Marcello Sala

IL LINGUAGGIO DELLA TEORIA

DELL’EVOLUZIONE

nell’educazione e divulgazione scientifica

-pubblicato in- 

PIKAIA il portale dell’evoluzionismo

Saggi e articoli (8/6/2007)

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Comunicare la scienza ai non esperti, situazione che accomuna la cosiddetta “divulgazione” all’educazione scientifica, vuol dire entrare in un doppio vincolo tra le esigenze della correttezza, senza la quale il discorso scientifico cessa di esistere come tale, e quelle della comprensibilità, in assenza della quale viene meno l’altro termine: la comunicazione.

Quello scientifico è un linguaggio rigoroso; a questa scocciatura in Italia sappiamo bene come rimediare: “chiudendo un occhio” sul rigore. Il problema è che nella scienza dire qualcosa con altre parole è dire qualcosa d’altro, il che può essere fecondo nel contesto della scoperta scientifica, ma può essere devastante nella comunicazione educativa della scienza, come dimostra l’uso della metafora [1].

“La scelta, da parte di Darwin, della parola ‘selezione’ non fu particolarmente fortunata. Il termine suggerisce che ci sia in natura qualche agente che, essendo capace di prevedere il futuro, sceglie ‘il migliore’.” : non lo dico io, lo dice Ernst Mayr [2]. Sappiamo che Darwin usò quell’espressione perchè costruì la sua teoria a partire dall’analogia con la selezione operata dagli allevatori. Si tratta dunque di un trasferimento del termine in un contesto diverso da quello d’origine, ovvero di una metafora. Darwin era perfettamente consapevole del problema come dimostrano le sue note in L’origine delle specie [3].

Quando un’espressione linguistica viene trasferita in un contesto altro, si trascina inevitabilmente dietro la propria configurazione di significati. La parola “selezione” implica a livello semantico un predicato che necessita di due argomenti [4] x e y, con funzioni diverse;  potremmo designare x come agente e y come destinatario (nella grammatica tradizionale si direbbe “soggetto” e “oggetto”). É proprio perché  implica un agente che “selezione naturale” evoca, come scrive Darwin, l’idea di volontà e di potere attivo della Divinità (e i creazionisti ringraziano).

Ha un bel dire Mayr, interpretando il pensiero di Darwin, che “Non è certamente così che funziona la selezione naturale. Il termine si riferisce semplicemente al fatto che, di tutti i figli di una coppia di genitori, solo alcuni sopravvivono abbastanza a lungo per riprodursi” [5]. Se questo è il significato che si vuole comunicare, perché non si dice “riproduzione differenziale” e si continua invece a dire “selezione naturale” che significa un’altra cosa? Darwin nel brano citato ci suggerisce una giustificazione, ma lui non faceva il maestro di scuola e non pubblicava articoli “divulgativi”, il suo pubblico era di addetti ai lavori (“Chiunque sa che cosa si intende e che cosa è implicito in queste espressioni metaforiche”). É sul destinatario della comunicazione che si misura se il rischio maggiore sia quello di produrre un testo noioso e difficile o di introdurre scivolosi errori. Ma poi “selezione naturale” è tanto più facile e meno noioso di “riproduzione differenziale”?

Nelle telecronache di calcio dicono “verticale” per indicare un vettore che, riferito al campo di gioco e alle sue regole, è diretto in avanti e quindi inequivocabilmente orizzontale? Sono metafore comprensibili solo all’interno di un gergo condiviso da una setta di iniziati. Ma noi stiamo parlando di comunicazione a non esperti e la questione educativa non è solo epistemologica, è anche etica e politica: c’è di mezzo la democrazia e non solo il sapere disciplinare.

Anche l’adattamento non sfugge a questa dinamica linguistica. L’espressione “adattare a”, e di conseguenza anche “adattamento a”, implica a livello semantico un predicato che necessita di tre argomenti, x y w, con funzioni diverse; potremmo designare x come agente, y come destinatario e w come termine (o riferimento: non hanno importanza le parole che usiamo quanto le funzioni semantiche). Nell’espressione derivata “adattarsi a” x e y coincidono; nella grammatica tradizionale si parla di “verbo riflessivo” e il termine mi pare molto significativo dal momento che attribuiamo la facoltà di riflettere, ovvero l’autocoscienza, alla natura umana, o come esclusività o almeno come paradigma; è dunque inevitabile che il termine “adattarsi” possa portare con sé una connotazione umana di intenzionalità o almeno di consapevolezza.

L’espressione “adatto a” sembra diversa in quanto sono implicati direttamente solo due argomenti: l’y di cui si dice e il w che rappresenta il termine, il riferimento specifico di ciò che si dice. In altri termini si dice una qualità di relazione tra y e w, non si dice di una azione che produce un effetto, azione che inevitabilmente avrebbe il suo agente x.

Qualcuno potrebbe suggerire di lasciare simili disquisizioni ai linguisti, io invece penso che riguardino da vicino noi educatori e “divulgatori”. Se, nel contesto di un discorso sull’evoluzione, uso il termine “adattamento” sto evocando nella mente di chi ascolta uno scenario semantico in cui un x agisce su un y (un vivente) con l’effetto di renderlo adatto a w (un ambiente). E allora chi o cosa è l’agente x? Se dico che y “si adatta” a w, sto evocando un’attività positiva di y, un comportamento finalizzato, se non una intenzionalità. E l’intenzionalità, ma anche il comportamento finalizzato, sono di un individuo, di un singolo organismo, quindi chi ascolta, a meno che non sia già esperto, non recepisce l’idea di evoluzione di specie, quella di Darwin.

Ci dicono gli psicologi che il bambino piccolo, sulla base di una esperienza del mondo che coincide sostanzialmente con l’esperienza di sé, attribuisce a se stesso l’origine degli eventi che lo circondano, e, man mano che riesce a distinguere da sé altri soggetti simili, estende a loro questa facoltà. Quando sviluppa il linguaggio non è ancora consolidata in lui la nozione di causa differenziata dall’intenzionalità di soggetti umani e attribuita ad agenti diversi da essi. Il “perché” italiano prima significa “a che scopo” e solo più avanti nello sviluppo significherà anche “per quale causa”; il fatto che si usi la stessa parola sta a indicare che il secondo significato si sviluppa dal primo.

Una traccia di questo processo si riscontra se si segue il formarsi di un linguaggio “scientifico” nei bambini: i più piccoli, se devono parlare di qualcosa che è accaduto attorno a loro, prima di tutto raccontano delle proprie azioni in relazione agli eventi, solo in seguito diverranno capaci di raccontare gli eventi in sé, poi di descriverli e infine di spiegarli in termini di causa.

Ci portiamo dietro la traccia di questa origine del linguaggio: se le parole che usiamo li implicano come denotazioni o connotazioni, sarà difficile sottrarci a significati che ci parlano di azioni finalizzate. La metafora del sé è uno strumento potente di conoscenza del mondo [6].

É quella che Gregory Bateson identifica come l’epistemologia della “finalità cosciente” di cui evidenzia i limiti e la pericolosità quando viene applicata alla natura sistemica del mondo, perchè, limitando il nostro sguardo alle nostre intenzioni, facendo guidare la percezione dai nostri fini, ci impedisce di vedere nelle nostre “mappe” gli infiniti archi di retroazione e l’intera rete di relazioni che costituiscono il “territorio” del mondo.

Una delle metafore più usate per l’evoluzione è quella del “progresso”, metafora perchè trasferisce al mondo naturale il paradigma della cultura tecnologica dell’uomo. Di questa metafora e dei danni che ha fatto al pensiero evoluzionistico [7] si è molto parlato, innanzitutto all’interno della comunità degli scienziati; vorrei invece spostare l’attenzione su un’altra metafora ancor più pericolosa, soprattutto in ambito educativo e divulgativo, quella, cui ho già accennato parlando di adattamento, dello sviluppo o in generale della trasformazione di un individuo (l’uso della forma singolare favorisce certamente l’equivoco):

“Questo a sua volta costrinse i progenitori del cavallo ad acquisire una maggiore velocità per sopravvivere. La capacità di correre più velocemente fu acquisita con l'allungamento degli arti e con il sollevamento di alcune dita dal suolo, portando sempre più peso sul più lungo delle dita, il medio. Su suolo duro, usando un solo dito ed equipaggiato nell'ultimo passaggio evolutivo con uno zoccolo, il cavallo fu in grado di raggiungere velocità elevate.” (Wikipedia: evoluzione del cavallo).

Ho una documentazione che mostra come bambini di 8 anni in una conversazione autoorganizzata si concentrano sulla distinzione tra crescita dell’individuo ed evoluzione delle specie, mentre ragazzi di 17 anni di un liceo a orientamento bio-sanitario e studenti del primo anno di università, per almeno un terzo confondono le due cose. Tra i primi e gli altri non c’è forse di mezzo l’esposizione al linguaggio della scuola e dei media?

Ma torniamo all’adattamento, perchè ci pone un altro problema relativo al linguaggio scientifico.

La mia pelle è carica di melanina perché...

... mi sono esposto volontariamente alla lampada UVA per adattarmi all’ambiente culturale che apprezza l’abbronzatura; cessando l’esposizione la pelle si schiarisce nell’arco di settimane

... l’ “abbronzatura” è una reazione involontaria biologica della pelle alla esposizione al sole che ha un valore adattativo in ambienti con forte incidenza dei raggi solari in quanto una pigmentazione scura protegge dalle scottature e dai tumori alla pelle; cessando l’esposizione, la pelle si schiarisce nell’arco di settimane

... sono nato così da genitori ugualmente di pelle scura; la pelle non si schiarisce cessando l’esposizione alla luce solare; è il frutto di un processo di riproduzione selettiva attuatosi per generazioni e generazioni a sfavore di variazioni della carica di melanina nella pelle dovuta a mutazioni genetiche e quindi ereditabili, il cui risultato è conservare un carattere che ha valore adattativo in ambienti con forte incidenza dei raggi solari.

Sono tutte spiegazioni corrette in termini di adattamento, ma quello che mi interessa qui è rilevare la variazione di significato che il termine subisce cambiando i contesti e porre il problema dello scarto tra significati nei contesti di comunicazione quotidiani e contesto scientifico, o meglio dell’educazione scientifica.

Facciamo un esempio: se seguiamo lo sviluppo della conoscenza scientifica, l’idea di aria andrà sempre più precisandosi fino ad arrivare alla nozione di una miscela di gas ecc. ecc.. Ma i bambini costruiscono la loro conoscenza del mondo in un andirivieni tra le esperienze e il bagno sociale di linguaggio in cui sono immersi; il quale fornisce loro riferimenti decisamente diversificati e sconcertanti “quel signore ha un’aria severa”, “quel tipo si dà troppe arie”, “la nonna cantava sempre quell’aria” e perfino“la macchina non parte: tira l’aria”. Ciascuno di noi saprebbe ricostruire a quali diversi contesti sono attribuibili questi diversissimi significati, in gran parte metafore o “modi di dire”, ma noi sappiamo già: riusciamo a farci un’idea di come sia difficile apprendere i significati per chi non sa ancora? E il discorso vale per i bambini come per gli stranieri, come per chi semplicemente non è già esperto dell’argomento, ovvero esattamente del destinatario, per definizione e ruolo sociale, della divulgazione o dell’educazione scientifica.

Senza contare, mantenendo lo stesso esempio, la pressione opposta cui vengono sottoposti i bambini da chi mostra loro come si può spegnere una fiamma o far morire una pianta togliendo da una campana di vetro quell’aria che fa parte da sempre della loro esperienza, quella del respirare o del movimento degli oggetti spinti dal vento, e sostiene che non di aria si tratta ma di “Ossigeno” (oggetto di cui mai faranno esperienza se non in qualche laboratorio di chimica o, sfortunatamente, in un pronto soccorso).

Tornando al caso dell’adattamento, c’è un uso sconsiderato di questa parola che nasconde le differenze, essenziali per un discorso scientifico, tra fenomeni mimetici che vanno dalla reazione “automatica” e reversibile in tempi brevi della pelle di un polpo (un individuo del genere Octopus) alla dinamica evolutiva che si dispiega su base genetica attraverso generazioni e generazioni di una popolazione di Biston betularia, la classica falena delle betulle.

A mio parere è proprio il dilagare del linguaggio dell’adattamento che determina l’affermarsi di un pregiudizio adattativo e funzionalista, come premessa epistemologica esclusiva che impedisce di comprendere correttamente fenomeni sottoposti anche all’azione di altre dinamiche, come ai vincoli strutturali, genetici, epigenetici ecc.

 



[1]  La ricerca epistemologica ha messo bene in evidenza entrambi gli aspetti; si veda da una parte: Boyd R. – Kuhn T. S. (1979), La metafora nella scienza, Feltrinelli Milano 1983; dall’altra: Gaston Bachelard, La formazione dello spirito scientifico, Cortina 1995.

[2]   E. Mayr (1991), Un lungo ragionamento, Bollati Boringhieri 1994, pag 100.

[3] “Altri hanno obiettato che la parola selezione implica una scelta cosciente da parte degli ammali che si modificano; e si è persino arrivati a dire che, siccome i vegetali non hanno una volontà, la selezione naturale non è applicabile ad essi! Indubbiamente, il termine ‘selezione naturale’, preso alla lettera, è un'improprietà; ma chi ha mai solle­vato obiezioni contro i chimici perché parlano di ‘affinità elettive’ tra i vari elementi? Eppure, a stretto rigore, non si può dire che un acido scelga la base con cui si combinerà preferenzialmente. E stato detto che io parlo della selezione naturale come di un potere attivo della Divinità; ma chi solleva obiezioni contro uno scrittore che dica che l'attra­zione di gravita ‘governa’ il movimento dei pianeti? Chiunque sa che cosa si intende e che cosa è implicito in queste espressioni metaforiche; ed esse sono quasi necessarie per ragioni di brevità. Analogamente è difficile evitare di personificare la parola Natura; ma, con ‘natura’, io intendo soltanto il complesso dell'azione e del risultato di molte leggi naturali e, per leggi, intendo la sequenza degli eventi, che noi possiamo osservare. Con un po' di abitudine certe obiezioni superficiali saranno dimenticate.” (varianti della sesta edizione al Cap. 4, La selezione naturale).

[4]  Il modello grammaticale cui qui si fa riferimento si trova in:  Parisi D. –  Antinucci F., Elementi di grammatica, Boringhieri Torino  1973.

[5]   E. Mayr, ibidem.

[6] Di tutte le metafore esistenti, quella più centrale cospicua, a disposizione di tutti gli esseri umani, è il sé. Qui non intendo solo il costrutto psicologico del ‘sé’, ma l’intero essere, psiche e soma […] Al cuore della rete di metafore attraverso la quale riconosciamo il mondo e interagiamo con esso, stanno l’esperienza del sé e la possibilità di parlarne. Il ricorso all’auto-conoscenza come modello per capire gli altri, sulla base di somiglianze o congruenze, lo si potrebbe chiamare comprensione, ma il termine migliore nell’uso corrente mi sembra empatia.” (Mary Catherine Bateson (1986), A che serve una metafora?, in G. Bateson – M. C. Bateson, Dove gli angeli esitano, Adelphi 1989, pag. 291).

[7] Dovrei dire che continua a fare danni, visto che uno dei più diffusi quotidiani italiani, ogni volta che pubblica nella pagina scientifica un articolo di argomento evoluzionistico, lo incornicia immancabilmente con la immagine della “marcia del progresso”, rigorosamente lineare dallo scimmione quadrupede all’Homo sapiens col cervello più grande di tutti.