Marcello Sala - Chiara Favaro

L’OSPITE REGISTA

-pubblicato in- 

COOPERAZIONE EDUCATIVA

n. 4 / 1994

La Nuova Italia

 

Un approccio diverso alla formazione dell’educatore:

dall’insegnamento alla regia educativa.

L’importanza dei contesti, degli sfondi, dei tempi…

 

   Nel MCE (Movimento di Cooperazione Educativa) viaggiamo molto, e ci capita spesso di essere ospitati in casa di qualcuno, con cui per un po’ condividiamo un tempo anche al di là del lavoro. Schematizzando si può dire che i modelli di riferimento dell'ospite ospitante sono due: quello che ci dà le chiavi di casa e, continuando a vivere la sua vita, lascia che ci organizziamo il nostro soggiorno, e quello che sta con noi, avendo predisposto un tempo comune. E noi cosa preferiamo: essere liberi ma soli, oppure sentirci accolti ma inglobati?

   Nel caso di iniziative residenziali il ruolo del padrone di casa si sdoppia: un gruppo organizzatore MCE si pone come intermediario tra i partecipanti e la struttura estranea che ospita; pur essendo ospitato dalla struttura, questo gruppo si pone come ospitante nei confronti dai partecipanti.

   Alla prima edizione della Scuola Estiva del MCE, nel '93 a Revine, il gruppo organizzatore si era in qualche modo impadronito della struttura rimodellandone gli spazi (o i significati degli spazi) per l'uso della scuola. Gli ospitati arrivando trovavano non soltanto il "banchetto" di segreteria dove iscriversi e ricevere indicazioni logistiche e informazioni, ma anche un luogo già abitato e caratterizzato (mostre, cartelloni, luoghi di lavoro allestiti). I commenti avevano sottolineato positivamente l'aspetto dell'accoglienza.

ACCOGLIENZA

   In sede di progettazione '93 si era pensato che anche nel pomeriggio di pausa, che si apriva tra i laboratori della prima parte e i seminari della seconda, fosse opportuno offrire la possibilità di partecipare a delle attività. Se si vuole, era la proposta di una "ricreazione intelligente", in termini di ecologia della persona: il che implicava essenzialmente "staccare", uscire fisicamente dalla sede per attività non connesse ai temi di laboratori e seminari. L'idea era anche di mostrare come nel MCE vi sia una capacità e uno stile di gestione di un "tempo scuola" complessivo, un modo di praticare globalmente l'esperienza educativa.

   A questa idea se ne era aggiunta un'altra: costruire una relazione con il luogo che avrebbe ospitato la scuola. Una terza esigenza era entrata poi a fare parte del progetto: poiché i nostri laboratori curano e creano una buona dimensione di gruppo, era prevedibile un inizio difficile per i seminari, che si sarebbero costituiti smontando i gruppi di laboratorio. Alle attività del "giovedì pomeriggio" era stato affidato dunque il compito di "fondare" i nuovi gruppi., Ciò di fatto implicava da una parte una partecipazione obbligatoria e dall'altra un "contenitore" complessivo che mettesse in relazione le attività dei gruppi: uno spazio di comunicazione dunque.

   Dal numero di gruppi e dal tempo a disposizione venne l'indicazione che questo comunicare, cioè provare a condividere significati, fosse conciso e significativo. Dalla necessità di un luogo per questo incontro sociale, nacque l'idea che uno dei gruppi curasse il luogo e desse forma all'accoglienza degli altri. Ciò richiedeva una struttura di tempi e spazi, e il silenzio come spazio di ascolto per accogliere le comunicazioni dei gruppi.

   Le caratteristiche del lavoro vennero individuate nella relazione con il proprio corpo (corpo-movimento, corpo-percezione, corpo-voce, corpo-memoria) e nella relazione tra il corpo e ciò che lo circonda. Ciò richiede come condizioni una sospensione del commentare, del meta-pensare, la disponibilità a mettersi in relazione "diretta" (azione-reazione). Ma questa disponibilità è prigioniera del guscio delle abitudini e liberarla quasi inevitabilmente richiede una extraquotidianità dei gesti.

TEATRALITÀ E RITO

   Ecco dunque gli elementi in gioco: condividere significati, comunicazione concisa e significativa, incontro sociale, struttura di tempi e spazi, silenzio come spazio di ascolto, extraquotidianità dei gesti. È evidente, soprattutto nel contesto di una "animazione", il riferimento al teatro. Pensavamo la dimensione teatrale come organica rispetto a una esigenza di "ritualità", che a sua volta è organica all'esigenza di un gruppo di vedersi restituita una immagine di sé, nella misura in cui l'esperienza che sta vivendo lo costituisce come gruppo.

   L'esperienza suscitò qualche critica; qualcuno la lesse attraverso altre categorie e parlò di "liturgia". Ma c'è un totale capovolgimento del rapporto tra segno e significato tra una liturgia, in cui si pretende che i segni abbiano valore di per , indipendentemente dal tempo, dal contesto e dal fatto che le persone non ne vivano più il significato nella loro esperienza, e una ritualità teatrale, che nasce dalla ricerca organica di gesti che rendano visibili nient'altro che i significati vissuti in quella esperienza, per verificarne la condivisione.

   In quel "giovedì pomeriggio" la strutturazione dello spazio e del tempo, il silenzio, l'accoglienza erano condizioni, la condivisione dei significati era una scommessa (le persone presenti potevano sentirsi o no immerse in una esperienza comune); il rapporto tra segno e significato era molto una sineddoche (parte per il tutto), o tuttalpiù una metafora. Del simbolico mancava una stabilizzazione del rapporto segno-significato dentro la continuità di un contesto antropologico o sociologico o psicologico.

   Quello che interessa in questo tipo di metafore (pensiamo sempre al teatro) non è un meccanico riconoscere i significati a partire dai segni, ma chiedersi se l'agire la metafora apre o no alle persone nuove possibilità di dare senso all'esperienza, di fare nuove esperienze, o di fare nuova l'esperienza.

LA RELAZIONE CON IL CONTESTO

   Anche quest'anno l'équipe che progetta e gestisce la Scuola Estiva del MCE per la seconda edizione a Caorle si è posta il problema dell'esperienza complessiva di soggiorno dei partecipanti, dunque anche di tutto ciò che sta intorno al nucleo duro costituito dai laboratori-seminari tematici. In quella sede si è sviluppata una dialettica tra due poli, quello della libertà (non più attività che coinvolgessero tutti come passaggi obbligati) e quello dell'accoglienza (prendersi cura dei partecipanti non solo al loro arrivo ma per tutto il tempo del soggiorno). Da una simile dialettica può nascere una tensione all'equilibrio o una contraddizione insanabile.

   A noi non piaceva l'idea di una scuola che potrebbe svolgersi allo stesso modo in qualunque altro luogo e tempo, che cioè non vive alcuna relazione con il contesto in cui si colloca. Ma assumere il contesto quest'anno voleva dire fare i conti non con un unico spazio "nostro" in cui alloggiare e lavorare, bensì una situazione di dispersione: un luogo di lavoro lontano da quello di soggiorno, un luogo di soggiorno condiviso con centinaia di altre persone estranee (un villaggio turistico), una convivenza per piccoli gruppi (bungalows).

   Su questi elementi abbiamo lavorato. Si è cercato di creare un "centro" attraverso dei segni visibili e una funzionalità di riferimenti, ma a renderlo vivo è stata poi la qualità di presenza di una persona. Stante la dispersione, abbiamo pensato di sottolineare ancor più il momento dell'accoglienza iniziale. Dopo le indicazioni pratiche sui dove e i come, gruppetti di neoarrivati venivano affidati a una "guida" che li conduceva attraverso il villaggio in un luogo particolarmente bello dove raccontava loro una storia di viaggio. Poi a tutti veniva consegnato come dono un ciondolo di ceramica da mettere al collo. La scelta dell'oggetto non rispondeva solo a un valore estetico ma anche a una qualità affettiva, perché fabbricato con le proprie mani da alcune persone del gruppo in un laboratorio MCE. Il messaggio voleva essere: "ti ho atteso; ti riconosco per quello che sei ora: un viaggiatore; ti dedico un gesto affettuoso". Oltretutto i racconti introducevano al tema della scuola: identità e diversità.

RITUALITÀ E TEATRO

   Anche quest'anno dunque c'è stato un momento di ritualità che coinvolgeva tutti i partecipanti, ma non era più centrato su una identità collettiva, quella che l'anno precedente aveva suscitato qualche rifiuto, forse da parte di chi in un rito di appartenenza sentiva minacciata la propria autonomia.

   Ritualizzare in concreto per noi significa far emergere in modo evidente elementi da uno sfondo. Ciò significa prima di tutto non dare per scontato; ad esempio porre attenzione a qualcosa che si colloca fuori del contesto attuale ma che è ben presente nel vissuto delle persone, come l'esperienza del viaggio al momento dell'arrivo; o qualcosa che appartenendo all'esperienza quotidiana resterebbe sotto la soglia di attenzione, come il camminare. Un modo di attivare l'attenzione è quello di fare dell'attesa un'esperienza da vivere e non solo ciò che si frappone tra noi e l'oggetto atteso, Allora i tempi e gli spazi tra un evento e l'altro acquistano spessore; come sfondo nelle intenzioni di chi fa la regia, ma con la possibilità di assumere il ruolo di figure emergenti nel vissuto di ciascuno. L'esempio più calzante è il silenzio, che è lo sfondo di un racconto o di una azione, ma che per la nostra cultura è di per sé un vissuto che si impone fortemente alla coscienza.

   Sentiamo tutto ciò vicino al teatro. E appunto l'altra modalità con cui, come ospiti ospitanti, ci siamo presi cura dei nostri ospiti ospitati durante il soggiorno è stato il "teatro della natura". La ragione per cui usiamo per questa proposta la parola "teatro" è che crediamo che con il teatro condivida quel paradosso che sta nella possibilità di cogliere "verità" agendo situazioni "artificiali". È nel "qui e ora" irripetibile dell’incontro tra azione dell'attore e ascolto-sguardo dello spettatore che, all'interno di una struttura anche rigida, possono nascere "momenti di verità", riconoscimenti, condivisione di significati, identificazioni collettive.

   Nella nostra proposta, diversamente che nel teatro, attore e spettatore coincidono. È forse questo che ne può fare un'altra proposta di "divertimento educativo".

IL TEATRO DELLA NATURA

   In concreto si trattava di quattro serate costruite ciascuna attorno a un racconto, in cui il racconto però è stato solo uno dei modi per entrare in relazione con gli elementi naturali dell'ambiente, presenti "qui e ora". Altri modi sono stati il camminare e l'ascoltare, ogni volta con una intenzione, e quindi una attenzione, diversa alla relazione tra il corpo e l'ambiente.

   L'ultima serata comprendeva anche una cena giocata sui colori. Anche qui la cura era quella di non dare per scontato, di sottolineare un momento come quello del mangiare insieme: renderlo bello, giocarlo, attraverso la creazione di un contesto inusuale, inaspettato, curato nell'estetica e nella dinamica delle relazioni.

   Il contesto di queste attività (come della pratica di yoga prima della colazione del mattino) era quello di una partecipazione libera e facoltativa, ma di una presenza e una cadenza evidente negli spazi, nei tempi e nel tipo di attività, di una proposta disponibile ad accogliere chi lo volesse quando lo volesse, ma presente sullo sfondo con una sua continuità, un suo ritmo.

   Tra i risultati di questa proposta crediamo vi sia quello della costruzione di una relazione con il luogo: "siamo qui ora". Questa dimensione mancava nelle proposte di laboratorio e seminario, cioè nel corpo principale della scuola estiva. Questa disorganicità era una condizione di partenza: non sappiamo se abbia condizionato negativamente il nostro lavoro o se siamo riusciti in qualche modo a costruire un equilibrio.

   Proposte come questa del "teatro della natura" sanno di andare incontro alla possibilità di scontrarsi con le aspettative, gli schemi di riferimento, che i partecipanti si portano dietro rispetto a una dimensione di residenzialità, e che possono andare dal modello "convegno" in cui fuori dai momenti di lavoro ciascuno cerca "altrove" svago e aggregazioni libere, al modello "socializzazione", in cui si promuovono relazioni collettive attraverso situazioni conviviali, di spettacolo e di festa.

STRUTTURA E CREATIVITÀ

   Di fronte ad aspettative diverse la nostra scelta di "padroni di casa" non è quella di sottoporle a contrattazione per arrivare a un minimo comune, quanto quella di assumerci la responsabilità di proporre noi un gioco. Come in ogni gioco, a ogni nuova giocata non si sa quale sarà il flusso degli avvenimenti, che cosa accadrà tra i giocatori; quello che si conosce già prima è la struttura del gioco, le sue "regole". E spesso sono regole che "spiazzano", che costringono a uscire dagli stereotipi della quotidianità.

   A volte ci è stata rimproverata la rigidezza della struttura delle nostre proposte, vissuta come limite alla creatività. Per esperienza di lavoro para-teatrale crediamo che la libera espressione del movimento faccia emergere non la creatività del corpo, ma gli stereotipi dello scatenamento, che sono potenti come quelli della costrizione motoria. Per noi la struttura è la condizione per l'esprimersi di una creatività che si muove più sul dettaglio, sulla amplificazione e discriminazione della percezione, sulla attivazione della memoria personale, sulla organicità della relazione percezione-memoria-azione. Nella pratica dell'oralità, ad esempio, il racconto è un'azione vissuta nell'irripetibilità di relazioni sottili che si costruiscono tra chi racconta e chi ascolta in quel luogo e in quel momento.

   L'interessante è la dinamica tra struttura e processo, tra struttura e creatività. Il contenitore garantisce e confina, accoglie e limita. Il nostro "contenitore", nato sull'azzardo di far convivere una libera partecipazione individuale con la pretesa di essere in qualche modo "sfondo integratore", ha vissuto questa ambivalenza a vari livelli: nelle attività all'interno della dinamica tra struttura e creatività, nell'ospitalità tra accoglienza e libertà, nella ritualizzazione tra senso di appartenenza e rispetto della diversità. In generale ci sembra di esserci mossi tra la polarità delle due esigenze fondamentali della crescita umana: la fusione e l'autonomia.

LA REGIA

   La ricerca di un punto di equilibrio o di una compensazione attraverso oscillazioni dipendeva dalle condizioni del contesto, dal dato della dispersione dei luoghi come dall'organizzazione dei laboratori, dalla meteorologia come dall'orario del "coprifuoco" nel villaggio.

   E questo riporta a una chiave di lettura di questo lavoro, che però è emersa anche in altri momenti della Scuola Estiva di quest'anno: quello della regia.

   Il nostro lavoro, essendo più direttamente legato a pratiche teatrali, ha messo più in evidenza questo aspetto: in teatro se non funziona la regia non va in crisi solo la struttura, ma viene meno la condizione per la creatività, sia essa espressa nell'improvvisazione che nella interpretazione. Tuttavia noi crediamo che esso abbia, e non solo per metafora, un valore essenziale nell'educazione. La capacità di creare le condizioni, di rallentare i tempi, di scandire ritmi, di far emergere figure, di consolidare sfondi, di strutturare contesti, di fluidificare processi, di mantenere una relazione con il "qui e ora", di costruire significati stabili e condivisi, delineano una qualità educativa più organica a una pedagogia dell'ascolto in cui sono i bambini ad essere gli attori (pedagogia attiva).

   La capacità di una regia educativa, forse contrapposta alla programmazione scolastica, uno spostamento di asse dall’insegnamento alla regia nella formazione dell'educatore: potrebbe essere questo un prodotto e un punto di partenza della ricerca che ha nella Scuola Estiva MCE il suo laboratorio.