolarmente bello dove raccontava loro una storia di viaggio.
Poi a tutti veniva consegnato come dono un ciondolo di ceramica da mettere al
collo. La scelta dell'oggetto non rispondeva solo a un valore estetico ma
anche a una qualità affettiva, perché fabbricato con le proprie mani da alcune
persone del gruppo in un laboratorio MCE. Il messaggio voleva essere:
"ti ho atteso; ti riconosco per quello che sei ora: un viaggiatore; ti
dedico un gesto affettuoso". Oltretutto i racconti introducevano al tema
della scuola: identità e diversità. RITUALITÀ E TEATRO Anche quest'anno dunque
c'è stato un momento di ritualità che coinvolgeva tutti i partecipanti, ma
non era più centrato su una identità collettiva, quella che l'anno precedente
aveva suscitato qualche rifiuto, forse da parte di chi in un rito di
appartenenza sentiva minacciata la propria autonomia. Ritualizzare in
concreto per noi significa far emergere in modo evidente elementi da uno
sfondo. Ciò significa prima di tutto non dare per scontato; ad esempio porre
attenzione a qualcosa che si colloca fuori del contesto attuale ma che è ben
presente nel vissuto delle persone, come l'esperienza del viaggio al momento
dell'arrivo; o qualcosa che appartenendo all'esperienza quotidiana resterebbe
sotto la soglia di attenzione, come il camminare. Un modo di attivare
l'attenzione è quello di fare dell'attesa un'esperienza da vivere e non solo
ciò che si frappone tra noi e l'oggetto atteso, Allora i tempi e gli spazi
tra un evento e l'altro acquistano spessore; come sfondo nelle intenzioni di
chi fa la regia, ma con la possibilità di assumere il ruolo di figure
emergenti nel vissuto di ciascuno. L'esempio più calzante è il silenzio, che
è lo sfondo di un racconto o di una azione, ma che per la nostra cultura è di
per sé un vissuto che si impone fortemente alla coscienza. Sentiamo tutto ciò
vicino al teatro. E appunto l'altra modalità con cui, come ospiti ospitanti,
ci siamo presi cura dei nostri ospiti ospitati durante il soggiorno è stato
il "teatro della natura". La ragione per cui usiamo per questa
proposta la parola "teatro" è che crediamo che con il teatro
condivida quel paradosso che sta nella possibilità di cogliere
"verità" agendo situazioni "artificiali". È nel "qui
e ora" irripetibile dell’incontro tra azione dell'attore e ascolto-sguardo
dello spettatore che, all'interno di una struttura anche rigida, possono
nascere "momenti di verità", riconoscimenti, condivisione di
significati, identificazioni collettive. Nella nostra proposta,
diversamente che nel teatro, attore e spettatore coincidono. È forse questo
che ne può fare un'altra proposta di "divertimento educativo". IL TEATRO DELLA NATURA In concreto si trattava
di quattro serate costruite ciascuna attorno a un racconto, in cui il
racconto però è stato solo uno dei modi per entrare in relazione con gli
elementi naturali dell'ambiente, presenti "qui e ora". Altri modi
sono stati il camminare e l'ascoltare, ogni volta con una intenzione, e
quindi una attenzione, diversa alla relazione tra il corpo e l'ambiente. L'ultima serata comprendeva
anche una cena giocata sui colori. Anche qui la cura era quella di non dare
per scontato, di sottolineare un momento come quello del mangiare insieme:
renderlo bello, giocarlo, attraverso la creazione di un contesto inusuale,
inaspettato, curato nell'estetica e nella dinamica delle relazioni. Il contesto di queste
attività (come della pratica di yoga prima della colazione del mattino) era
quello di una partecipazione libera e facoltativa, ma di una presenza e una
cadenza evidente negli spazi, nei tempi e nel tipo di attività, di una
proposta disponibile ad accogliere chi lo volesse quando lo volesse, ma
presente sullo sfondo con una sua continuità, un suo ritmo. Tra i risultati di
questa proposta crediamo vi sia quello della costruzione di una relazione con
il luogo: "siamo qui ora". Questa dimensione mancava nelle proposte
di laboratorio e seminario, cioè nel corpo principale della scuola estiva.
Questa disorganicità era una condizione di partenza: non sappiamo se abbia
condizionato negativamente il nostro lavoro o se siamo riusciti in qualche
modo a costruire un equilibrio. Proposte come questa
del "teatro della natura" sanno di andare incontro alla possibilità
di scontrarsi con le aspettative, gli schemi di riferimento, che i
partecipanti si portano dietro rispetto a una dimensione di residenzialità, e
che possono andare dal modello "convegno" in cui fuori dai momenti
di lavoro ciascuno cerca "altrove" svago e aggregazioni libere, al
modello "socializzazione", in cui si promuovono relazioni
collettive attraverso situazioni conviviali, di spettacolo e di festa. STRUTTURA E CREATIVITÀ Di fronte ad
aspettative diverse la nostra scelta di "padroni di casa" non è
quella di sottoporle a contrattazione per arrivare a un minimo comune, quanto
quella di assumerci la responsabilità di proporre noi un gioco. Come in ogni
gioco, a ogni nuova giocata non si sa quale sarà il flusso degli avvenimenti,
che cosa accadrà tra i giocatori; quello che si conosce già prima è la
struttura del gioco, le sue "regole". E spesso sono regole che
"spiazzano", che costringono a uscire dagli stereotipi della
quotidianità. A volte ci è stata
rimproverata la rigidezza della struttura delle nostre proposte, vissuta come
limite alla creatività. Per esperienza di lavoro para-teatrale crediamo che
la libera espressione del movimento faccia emergere non la creatività del
corpo, ma gli stereotipi dello scatenamento, che sono potenti come quelli
della costrizione motoria. Per noi la struttura è la condizione per
l'esprimersi di una creatività che si muove più sul dettaglio, sulla
amplificazione e discriminazione della percezione, sulla attivazione della
memoria personale, sulla organicità della relazione percezione-memoria-azione.
Nella pratica dell'oralità, ad esempio, il racconto è un'azione vissuta
nell'irripetibilità di relazioni sottili che si costruiscono tra chi racconta
e chi ascolta in quel luogo e in quel momento. L'interessante è la
dinamica tra struttura e processo, tra struttura e creatività. Il contenitore
garantisce e confina, accoglie e limita. Il nostro "contenitore",
nato sull'azzardo di far convivere una libera partecipazione individuale con
la pretesa di essere in qualche modo "sfondo integratore", ha
vissuto questa ambivalenza a vari livelli: nelle attività all'interno della
dinamica tra struttura e creatività, nell'ospitalità tra accoglienza e
libertà, nella ritualizzazione tra senso di appartenenza e rispetto della
diversità. In generale ci sembra di esserci mossi tra la polarità delle due
esigenze fondamentali della crescita umana: la fusione e l'autonomia. LA REGIA La ricerca di un punto
di equilibrio o di una compensazione attraverso oscillazioni dipendeva dalle
condizioni del contesto, dal dato della dispersione dei luoghi come
dall'organizzazione dei laboratori, dalla meteorologia come dall'orario del
"coprifuoco" nel villaggio. E questo riporta a una
chiave di lettura di questo lavoro, che però è emersa anche in altri momenti
della Scuola Estiva di quest'anno: quello della regia. Il nostro lavoro,
essendo più direttamente legato a pratiche teatrali, ha messo più in evidenza
questo aspetto: in teatro se non funziona la regia non va in crisi solo la
struttura, ma viene meno la condizione per la creatività, sia essa espressa
nell'improvvisazione che nella interpretazione. Tuttavia noi crediamo che
esso abbia, e non solo per metafora, un valore essenziale nell'educazione. La
capacità di creare le condizioni, di rallentare i tempi, di scandire ritmi,
di far emergere figure, di consolidare sfondi, di strutturare contesti, di
fluidificare processi, di mantenere una relazione con il "qui e
ora", di costruire significati stabili e condivisi, delineano una qualità
educativa più organica a una pedagogia dell'ascolto in cui sono i bambini ad
essere gli attori (pedagogia attiva). La capacità di una regia educativa, forse
contrapposta alla programmazione scolastica, uno spostamento di asse
dall’insegnamento alla regia nella formazione dell'educatore: potrebbe essere
questo un prodotto e un punto di partenza della ricerca che ha nella Scuola
Estiva MCE il suo laboratorio. |