Marcello Sala

MIRACOLI O LAVORO?

-pubblicato in- 

INSEGNARE n. 11 / 2002

Paravia Bruno Mondadori

 

Per educare alla responsabilità occorre assumersi la responsabilità dell’educare, che non sopporta separazioni tra ragione e sentimento

 

La separazione, cioè la perdita della relazione necessaria, tra ragione e sentimento, o tra cognitivo e affettivo, porta a una contrapposizione: c’è chi fa il tifo per la ragione e disprezza (o sottovaluta) il sentimento e viceversa.

GLI “OPPOSTI ESTREMISMI”

In ambito educativo la prima fazione viene identificata con chi usa un codice tutto interno al linguaggio delle discipline e alle “tecnologie” didattiche, chi sostiene certe forme di didatticismo o la “programmazione curricolare”, ovvero l’idea che il bambino è una “scatola nera”, che per ottenere certi output di apprendimento (effetto) occorra mettere in atto i corrispondenti input didattici (causa) e che il processo sia controllabile dall’ “esterno”.

Naturalmente chi dice “io insegno matematica e non voglio conoscere i fatti privati degli alunni” fallisce perché dimentica che non si dà alcun apprendimento se non esistono adeguate condizioni soggettive, di tipo emotivo e affettivo-relazionale.

Chi considera costui il nemico storico è indotto a iscriversi alla fazione avversa, quella che ritiene prioritario entrare in relazione con i bambini dal punto di vista affettivo, esercitando l’empatia.

Forse in Italia, paese di “brava gente” che gira col mandolino, le “ragioni del cuore” di Pascal perdono un pezzo e resta il cuore, che, si sa, fa rima con amore. Voglio dire che i sentimenti finiscono per confondersi con i buoni sentimenti. Così una volta entrati in contatto con i bambini su registri di accoglienza, si incontrano insormontabili difficoltà nell’apprendimento forse proprio perché il cambiamento non si mette in moto senza spiazzamento, senza fatica, senza una dose di sofferenza e soprattutto senza conflitto [1].

Spesso si insegue la soluzione dei problemi affidandosi alla psicologica, e si corre il rischio di prendere una parte per il tutto, considerando una delle “scienze dell’educazione” come l’unica competenza utile all’insegnante e sottovalutando le “tecniche”, come quelle di Freinet e di Ciari, o la competenza disciplinare, soprattutto a livello epistemologico. C’è un nesso tra dominio della psicologia nell’educazione e disinvestimento dalla pedagogia, ovvero dalla ricerca-azione di percorsi educativi nella specificità del setting scolastico.

E non aiuta certo un’altra separazione, tra psicologia cognitiva da una parte e psicanalisi o psicologie della relazione dall’altra: alla prima la scuola si rivolge per l’apprendimento dei bambini “normali”, all’altra per i problemi di inserimento dei bambini “in difficoltà” (= che ci creano difficoltà). Come se i problemi cognitivi non fossero importanti per l’inserimento in una comunità che nell’apprendere insieme ha la sua ragione di esistenza, attorno alla quale organizza la propria vita.

Quello che spesso accade è che, per volersi assumere, in un “delirio di onnipotenza”, tutti i problemi del bambino, anche quelli che si collocano in una sfera estranea al contesto della relazione scolastica, si rinuncia al proprio ambito reale di poteresponsabilità, sorretto da una competenza specifica, privando i bambini di un possibile contributo al cambiamento, limitato ma positivo.

UN’UNICA ORGANIZZAZIONE

La disputa tra le due fazioni, andata in onda per anni sotto il titolo “istruzione o educazione?” prosegue tuttora, magari con altro linguaggio, e mi appare sempre più insensata [2]. Alla radice vi è un errore epistemologico e il mio modo per rifiutarlo parte anche da quella cultura scientifica che ha gravi responsabilità nel suo perpetuarsi.

Antonio Damasio, scienziato e materialista, di mestiere fa il neurologo: come tale osserva che pazienti con lesioni cerebrali in cui risulta compromessa la capacità di provare sentimenti hanno difficoltà a prendere decisioni in un contesto relazionale, anche se la loro capacità di ragionare è intatta.

“L’errore di Cartesio” di cui parla Damasio [3] è quello di avere separato una mente pensante immateriale da un corpo meccanico (e quindi dal cervello), ma del resto il dualismo sta con Platone alle radici della cultura occidentale. L’errore è anche di avere rovesciato con il suo “Penso dunque sono” l’organizzazione evolutiva del vivente, che pensa in quanto è, perché il pensare è causato dalle strutture dell’essere, dal corpo.

“Emozione e sentimento sono aspetti centrali della regolazione biologica”: il nostro corpo è predisposto dall’evoluzione a rispondere con cambiamenti del proprio stato alla percezione di stimoli esterni differenziati; questa “configurazione di reazioni involontarie del corpo” è un’emozione; “il passo successivo è il sentire l’emozione in connessione con l’oggetto che l’ha suscitata”; “il sentimento è la consapevolezza dell’emozione.”

È evidente che questi meccanismi pre-organizzzati, su cui si strutturano poi quelli derivati dall’esperienza, sono fondamentali perché “aiutano l’organismo a classificare cose ed eventi come ‘buoni’ o ‘cattivi’ alla luce dei possibili riflessi sulla sopravvivenza. In altre parole, l’organismo possiede un insieme fondamentale di preferenze – o di criteri, di inclinazioni, di valori.”

E la ragione? La ragione non è una astratta dote della mente, ma si esprime in un contesto: ”le strategie di ragionamento ruotano attorno a obiettivi, scelte di azione, previsione di esiti futuri, e programmi per il conseguimento di quegli obiettivi.”

Il “valore” è fondamentale per interpretare (cognitivamente) le situazioni ed elaborare decisioni. Ecco perché i pazienti di Damasio, perfettamente ragionanti ma incapaci di sentimenti, fallivano a questo livello.

La mente funziona dentro il corpo e grazie al corpo e l’integrazione necessaria (più di una complementarietà dunque) di ragionamento e sentimento ha una base materiale che sta nella complessa organizzazione dinamica e plastica dei circuiti neuro-ormonali [4].

Sullo sfondo di questo discorso ho rivisto due vecchi film la cui storia è costruita attorno vicende educative, per molti aspetti simili tra loro, che mi aiutano a riflettere su alcuni nodi importanti.

Il primo, noto ai più, è “Il ragazzo selvaggio” di François Truffaut: un bambino, abbandonato da piccolo nella foresta e sopravvissuto per una decina d’anni vivendo come un animale, viene catturato e rinchiuso come “demente” in un istituto per sordomuti. Il Dr. Itard lo sottrae alla minaccia di ricovero in manicomio e all’esposizione come fenomeno da baraccone, e lo porta a casa propria dove vuole “tentare di dargli un’educazione”, perché “l’educazione gli consenta di raccontare i dettagli della sua vita passata”, gli restituisca dunque un’identità (saranno insieme il dottore e la governante, M.me Guérin, a dargli un nome).

UNA SCIENZA PER L’EDUCAZIONE

Se l’intento è di restituire il bambino a una pienezza di vita umana, quindi sociale (“prendere a poco a poco le abitudini della società umana”), l’attenzione è su ciò che distingue l’uomo dall’animale: dunque una diversa modulazione dei sensi che conduca a discriminare gli stimoli, un uso degli oggetti e degli strumenti della cultura materiale, ma anche la “sensibilità al dolore morale” e, soprattutto, il linguaggio verbale.

Il Dr. Itard è un personaggio storicamente collocato (siamo nel 1798): è un figlio dell’illuminismo, dell’ “ottimismo della ragione”; Rousseau è sullo sfondo. È un ricercatore che sperimenta e redige meticolosamente un diario della sua esperienza. All’inizio ha un’ipotesi di ricerca scientifica: “scoprire  qual è il grado di intelligenza di un adolescente privo fin dall’infanzia di educazione”: là dove il Professor Pinel è del parere che il bambino sia stato abbandonato perché idiota, lui pensa che, all’inverso, sia diventato incapace di comunicare perché abbandonato all’isolamento.

Man mano che prosegue il rapporto con “il selvaggio” la dimensione educativa è sempre meno separabile da quella di ricerca e Itard investe nel campo didattico la sua impostazione scientifica.

La struttura dell’apprendimento messa in gioco è quella che oggi definiremmo “pavloviana” basata sull’associazione di stimoli “condizionati” e “incondizionati” con un uso del sistema di premi e punizioni. Itard si frappone tra Victor e il soddisfacimento dei suoi bisogni e desideri, finché questi non assume il comportamento adeguato. Ma c’è anche un uso di quello che oggi viene indicato con il termine “scaffolding” nell’accompagnare l’apprendimento, mostrando e suggerendo l’azione, sottraendo progressivamente il supporto dell’adulto.

Il film mostra molto bene come in questo processo sia in gioco una dimensione globale dell’esperienza.

PATERNO E MATERNO

I miei ragazzi di prima media avevano subito collocato il centro della vicenda là dove batteva il loro cuore e poteva operare la loro ragione: nella contraddizione tra educazione (come introduzione alla socialità) e libertà.  Un problema ben presente anche al Dr. Itard che afferma “era inutile strapparlo alla vita dei boschi per rinchiuderlo”, che coglie la gioia del bambino ogni volta che questi ritrova il suo rapporto con la natura e se ne commuove.

Il film è molto conosciuto e quindi vorrei fermare l’attenzione su una scena soltanto, quella in cui, dopo che Victor ha appreso l’associazione tra oggetto e sua icona, Itard, proseguendo nei suoi esperimenti didattici, sostituisce alle icone le parole corrispondenti. La reazione del bambino è prima di sconcerto, poi addirittura cade in una crisi di convulsioni.

Itard chiama M.me Guérin che prende in grembo il bambino, con aria di rimprovero verso il dottore: “lasciate, questa volta me ne occupo io”.

Quello che mi colpisce sono le reazioni dei due personaggi perché mi paiono emblematiche di una dicotomia frequente in ambito educativo. Da una parte il Dr. Itard legge l’episodio in una chiave scientifica: sul suo diario annota che ha “commesso un grave errore “ di cui si assume la colpa, quello di non avere considerato che “dalla figura di un oggetto alla sua rappresentazione alfabetica la distanza è enorme e per Victor la difficoltà è insormontabile”. Da questo errore trae l’impegno a ricercare un “metodo” in cui la difficoltà sia commisurata alla capacità raggiunta.

Il suo è un ragionamento didattico, ma quello che Itard non sembra cogliere è l’aspetto affettivo, che può vanificare ogni sua strategia. Itard non capisce che la reazione violenta di Victor è partita dalla sensazione di essere tradito da chi l’ha condotto in un territorio non suo per poi abbandonarlo (è l’esperienza originaria, il vissuto drammatico fondante della sua storia). La stessa reazione infatti l’aveva avuta quando, la prima volta che indossava le scarpe, dopo alcuni passi guidati, era stato lasciato a se stesso ed era caduto.

Dall’altra parte M.me Guérin entra in comunicazione con i sentimenti del bambino, accogliendo la sua sofferenza in un abbraccio; ma la sua lettura della situazione (“questo bambino è troppo stanco”) è incapace di cogliere la causa scatenante, di “spiegare” la situazione, e quindi di elaborare una strategia nella prospettiva di favorire un cambiamento, come invece fa Itard. La sua posizione non consente un’evoluzione.

In definitiva quelli che vedo in azione sono un codice paterno e un codice materno che da soli risultano incapaci di comprendere e quindi di agire in modo educativamente adeguato.

INTENZIONALITà E SETTING

Il secondo vecchio film che ho rivisto narra la vicenda di una educatrice chiamata presso una famiglia a lavorare (il padre sottolinea più di una volta che “è una stipendiata”) per una bambina handicappata.

Ellen, che è divenuta cieca e sorda da piccola, appare “mezza scema, incapace persino di tenersi pulita”; la madre spiega che “non può capire”: non sapendo dare significato alle proprie azioni non sa neppure dare loro un valore, diventando pericolosa a sé e agli altri.

Quello che vediamo è una bambina di una dozzina di anni che si muove a tentoni in un mondo limitato: poche situazioni di relazione affettiva basate sul contatto fisico e pochi segni basati sulla deissi.

La dinamica familiare si muove tra due poli: l’autoritarismo del padre, il “capitano” Keller (siamo nel Sud degli USA poco dopo la guerra civile), che reclama più disciplina perché non tollera il disordine e al quale la bambina “fa pena”, e l’empatia della madre che si fa interprete dei suoi bisogni e desideri, ma in modo inadeguato se è vero che lei stessa manifesta dolore perché Ellen “si allontana”.

Ma ciò che dà a questo film una forte valenza pedagogica, al di là della psicologia, è l’intenzionalità educativa e il dispositivo che l’educatrice mette in atto.

Il progetto è quello di far ri-nascere al mondo (l’immagine simbolica è quella del pulcino che schiude il guscio) una bambina che gli handicap percettivi limitano gravemente.

L’intenzionalità educativa sta anche nella consapevolezza della protagonista, Miss Sullivan, del proprio ruolo di tramite per la conoscenza (“avrei voluto insegnarti tutto ciò di cui è ricca la terra“). La parola “insegnare” verrà usata molte volte, e Miss Sullivan sa che il primo problema dell’insegnare è “come raggiungere” la bambina.

Per l’educatrice la costruzione dell’identità e di una dignità sociale sono legate al possesso del linguaggio. È una finalità etica che passa attraverso una finalità cognitiva: le due cose non sono separabili.

C’è una “vita dell’anima” da disseppellire, ma ciò si realizza “scavando”, con “pazienza e zelo”. La professionalità di Miss Sullivan implica una consapevolezza cognitiva e didattica: il primo passo è insegnare a Ellen l’alfabeto dei sordi; ma l’associazione segno-oggetto non è sufficiente: manca ciò che sta in mezzo, il significato, senza il quale il mondo del pensiero verbale è precluso. L’impegno a superare questa soglia non uscirà mai dal campo di attenzione di Miss Sullivan.

Ma professionale è anche la consapevolezza dell’esigenza di un setting: l’educatrice, che ha come fine l’autonomia della bambina (“la pietà non l’aiuterà ad essere indipendente”), sa che ciò avverrà costruendo delle condizioni “artificiali” di provvisoria dipendenza. La dipendenza è comunque un dato di realtà (“lasciarla fare tutto a modo suo è una menzogna”), ma nel dispositivo pedagogico è funzionale a costruire l’obbedienza; questa a sua volta è solo una condizione e non un fine, perché “obbedire senza capire è un’altra forma di cecità”.

C’è bisogno di un setting dunque, in cui il processo possa essere gestito, un luogo altro, uno spazio materialmente e simbolicamente lontano dalla famiglia (la casetta nel bosco dove la bambina non avrà contatto con i familiari) dove saranno in vigore altre regole, altre forme di relazione: “chi può aiutarla è solo un estraneo e non chi le vuole bene”.

CODICI DI RELAZIONE

Là dove la domanda della madre è “ma quando imparerà?” perché nel suo codice di relazione affettiva il riferimento è il benessere della figlia, e quindi ciò che importa è la fine della sua sofferenza, l’educatrice nel suo codice, che è professionale, si pone il problema pedagogico del come.

Il conflitto con la famiglia è uno scontro tra questi codici relazionali: già nei primi momenti, quando, per calmare l’aggressività di Ellen, la madre le dà una caramella, Miss Sullivan si arrabbia perché così premia un comportamento violento: da una parte c’è il benessere come valore, dall’altra una valutazione di coerenza tra azione e finalità. Durante il primo pranzo in comune, Miss Sullivan osserva Ellen che mangia muovendosi attorno alla tavola e prendendo il cibo con le mani dai piatti di tutti e tutti lasciano fare, perfino il severo capitano Keller che giustifica questo comportamento con l’esigenza di “tenerla buona”. Miss Sullivan invece respinge la bambina dal proprio piatto e apre il conflitto, in cui usa le parole “viziata” e “tiranna” mentre dall’altra la parola chiave è “pietà”; più avanti Miss Sullivan dirà che “è più comodo avere compassione che insegnarle ad essere migliore”.

Miss Sullivan prende l’iniziativa, fa uscire tutti e decide di insegnare alla bambina a mangiare seduta a tavola, dal proprio piatto e con le posate. Segue una scena che nel film assume una rilevanza cruciale. Sono ben 8 minuti di scontro fisico reiterato, di pura violenza, in cui non sono risparmiate botte, cibo sputato, oggetti scagliati e rotti.

È una scena insopportabile, e per tutta la sua durata il sonoro è costituito dai rumori della lotta, dall’ansimare di Miss Sullivan e dai versi di Ellen; non c’è musica a suggerire i sentimenti: il regista lascia lo spettatore solo di fronte alla nudità dell’azione.

Il ciclo di interazione tra l’educatrice che costringe e la bambina che si ribella sembra ripetersi all’infinito: ogni volta che Miss Sullivan sembra averla vinta, Ellen scatena di nuovo la sua reazione cui l’educatrice a sua volta reagisce. Ai limiti di sopportazione il regista interrompe ciò che nel tempo narrato dura ore, per portare lo spettatore alla conclusione: Miss Sullivan esce esausta, con visibili sul corpo i segni della lotta e comunica alla madre che Ellen ha mangiato nel suo piatto e “ha piegato il suo tovagliolo”.

IL CONFLITTO

La struttura di apprendimento che Miss Sullivan mette in azione è per associazioni e per “premi e punizioni”; il suo metodo appare molto semplice e rude. L’educatrice si frappone tra la bambina e la soddisfazione di un suo desiderio finché Ellen non adotta il comportamento voluto e, poiché nessuna comunicazione sonora o visiva è possibile e l’unica via è il contatto, questo sistema porta allo scontro fisico.

Quando, dopo il periodo di separazione e di addestramento (i cui risultati in termini di comportamento soddisfano i genitori ma non Miss Sullivan, che sa che Ellen non ha superato la soglia del significato delle parole), si scatenerà di nuovo lo scontro sullo stare a tavola, il conflitto è sul codice entro il quale interpretare la situazione: per i genitori è una festa per il ritorno di Ellen, il desiderio di benessere (non solo quello della bambina) è il centro organizzatore della com-mozione generale, da cui deriva un atteggiamento di “indulgenza” dei familiari.

L’interpretazione di Miss Sullivan è in un codice pedagogico: Ellen sta mettendo tutti alla prova e l’esito potrà rimettere in discussione il percorso educativo fatto fin qui.

Ancora una volta, quello che ai familiari appare come un accanimento crudele perché è letto nei termini di un’aridità di sentimenti, è per l’educatrice un comportamento professionale, che costa fatica e sofferenza, ma che poggia su un nesso razionale tra scopo e azione.

Quello che è in gioco è la responsabilità di Ellen: la conoscenza e la consapevolezza che le restituiscono la dignità di persona e la reinseriscono in una relazione con il mondo, implicano libertà, quindi responsabilità.

Ciò che impedisce ai genitori di “insegnare” la responsabilità, è non il rapporto affettivo con Ellen ma quel rapporto affettivo, tipico del registro familiare. Perché anche quello di Miss Sullivan è un investimento affettivo forte, che viene dalla sua autobiografia: lei stessa è affetta da gravi problemi visivi e ha avuto una terribile esperienza di abbandono e di ricovero in un ospizio a contatto con malattia e degradazione. C’è quindi una dinamica di identificazione nella sofferenza con la bambina.

Ma questo lo spettatore lo sa solo attraverso i mezzi del linguaggio cinematografico, che danno accesso al mondo interno di Miss Sullivan, e quanto lei stessa dirà verso la fine; nella concretezza del rapporto con Ellen l’educatrice contiene questa dinamica affettiva dentro il codice professionale. Alla domanda “lei vuole bene alla bambina?” risponde “comincio a volergliene” soltanto dopo che ha riportato un successo nella lotta per insegnare a Ellen a vestirsi, e più avanti dirà “… io non l’amo: non è mica figlia mia”. E nello scioglimento finale del dramma c’è un significativo scambio dopo che Ellen è arrivata a conquistare il significato delle parole: Ellen indica Miss Sullivan e compita “maestra” e lei risponde assentendo “sì, maestra”. E il fatto che a questo punto la famiglia rientri in casa stretta nell’abbraccio a Ellen, mentre Miss Sullivan resta fuori, mi appare altrettanto significativo e coerente rispetto a una delimitazione del setting e della consapevolezza dei diversi codici di relazione.

UNA PROVOCAZIONE

Quando si usa il testo di un film come stimolo per una riflessione, si sta in qualche modo “dentro” al film, sia pure come spettatori. Anche se i confini sono sfumati e gli sconfinamenti frequenti, c’è però una dimensione più esterna al film, che lo assume come oggetto su cui si esercitano operazioni culturali, come l’attribuzione di senso in un contesto di comunicazione sociale. Una di queste operazioni significative è quella di dargli un titolo.

Il titolo originale di Arthur Penn è “The miracle worker”. Il termine “worker” il mio dizionario lo traduce con “lavoratore, operaio, manovale”. Il termine “miracolo” rimanda a un evento “prodigioso”che si verifica “fuori dell’ordine della natura” a opera di personaggi dotati di poteri extraumani. L’ossimoro manifesta una intenzione provocatoria: l’idea del miracolo, che richiama l’extraordinarietà, la gratuità, la qualità sublime, l’irripetibilità di un gesto dall’effetto incomparabile, è associata all’idea di una attività di basso livello, condotta da persone comuni, lontana anche dall’arte (l’operaio non è neppure l’artigiano), dove dominano la quotidianità, la fatica, la qualità umile, la banalità del rapporto tra azione ripetuta e suo risultato.

Un evento dall’eccezionale impatto sentimentale prodotto da una razionalità operativa è una provocazione forte se collocata all’interno della cultura italiana: l’Italia è un paese cattolico in cui sono tuttora vive tradizioni religiose di antichissima data, che affondano le radici nello stesso humus etnologico da cui sopravvive la magia. In Italia il miracolo è un oggetto di grande valore antropologico e culturale, tanto da indurre prudenza perfino nei depositari dell’ortodossia religiosa, che vorrebbero colonizzare la religiosità popolare, ma temono anche la forza di una cultura ancestrale magica, vitalistica, capace di influenzare il sentire della gente comune.

Sull’altra sponda anche la massima espressione della cultura laica moderna, la scienza, deve fare i conti con la sopravvivenza di questa cultura. Se nell’esistenza materiale la tecnologia impregna ormai gli aspetti della quotidianità, il pensiero scientifico che ne è la base non è affatto radicato nel pensare comune. Anzi la scienza viene investita di rappresentazioni e aspettative che sembrano lasciare intatto il nucleo della relazione magica (“Alla scienza come a San Gennaro” era la conclusione di una ricerca sulle rappresentazioni che della scienza hanno gli insegnanti[5]). 

Tutto ciò rende estremamente significativo il cambiamento di titolo imposto al film, che nella versione italiana è diventato “Anna dei miracoli” (Anna è il nome di Miss Sullivan).

RESPONSABILITà

L’eliminazione della parola “worker”, e con essa dell’ossimoro, lascia al centro la parola “miracolo”. Lo slittamento semantico è uno slittamento di valori, per il quale sicuramente la scena più significativa del film diventa quella più com-movente (grazie anche all’uso della musica e delle classiche regole cinematografiche del climax drammatico e del suo scioglimento positivo): la bambina, proprio quando Anna sta per partire sconfitta, improvvisamente riesce, attraverso un corto circuito di memoria attivato dalla percezione e fortemente connotato emotivamente, a fare quel passo decisivo verso l’acquisizione del significato che le apre il mondo del pensiero verbale e della relazione sociale, oltre che restituirle una identità piena. Un vero miracolo… se ci si dimentica ciò che si vede e ascolta in tutto il film a proposito del lavoro di Miss Sullivan.

L’etica, e quindi la pedagogia, del miracolo è caratterizzata dalla dipendenza da un potere esterno, dalla eliminazione del nesso tra azione e risultato; in altre parole dalla rinuncia alla responsabilità.

Durante l’ultima campagna elettorale ho ascoltato interviste televisive in cui molti/e dichiaravano di votare per quello che sarebbe poi diventato capo del governo perché era un imprenditore di successo: da lui ci si aspettava un incremento del proprio benessere. L’idea che il proprio successo possa derivare dal favore di un potente e non dal lavoro o comunque da qualche forma di realizzazione di qualità personali mi sembra una manifestazione proprio di quella eclissi della responsabilità personale.

E la responsabilità è sempre una qualità della relazione sociale che si realizza nella concretezza e nella specificità dei ruoli, delle competenze, delle funzioni in un sistema che vive della diversità e della interdipendenza. Per questo la rinuncia a una pedagogia della responsabilità è uno svuotamento della dimensione sociale del vivere.

 

 

 



[1]  L’importanza del conflitto come luogo dello sviluppo cognitivo è messo in luce dal lavoro di Clotilde Pontecorvo (si veda per tutti: Discutendo s’impara, Carocci 1998)

[2]  Se ne è occupato Riccardo Massa: Educare o istruire?, Laterza 1997 e Cambiare la scuola. Educare o istruire?, Unicopli 1987.

[3]  Antonio R. Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi 1995, da cui sono tratte le citazioni seguenti.

[4]   G. M. Edelman – G. Tononi, Un universo di coscienza (come la materia diventa immaginazione), Einaudi 2000.

[5]   Marcello Sala, I “super premi Nobel”, in: Cooperazione Educativa, n.1/1997, La Nuova Italia.