Marcello Sala MIRACOLI
O LAVORO? |
-pubblicato in- INSEGNARE n. 11 / 2002
Paravia Bruno Mondadori |
Per
educare alla responsabilità occorre assumersi la responsabilità dell’educare,
che non sopporta separazioni tra ragione e sentimento La
separazione, cioè la perdita della relazione necessaria, tra ragione e
sentimento, o tra cognitivo e affettivo, porta a una contrapposizione: c’è
chi fa il tifo per la ragione e disprezza (o sottovaluta) il sentimento e
viceversa. GLI
“OPPOSTI ESTREMISMI” In ambito educativo la prima
fazione viene identificata con chi usa un codice tutto interno al linguaggio
delle discipline e alle “tecnologie” didattiche, chi sostiene certe forme di didatticismo o la “programmazione curricolare”, ovvero
l’idea che il bambino è una “scatola nera”, che per ottenere certi output di
apprendimento (effetto) occorra mettere in atto i corrispondenti input
didattici (causa) e che il processo sia controllabile dall’ “esterno”. Naturalmente
chi dice “io insegno matematica e non voglio conoscere i fatti privati degli
alunni” fallisce perché dimentica che non si dà alcun apprendimento se non esistono
adeguate condizioni soggettive, di tipo emotivo e affettivo-relazionale.
Chi
considera costui il nemico storico è indotto a iscriversi alla fazione
avversa, quella che ritiene prioritario entrare in relazione con i bambini
dal punto di vista affettivo, esercitando l’empatia. Forse
in Italia, paese di “brava gente” che gira col mandolino, le “ragioni del
cuore” di Pascal perdono un pezzo e resta il cuore, che, si sa, fa rima con
amore. Voglio dire che i sentimenti finiscono per confondersi con i buoni sentimenti.
Così una volta entrati in contatto con i bambini su registri di accoglienza,
si incontrano insormontabili difficoltà nell’apprendimento forse proprio
perché il cambiamento non si mette in moto senza spiazzamento, senza fatica,
senza una dose di sofferenza e soprattutto senza conflitto [1]. Spesso
si insegue la soluzione dei problemi affidandosi alla psicologica, e si corre
il rischio di prendere una parte per il tutto, considerando una delle
“scienze dell’educazione” come l’unica competenza utile all’insegnante
e sottovalutando le “tecniche”, come quelle di Freinet
e di Ciari, o la competenza disciplinare,
soprattutto a livello epistemologico. C’è un nesso tra dominio della psicologia
nell’educazione e disinvestimento dalla pedagogia, ovvero dalla ricerca-azione
di percorsi educativi nella specificità del setting
scolastico. E
non aiuta certo un’altra separazione, tra psicologia cognitiva da una parte e
psicanalisi o psicologie della relazione dall’altra: alla prima la scuola si
rivolge per l’apprendimento dei bambini “normali”, all’altra per i problemi
di inserimento dei bambini “in difficoltà” (= che ci creano difficoltà). Come
se i problemi cognitivi non fossero importanti per l’inserimento in una
comunità che nell’apprendere insieme ha la sua ragione di esistenza, attorno
alla quale organizza la propria vita. Quello
che spesso accade è che, per volersi assumere, in un “delirio di
onnipotenza”, tutti i problemi del bambino, anche quelli che si collocano in
una sfera estranea al contesto della relazione scolastica, si rinuncia al
proprio ambito reale di poteresponsabilità, sorretto
da una competenza specifica, privando i bambini di un possibile contributo al
cambiamento, limitato ma positivo. UN’UNICA
ORGANIZZAZIONE La
disputa tra le due fazioni, andata in onda per anni sotto il titolo
“istruzione o educazione?” prosegue tuttora, magari con altro linguaggio, e
mi appare sempre più insensata [2].
Alla radice vi è un errore epistemologico e il mio modo per rifiutarlo parte
anche da quella cultura scientifica che ha gravi responsabilità nel suo perpetuarsi. Antonio
Damasio, scienziato e materialista, di mestiere fa
il neurologo: come tale osserva che pazienti con lesioni cerebrali in cui risulta
compromessa la capacità di provare sentimenti hanno difficoltà a prendere
decisioni in un contesto relazionale, anche se la loro capacità di ragionare
è intatta. “L’errore
di Cartesio” di cui parla Damasio
[3] è
quello di avere separato una mente pensante immateriale da un corpo meccanico
(e quindi dal cervello), ma del resto il dualismo sta con Platone alle radici
della cultura occidentale. L’errore è anche di avere rovesciato con il suo
“Penso dunque sono” l’organizzazione evolutiva del vivente, che pensa
in quanto è, perché il pensare è causato dalle strutture dell’essere, dal
corpo. “Emozione
e sentimento sono aspetti centrali della regolazione biologica”: il
nostro corpo è predisposto dall’evoluzione a rispondere con cambiamenti del
proprio stato alla percezione di stimoli esterni differenziati; questa “configurazione
di reazioni involontarie del corpo” è un’emozione; “il passo
successivo è il sentire l’emozione in connessione con l’oggetto che l’ha
suscitata”; “il sentimento è la consapevolezza dell’emozione.” È
evidente che questi meccanismi pre-organizzzati, su
cui si strutturano poi quelli derivati dall’esperienza, sono fondamentali
perché “aiutano l’organismo a classificare cose ed eventi come ‘buoni’ o
‘cattivi’ alla luce dei possibili riflessi sulla sopravvivenza. In altre parole,
l’organismo possiede un insieme fondamentale di preferenze – o di criteri, di
inclinazioni, di valori.” E la ragione? La ragione non è una astratta dote della
mente, ma si esprime in un contesto: ”le strategie di ragionamento ruotano
attorno a obiettivi, scelte di azione, previsione di esiti futuri, e programmi
per il conseguimento di quegli obiettivi.” Il
“valore” è fondamentale per interpretare (cognitivamente) le situazioni
ed elaborare decisioni. Ecco perché i pazienti di Damasio,
perfettamente ragionanti ma incapaci di sentimenti, fallivano a questo livello. La
mente funziona dentro il corpo e grazie al corpo e l’integrazione necessaria
(più di una complementarietà dunque) di ragionamento e sentimento ha una base
materiale che sta nella complessa organizzazione dinamica e plastica dei circuiti
neuro-ormonali [4]. Sullo
sfondo di questo discorso ho rivisto due vecchi film la cui storia è
costruita attorno vicende educative, per molti aspetti simili tra loro, che
mi aiutano a riflettere su alcuni nodi importanti. Il
primo, noto ai più, è “Il ragazzo selvaggio” di François Truffaut: un bambino, abbandonato da piccolo nella
foresta e sopravvissuto per una decina d’anni vivendo come un animale, viene
catturato e rinchiuso come “demente” in un istituto per sordomuti. Il Dr. Itard lo sottrae alla minaccia di ricovero in manicomio e
all’esposizione come fenomeno da baraccone, e lo porta a casa propria dove vuole
“tentare di dargli un’educazione”, perché “l’educazione gli consenta
di raccontare i dettagli della sua vita passata”, gli restituisca dunque
un’identità (saranno insieme il dottore e la governante, M.me Guérin, a dargli un nome). UNA
SCIENZA PER L’EDUCAZIONE Se
l’intento è di restituire il bambino a una pienezza di vita umana, quindi
sociale (“prendere a poco a poco le abitudini della società umana”),
l’attenzione è su ciò che distingue l’uomo dall’animale: dunque una
diversa modulazione dei sensi che conduca a discriminare gli stimoli, un uso
degli oggetti e degli strumenti della cultura materiale, ma anche la “sensibilità
al dolore morale” e, soprattutto, il linguaggio verbale. Il
Dr. Itard è un personaggio storicamente collocato
(siamo nel 1798): è un figlio dell’illuminismo, dell’ “ottimismo della ragione”;
Rousseau è sullo sfondo. È un ricercatore che sperimenta e redige meticolosamente
un diario della sua esperienza. All’inizio ha un’ipotesi di ricerca scientifica:
“scoprire qual è il grado di intelligenza
di un adolescente privo fin dall’infanzia di educazione”: là dove il Professor
Pinel è del parere che il bambino sia stato abbandonato
perché idiota, lui pensa che, all’inverso, sia diventato incapace di comunicare
perché abbandonato all’isolamento. Man
mano che prosegue il rapporto con “il selvaggio” la dimensione educativa è sempre
meno separabile da quella di ricerca e Itard investe
nel campo didattico la sua impostazione scientifica. La
struttura dell’apprendimento messa in gioco è quella che oggi definiremmo
“pavloviana” basata sull’associazione di stimoli “condizionati” e
“incondizionati” con un uso del sistema di premi e punizioni. Itard si frappone tra Victor e il soddisfacimento dei
suoi bisogni e desideri, finché questi non assume il comportamento adeguato.
Ma c’è anche un uso di quello che oggi viene indicato con il termine “scaffolding” nell’accompagnare l’apprendimento, mostrando
e suggerendo l’azione, sottraendo progressivamente il supporto dell’adulto. Il
film mostra molto bene come in questo processo sia in gioco una dimensione
globale dell’esperienza. PATERNO
E MATERNO I
miei ragazzi di prima media avevano subito collocato il centro della vicenda
là dove batteva il loro cuore e poteva operare la loro ragione: nella
contraddizione tra educazione (come introduzione alla socialità) e
libertà. Un problema ben presente
anche al Dr. Itard che afferma “era inutile
strapparlo alla vita dei boschi per rinchiuderlo”, che coglie la gioia
del bambino ogni volta che questi ritrova il suo rapporto con la natura e se
ne commuove. Il
film è molto conosciuto e quindi vorrei fermare l’attenzione su una scena
soltanto, quella in cui, dopo che Victor ha appreso l’associazione tra
oggetto e sua icona, Itard, proseguendo nei suoi
esperimenti didattici, sostituisce alle icone le parole corrispondenti. La
reazione del bambino è prima di sconcerto, poi addirittura cade in una crisi
di convulsioni. Itard
chiama M.me Guérin che
prende in grembo il bambino, con aria di rimprovero verso il dottore: “lasciate,
questa volta me ne occupo io”. Quello
che mi colpisce sono le reazioni dei due personaggi perché mi paiono emblematiche
di una dicotomia frequente in ambito educativo. Da una parte il Dr. Itard legge l’episodio in una chiave scientifica: sul suo
diario annota che ha “commesso un grave errore “ di cui si assume la
colpa, quello di non avere considerato che “dalla figura di un oggetto alla
sua rappresentazione alfabetica la distanza è enorme e per Victor la difficoltà
è insormontabile”. Da questo errore trae l’impegno a ricercare un “metodo”
in cui la difficoltà sia commisurata alla capacità raggiunta. Il
suo è un ragionamento didattico, ma quello che Itard
non sembra cogliere è l’aspetto affettivo, che può vanificare ogni sua strategia.
Itard non capisce che la reazione violenta di
Victor è partita dalla sensazione di essere tradito da chi l’ha condotto in
un territorio non suo per poi abbandonarlo (è l’esperienza originaria, il
vissuto drammatico fondante della sua storia). La stessa reazione infatti
l’aveva avuta quando, la prima volta che indossava le scarpe, dopo alcuni
passi guidati, era stato lasciato a se stesso ed era caduto. Dall’altra
parte M.me Guérin entra
in comunicazione con i sentimenti del bambino, accogliendo la sua
sofferenza in un abbraccio; ma la sua lettura della situazione (“questo
bambino è troppo stanco”) è incapace di cogliere la causa scatenante, di
“spiegare” la situazione, e quindi di elaborare una strategia nella
prospettiva di favorire un cambiamento, come invece fa Itard.
La sua posizione non consente un’evoluzione. In definitiva quelli che vedo in azione sono un codice
paterno e un codice materno che da soli risultano incapaci di comprendere
e quindi di agire in modo educativamente adeguato. INTENZIONALITà E SETTING Il
secondo vecchio film che ho rivisto narra la vicenda di una educatrice
chiamata presso una famiglia a lavorare (il padre sottolinea più di
una volta che “è una stipendiata”) per una bambina handicappata. Ellen, che è divenuta cieca e sorda da piccola, appare “mezza
scema, incapace persino di tenersi pulita”; la madre spiega che “non
può capire”: non sapendo dare significato alle proprie azioni non
sa neppure dare loro un valore, diventando pericolosa a sé e agli altri. Quello che vediamo è una bambina di una dozzina di anni che
si muove a tentoni in un mondo limitato: poche situazioni di relazione affettiva
basate sul contatto fisico e pochi segni basati sulla deissi. La
dinamica familiare si muove tra due poli: l’autoritarismo del padre, il
“capitano” Keller (siamo nel Sud degli USA poco
dopo la guerra civile), che reclama più disciplina perché non tollera il disordine
e al quale la bambina “fa pena”, e l’empatia della madre che si fa interprete
dei suoi bisogni e desideri, ma in modo inadeguato se è vero che lei stessa
manifesta dolore perché Ellen “si allontana”. Ma
ciò che dà a questo film una forte valenza pedagogica, al di là della
psicologia, è l’intenzionalità educativa e il dispositivo che
l’educatrice mette in atto. Il progetto è quello di far ri-nascere al mondo (l’immagine
simbolica è quella del pulcino che schiude il guscio) una bambina che gli handicap
percettivi limitano gravemente. L’intenzionalità educativa sta anche nella consapevolezza
della protagonista, Miss Sullivan, del proprio
ruolo di tramite per la conoscenza (“avrei voluto insegnarti tutto
ciò di cui è ricca la terra“). La parola “insegnare” verrà usata molte
volte, e Miss Sullivan sa che il primo problema
dell’insegnare è “come raggiungere” la bambina. Per l’educatrice la costruzione dell’identità e di una
dignità sociale sono legate al possesso del linguaggio. È una finalità etica
che passa attraverso una finalità cognitiva: le due cose non sono separabili. C’è una “vita dell’anima” da disseppellire, ma ciò
si realizza “scavando”, con “pazienza e zelo”. La professionalità
di Miss Sullivan implica una consapevolezza
cognitiva e didattica: il primo passo è insegnare a Ellen l’alfabeto dei
sordi; ma l’associazione segno-oggetto non è sufficiente: manca ciò che sta
in mezzo, il significato, senza il quale il mondo del pensiero verbale è
precluso. L’impegno a superare questa soglia non uscirà mai dal campo di
attenzione di Miss Sullivan. Ma professionale è anche la consapevolezza dell’esigenza di
un setting: l’educatrice, che ha come fine
l’autonomia della bambina (“la pietà non l’aiuterà ad essere indipendente”),
sa che ciò avverrà costruendo delle condizioni “artificiali” di provvisoria dipendenza.
La dipendenza è comunque un dato di realtà (“lasciarla fare tutto a modo
suo è una menzogna”), ma nel dispositivo pedagogico è funzionale a
costruire l’obbedienza; questa a sua volta è solo una condizione e non un
fine, perché “obbedire senza capire è un’altra forma di cecità”. C’è bisogno di un setting
dunque, in cui il processo possa essere gestito, un luogo altro, uno
spazio materialmente e simbolicamente lontano dalla famiglia (la casetta nel
bosco dove la bambina non avrà contatto con i familiari) dove saranno in
vigore altre regole, altre forme di relazione: “chi può aiutarla è solo un
estraneo e non chi le vuole bene”. CODICI DI RELAZIONE Là
dove la domanda della madre è “ma quando imparerà?” perché nel
suo codice di relazione affettiva il riferimento è il benessere della figlia,
e quindi ciò che importa è la fine della sua sofferenza, l’educatrice nel suo
codice, che è professionale, si pone il problema pedagogico del come. Il conflitto con la famiglia è uno scontro tra questi codici
relazionali: già nei primi momenti, quando, per calmare l’aggressività di Ellen,
la madre le dà una caramella, Miss Sullivan si
arrabbia perché così premia un comportamento violento: da una parte c’è il benessere
come valore, dall’altra una valutazione di coerenza tra azione e finalità. Durante
il primo pranzo in comune, Miss Sullivan osserva Ellen
che mangia muovendosi attorno alla tavola e prendendo il cibo con le mani dai
piatti di tutti e tutti lasciano fare, perfino il severo capitano Keller che giustifica questo comportamento con l’esigenza
di “tenerla buona”. Miss Sullivan invece respinge
la bambina dal proprio piatto e apre il conflitto, in cui usa le parole “viziata”
e “tiranna” mentre dall’altra la parola chiave è “pietà”; più avanti
Miss Sullivan dirà che “è più comodo avere
compassione che insegnarle ad essere migliore”. Miss
Sullivan prende l’iniziativa, fa uscire tutti e
decide di insegnare alla bambina a mangiare seduta a tavola, dal
proprio piatto e con le posate. Segue una scena che nel film assume una
rilevanza cruciale. Sono ben 8 minuti di scontro fisico reiterato, di pura violenza,
in cui non sono risparmiate botte, cibo sputato, oggetti scagliati e rotti. È
una scena insopportabile, e per tutta la sua durata il sonoro è costituito dai
rumori della lotta, dall’ansimare di Miss Sullivan
e dai versi di Ellen; non c’è musica a suggerire i sentimenti: il regista lascia
lo spettatore solo di fronte alla nudità dell’azione. Il
ciclo di interazione tra l’educatrice che costringe e la bambina che si
ribella sembra ripetersi all’infinito: ogni volta che Miss Sullivan sembra averla vinta, Ellen scatena di nuovo la
sua reazione cui l’educatrice a sua volta reagisce. Ai limiti di
sopportazione il regista interrompe ciò che nel tempo narrato dura ore, per
portare lo spettatore alla conclusione: Miss Sullivan
esce esausta, con visibili sul corpo i segni della lotta e comunica alla
madre che Ellen ha mangiato nel suo piatto e “ha piegato il suo tovagliolo”. IL
CONFLITTO La struttura di apprendimento che Miss Sullivan
mette in azione è per associazioni e per “premi e punizioni”; il suo metodo
appare molto semplice e rude. L’educatrice si frappone tra la bambina e la soddisfazione
di un suo desiderio finché Ellen non adotta il comportamento voluto e, poiché
nessuna comunicazione sonora o visiva è possibile e l’unica via è il
contatto, questo sistema porta allo scontro fisico. Quando, dopo il periodo di separazione e di addestramento
(i cui risultati in termini di comportamento soddisfano i genitori ma non
Miss Sullivan, che sa che Ellen non ha superato la
soglia del significato delle parole), si scatenerà di nuovo lo scontro sullo
stare a tavola, il conflitto è sul codice entro il quale interpretare la
situazione: per i genitori è una festa per il ritorno di Ellen, il desiderio
di benessere (non solo quello della bambina) è il centro organizzatore della
com-mozione generale, da cui deriva un atteggiamento di “indulgenza”
dei familiari. L’interpretazione di Miss Sullivan
è in un codice pedagogico: Ellen sta mettendo tutti alla prova e l’esito
potrà rimettere in discussione il percorso educativo fatto fin qui. Ancora una volta, quello che ai familiari appare come un
accanimento crudele perché è letto nei termini di un’aridità di sentimenti,
è per l’educatrice un comportamento professionale, che costa fatica e sofferenza,
ma che poggia su un nesso razionale tra scopo e azione. Quello che è in gioco è la responsabilità di Ellen:
la conoscenza e la consapevolezza che le restituiscono la dignità di persona
e la reinseriscono in una relazione con il mondo, implicano libertà, quindi responsabilità. Ciò
che impedisce ai genitori di “insegnare” la responsabilità, è non il rapporto
affettivo con Ellen ma quel rapporto affettivo, tipico del registro
familiare. Perché anche quello di Miss Sullivan è
un investimento affettivo forte, che viene dalla sua autobiografia: lei stessa
è affetta da gravi problemi visivi e ha avuto una terribile esperienza di
abbandono e di ricovero in un ospizio a contatto con malattia e degradazione.
C’è quindi una dinamica di identificazione nella sofferenza con la
bambina. Ma
questo lo spettatore lo sa solo attraverso i mezzi del linguaggio
cinematografico, che danno accesso al mondo interno di Miss Sullivan, e quanto lei stessa dirà verso la fine; nella
concretezza del rapporto con Ellen l’educatrice contiene questa dinamica affettiva
dentro il codice professionale. Alla domanda “lei vuole bene alla bambina?”
risponde “comincio a volergliene” soltanto dopo che ha riportato un
successo nella lotta per insegnare a Ellen a vestirsi, e più avanti dirà “…
io non l’amo: non è mica figlia mia”. E nello scioglimento finale del
dramma c’è un significativo scambio dopo che Ellen è arrivata a conquistare
il significato delle parole: Ellen indica Miss Sullivan
e compita “maestra” e lei risponde assentendo “sì, maestra”. E
il fatto che a questo punto la famiglia rientri in casa stretta
nell’abbraccio a Ellen, mentre Miss Sullivan resta
fuori, mi appare altrettanto significativo e coerente rispetto a una delimitazione
del setting e della consapevolezza dei diversi
codici di relazione. UNA
PROVOCAZIONE Quando si usa il testo di un film come stimolo per una
riflessione, si sta in qualche modo “dentro” al film, sia pure come
spettatori. Anche se i confini sono sfumati e gli sconfinamenti frequenti,
c’è però una dimensione più esterna al film, che lo assume come oggetto su
cui si esercitano operazioni culturali, come l’attribuzione di senso in un contesto
di comunicazione sociale. Una di queste operazioni significative è quella di
dargli un titolo. Il
titolo originale di Arthur Penn è “The miracle worker”. Il termine “worker”
il mio dizionario lo traduce con “lavoratore, operaio, manovale”. Il termine
“miracolo” rimanda a un evento “prodigioso”che si verifica “fuori dell’ordine
della natura” a opera di personaggi dotati di poteri extraumani. L’ossimoro
manifesta una intenzione provocatoria: l’idea del miracolo, che richiama l’extraordinarietà, la gratuità, la qualità sublime,
l’irripetibilità di un gesto dall’effetto incomparabile, è associata all’idea
di una attività di basso livello, condotta da persone comuni, lontana anche
dall’arte (l’operaio non è neppure l’artigiano), dove dominano la
quotidianità, la fatica, la qualità umile, la banalità del rapporto tra
azione ripetuta e suo risultato. Un
evento dall’eccezionale impatto sentimentale prodotto da una razionalità
operativa è una provocazione forte se collocata all’interno della cultura
italiana: l’Italia è un paese cattolico in cui sono tuttora vive tradizioni
religiose di antichissima data, che affondano le radici nello stesso humus
etnologico da cui sopravvive la magia. In Italia il miracolo è un oggetto di
grande valore antropologico e culturale, tanto da indurre prudenza perfino
nei depositari dell’ortodossia religiosa, che vorrebbero colonizzare la religiosità
popolare, ma temono anche la forza di una cultura ancestrale magica, vitalistica,
capace di influenzare il sentire della gente comune. Sull’altra
sponda anche la massima espressione della cultura laica moderna, la scienza,
deve fare i conti con la sopravvivenza di questa cultura. Se nell’esistenza
materiale la tecnologia impregna ormai gli aspetti della quotidianità, il
pensiero scientifico che ne è la base non è affatto radicato nel pensare
comune. Anzi la scienza viene investita di rappresentazioni e aspettative che
sembrano lasciare intatto il nucleo della relazione magica (“Alla scienza
come a San Gennaro” era la conclusione di una ricerca sulle rappresentazioni
che della scienza hanno gli insegnanti[5]). Tutto
ciò rende estremamente significativo il cambiamento di titolo imposto al
film, che nella versione italiana è diventato “Anna dei miracoli” (Anna
è il nome di Miss Sullivan). RESPONSABILITà L’eliminazione
della parola “worker”, e con essa
dell’ossimoro, lascia al centro la parola “miracolo”. Lo slittamento semantico
è uno slittamento di valori, per il quale sicuramente la scena più
significativa del film diventa quella più com-movente (grazie anche all’uso
della musica e delle classiche regole cinematografiche del climax drammatico
e del suo scioglimento positivo): la bambina, proprio quando Anna sta per
partire sconfitta, improvvisamente riesce, attraverso un corto circuito di
memoria attivato dalla percezione e fortemente connotato emotivamente, a fare
quel passo decisivo verso l’acquisizione del significato che le apre il mondo
del pensiero verbale e della relazione sociale, oltre che restituirle una
identità piena. Un vero miracolo… se ci si dimentica ciò che si vede e
ascolta in tutto il film a proposito del lavoro di Miss Sullivan. L’etica,
e quindi la pedagogia, del miracolo è caratterizzata dalla dipendenza da un potere
esterno, dalla eliminazione del nesso tra azione e risultato; in altre parole
dalla rinuncia alla responsabilità. Durante l’ultima campagna elettorale ho ascoltato
interviste televisive in cui molti/e dichiaravano di votare per quello che
sarebbe poi diventato capo del governo perché era un imprenditore di successo:
da lui ci si aspettava un incremento del proprio benessere. L’idea che
il proprio successo possa derivare dal favore di un potente e non dal lavoro
o comunque da qualche forma di realizzazione di qualità personali mi sembra
una manifestazione proprio di quella eclissi della responsabilità personale. E la responsabilità è sempre una qualità della relazione
sociale che si realizza nella concretezza e nella specificità dei ruoli,
delle competenze, delle funzioni in un sistema che vive della diversità e
della interdipendenza. Per questo la rinuncia a una pedagogia della responsabilità
è uno svuotamento della dimensione sociale del vivere. |
[1] L’importanza del conflitto come luogo dello
sviluppo cognitivo è messo in luce dal lavoro di Clotilde Pontecorvo (si veda
per tutti: Discutendo s’impara, Carocci 1998)
[2] Se ne è occupato
Riccardo Massa: Educare o istruire?, Laterza
1997 e Cambiare la scuola. Educare o
istruire?, Unicopli 1987.
[3] Antonio R. Damasio, L’errore di
Cartesio, Adelphi 1995, da cui sono tratte le citazioni seguenti.
[4] G. M. Edelman – G. Tononi, Un universo di coscienza (come la materia
diventa immaginazione), Einaudi 2000.
[5] Marcello Sala, I “super premi Nobel”, in: Cooperazione Educativa, n.1/1997,
La Nuova Italia.