Comunicare la scienza ai non esperti,
situazione che accomuna la cosiddetta “divulgazione” all’educazione
scientifica, vuol dire entrare in un doppio vincolo tra le esigenze della correttezza,
senza la quale il discorso scientifico cessa di esistere come tale, e quelle
della comprensibilità, in assenza della quale viene meno l’altro
termine: la comunicazione. Quello scientifico è un linguaggio
rigoroso; a questa scocciatura in Italia sappiamo bene come rimediare:
“chiudendo un occhio” sul rigore. Il problema è che nella scienza dire
qualcosa con altre parole è dire qualcosa d’altro, il che può essere fecondo
nel contesto della scoperta scientifica, ma può essere devastante nella
comunicazione educativa della scienza, come dimostra l’uso della metafora [1]. “La scelta, da parte di
Darwin, della parola ‘selezione’ non fu particolarmente fortunata. Il termine
suggerisce che ci sia in natura qualche agente che, essendo capace di prevedere
il futuro, sceglie ‘il migliore’.” : non lo dico io, lo dice
Ernst Mayr [2]. Sappiamo
che Darwin usò quell’espressione perchè costruì la
sua teoria a partire dall’analogia con la selezione operata dagli allevatori.
Si tratta dunque di un trasferimento del termine in un contesto diverso da
quello d’origine, ovvero di una metafora.
Darwin era perfettamente consapevole del problema come dimostrano le sue
note in L’origine delle specie [3]. Quando
un’espressione linguistica viene trasferita in un contesto altro, si trascina
inevitabilmente dietro la propria configurazione di significati. La parola
“selezione” implica a livello semantico un predicato che necessita di due argomenti [4] x e
y, con funzioni diverse; potremmo designare
x come agente e y come destinatario (nella grammatica tradizionale
si direbbe “soggetto” e “oggetto”). É proprio perché implica un agente che “selezione naturale” evoca, come scrive Darwin, l’idea
di volontà e di potere attivo della Divinità (e i
creazionisti ringraziano). Ha
un bel dire Mayr, interpretando il pensiero di
Darwin, che “Non è certamente così che
funziona la selezione naturale. Il termine si riferisce semplicemente al
fatto che, di tutti i figli di una coppia di genitori, solo alcuni
sopravvivono abbastanza a lungo per riprodursi” [5]. Se questo è il significato che si
vuole comunicare, perché non si dice “riproduzione
differenziale” e si continua invece a dire “selezione naturale” che significa un’altra cosa? Darwin nel
brano citato ci suggerisce una giustificazione, ma lui non faceva il maestro
di scuola e non pubblicava articoli “divulgativi”, il suo pubblico era di addetti
ai lavori (“Chiunque sa che cosa si intende e
che cosa è implicito in queste espressioni metaforiche”). É sul
destinatario della comunicazione che si misura se il rischio maggiore sia
quello di produrre un testo noioso e difficile o di introdurre scivolosi
errori. Ma poi “selezione naturale” è tanto più facile e meno noioso di
“riproduzione differenziale”? Nelle telecronache di calcio dicono
“verticale” per indicare un vettore che, riferito al campo di gioco e alle
sue regole, è diretto in avanti e
quindi inequivocabilmente orizzontale?
Sono metafore comprensibili solo all’interno di un gergo condiviso da una
setta di iniziati. Ma noi stiamo parlando di comunicazione a non esperti e la questione educativa
non è solo epistemologica, è anche etica e politica: c’è di mezzo la
democrazia e non solo il sapere disciplinare. Anche
l’adattamento non sfugge a questa dinamica linguistica. L’espressione “adattare
a”, e di conseguenza anche “adattamento a”, implica a livello semantico un predicato che necessita di tre argomenti, x y w, con funzioni
diverse; potremmo designare x come agente,
y come destinatario e w come termine (o riferimento: non hanno importanza le parole che usiamo quanto le
funzioni semantiche). Nell’espressione derivata “adattarsi a” x e y
coincidono; nella grammatica tradizionale si parla di “verbo riflessivo” e il termine mi pare molto
significativo dal momento che attribuiamo la facoltà di riflettere, ovvero
l’autocoscienza, alla natura umana, o come esclusività o almeno come
paradigma; è dunque inevitabile che il termine “adattarsi” possa portare con
sé una connotazione umana di intenzionalità o almeno di consapevolezza. L’espressione
“adatto a” sembra diversa in quanto sono implicati direttamente solo due argomenti:
l’y di cui si dice e il w che rappresenta il termine, il riferimento
specifico di ciò che si dice. In altri termini si dice una qualità di
relazione tra y e w, non si dice di una azione
che produce un effetto, azione che inevitabilmente avrebbe il suo agente
x. Qualcuno
potrebbe suggerire di lasciare simili disquisizioni ai linguisti, io invece
penso che riguardino da vicino noi educatori e “divulgatori”. Se, nel
contesto di un discorso sull’evoluzione, uso il termine “adattamento” sto
evocando nella mente di chi ascolta uno scenario semantico in cui un x agisce
su un y (un vivente) con l’effetto di renderlo adatto a w (un ambiente). E
allora chi o cosa è l’agente x? Se dico che y “si adatta” a w, sto evocando
un’attività positiva di y, un comportamento finalizzato, se non una
intenzionalità. E l’intenzionalità, ma anche il comportamento finalizzato,
sono di un individuo, di un singolo
organismo, quindi chi ascolta, a
meno che non sia già esperto, non recepisce l’idea di evoluzione di
specie, quella di Darwin. Ci
dicono gli psicologi che il bambino piccolo, sulla base di una esperienza del
mondo che coincide sostanzialmente con l’esperienza di sé, attribuisce a se
stesso l’origine degli eventi che lo circondano, e, man mano che riesce a
distinguere da sé altri soggetti simili, estende a loro questa facoltà.
Quando sviluppa il linguaggio non è ancora consolidata in lui la nozione di
causa differenziata dall’intenzionalità di soggetti umani e attribuita ad agenti
diversi da essi. Il “perché” italiano prima significa “a che scopo” e solo
più avanti nello sviluppo significherà anche “per quale causa”; il fatto che
si usi la stessa parola sta a indicare che il secondo significato si sviluppa
dal primo. Una
traccia di questo processo si riscontra se si segue il formarsi di un
linguaggio “scientifico” nei bambini: i più piccoli, se devono parlare di
qualcosa che è accaduto attorno a loro, prima di tutto raccontano delle
proprie azioni in relazione agli eventi, solo in seguito diverranno capaci di
raccontare gli eventi in sé, poi di descriverli e infine di spiegarli in
termini di causa. Ci
portiamo dietro la traccia di questa origine del linguaggio: se le parole che
usiamo li implicano come denotazioni o connotazioni, sarà difficile sottrarci
a significati che ci parlano di azioni finalizzate. La metafora del sé è uno
strumento potente di conoscenza del mondo [6]. É
quella che Gregory Bateson identifica come
l’epistemologia della “finalità cosciente” di cui evidenzia i limiti e la
pericolosità quando viene applicata alla natura sistemica del mondo, perchè, limitando il nostro sguardo alle nostre
intenzioni, facendo guidare la percezione dai nostri fini, ci impedisce di
vedere nelle nostre “mappe” gli infiniti archi di retroazione e l’intera rete
di relazioni che costituiscono il “territorio” del mondo. Una
delle metafore più usate per l’evoluzione è quella del “progresso”, metafora perchè trasferisce al mondo naturale il paradigma della
cultura tecnologica dell’uomo. Di questa metafora e dei danni che ha fatto al
pensiero evoluzionistico [7] si
è molto parlato, innanzitutto all’interno della comunità degli scienziati;
vorrei invece spostare l’attenzione su un’altra metafora ancor più pericolosa,
soprattutto in ambito educativo e divulgativo, quella, cui ho già accennato
parlando di adattamento, dello sviluppo o in generale della trasformazione di
un individuo (l’uso della forma
singolare favorisce certamente l’equivoco): “Questo a sua volta
costrinse i progenitori del cavallo ad acquisire una maggiore velocità per
sopravvivere. La capacità di correre più velocemente fu acquisita con
l'allungamento degli arti e con il sollevamento di alcune dita dal suolo,
portando sempre più peso sul più lungo delle dita, il medio. Su suolo duro,
usando un solo dito ed equipaggiato nell'ultimo passaggio evolutivo con uno
zoccolo, il cavallo fu in grado di raggiungere velocità elevate.” (Wikipedia: evoluzione del cavallo). Ho
una documentazione che mostra come bambini di 8 anni in una conversazione autoorganizzata si concentrano sulla distinzione tra crescita dell’individuo ed evoluzione delle
specie, mentre ragazzi di 17 anni di un liceo a orientamento bio-sanitario e studenti del primo anno di università,
per almeno un terzo confondono le
due cose. Tra i primi e gli altri non c’è forse di mezzo l’esposizione al
linguaggio della scuola e dei media? Ma
torniamo all’adattamento, perchè ci pone un altro
problema relativo al linguaggio scientifico. La mia pelle è carica di
melanina perché... ... mi sono esposto volontariamente alla
lampada UVA per adattarmi
all’ambiente culturale che apprezza l’abbronzatura; cessando l’esposizione la
pelle si schiarisce nell’arco di settimane ... l’ “abbronzatura” è una reazione
involontaria biologica della pelle alla esposizione al sole che ha un valore adattativo in ambienti con forte
incidenza dei raggi solari in quanto una pigmentazione scura protegge dalle
scottature e dai tumori alla pelle; cessando l’esposizione, la pelle si
schiarisce nell’arco di settimane ... sono nato così da genitori ugualmente
di pelle scura; la pelle non si schiarisce cessando l’esposizione alla luce
solare; è il frutto di un processo di riproduzione selettiva attuatosi per
generazioni e generazioni a sfavore di variazioni della carica di melanina
nella pelle dovuta a mutazioni genetiche e quindi ereditabili, il cui
risultato è conservare un carattere che ha valore adattativo in ambienti con forte incidenza dei raggi solari. Sono
tutte spiegazioni corrette in termini di adattamento, ma quello che mi
interessa qui è rilevare la variazione di significato che il termine subisce
cambiando i contesti e porre il problema dello scarto tra significati nei
contesti di comunicazione quotidiani e contesto scientifico, o meglio
dell’educazione scientifica. Facciamo
un esempio: se seguiamo lo sviluppo della conoscenza scientifica, l’idea di aria andrà sempre più precisandosi
fino ad arrivare alla nozione di una miscela di gas ecc. ecc.. Ma i bambini
costruiscono la loro conoscenza del mondo in un andirivieni tra le esperienze
e il bagno sociale di linguaggio in cui sono immersi; il quale fornisce loro
riferimenti decisamente diversificati e sconcertanti “quel signore ha un’aria severa”, “quel tipo si dà troppe arie”, “la nonna cantava sempre quell’aria” e perfino“la macchina non parte: tira l’aria”.
Ciascuno di noi saprebbe ricostruire a quali diversi contesti sono attribuibili
questi diversissimi significati, in gran parte metafore o “modi di dire”, ma
noi sappiamo già: riusciamo a farci
un’idea di come sia difficile apprendere i significati per chi non sa ancora? E il discorso vale per i bambini come per gli stranieri, come
per chi semplicemente non è già esperto dell’argomento, ovvero esattamente
del destinatario, per definizione e ruolo sociale, della divulgazione o
dell’educazione scientifica. Senza
contare, mantenendo lo stesso esempio, la pressione opposta cui vengono
sottoposti i bambini da chi mostra loro come si può spegnere una fiamma o far
morire una pianta togliendo da una campana di vetro quell’aria che fa parte
da sempre della loro esperienza, quella del respirare o del movimento degli
oggetti spinti dal vento, e sostiene che non di aria si tratta ma di “Ossigeno”
(oggetto di cui mai faranno esperienza se non in qualche laboratorio di
chimica o, sfortunatamente, in un pronto soccorso). Tornando
al caso dell’adattamento, c’è un uso sconsiderato di questa parola che nasconde
le differenze, essenziali per un discorso scientifico, tra fenomeni mimetici
che vanno dalla reazione “automatica” e reversibile in tempi brevi della
pelle di un polpo (un individuo del
genere Octopus) alla dinamica
evolutiva che si dispiega su base genetica attraverso generazioni e
generazioni di una popolazione di Biston betularia,
la classica falena delle betulle. A
mio parere è proprio il dilagare del linguaggio dell’adattamento che determina l’affermarsi di un pregiudizio
adattativo e funzionalista, come premessa epistemologica esclusiva che impedisce
di comprendere correttamente fenomeni sottoposti anche all’azione di altre
dinamiche, come ai vincoli strutturali, genetici, epigenetici ecc. |
[1]
La ricerca epistemologica ha messo bene in evidenza entrambi gli
aspetti; si veda da una parte: Boyd R. – Kuhn T. S. (1979), La metafora nella scienza,
Feltrinelli Milano 1983; dall’altra: Gaston
Bachelard, La formazione dello spirito scientifico,
Cortina 1995.
[2] E. Mayr (1991), Un lungo
ragionamento, Bollati Boringhieri 1994, pag 100.
[3] “Altri hanno obiettato che la parola selezione implica una scelta
cosciente da parte degli ammali che si
modificano; e si è persino arrivati a dire che, siccome i vegetali non
hanno una volontà, la selezione naturale non è applicabile ad essi!
Indubbiamente, il termine ‘selezione
naturale’, preso alla lettera, è un'improprietà; ma chi ha mai sollevato obiezioni contro i chimici perché parlano di
‘affinità elettive’ tra i vari elementi? Eppure, a stretto rigore, non si può dire che un acido scelga la base con
cui si combinerà preferenzialmente. E stato detto che io parlo della selezione
naturale come di un potere attivo
della Divinità; ma chi solleva obiezioni contro uno scrittore che dica che
l'attrazione di gravita ‘governa’ il
movimento dei pianeti? Chiunque sa che cosa si intende e che cosa è
implicito in queste espressioni metaforiche; ed esse sono quasi necessarie per ragioni di brevità. Analogamente è difficile
evitare di personificare la parola Natura; ma, con ‘natura’, io intendo soltanto il complesso dell'azione e del
risultato di molte leggi naturali e,
per leggi, intendo la sequenza degli eventi, che noi possiamo osservare. Con un po' di abitudine certe obiezioni
superficiali saranno dimenticate.” (varianti
della sesta edizione al Cap. 4, La
selezione naturale).
[4] Il modello grammaticale cui qui si fa
riferimento si trova in: Parisi D.
– Antinucci
F., Elementi di grammatica, Boringhieri Torino
1973.
[5] E. Mayr, ibidem.
[6] “Di tutte le metafore esistenti,
quella più centrale cospicua, a disposizione di tutti gli esseri umani, è il
sé. Qui non intendo solo il costrutto psicologico del ‘sé’, ma l’intero essere,
psiche e soma […] Al cuore della rete di metafore attraverso la quale
riconosciamo il mondo e interagiamo con esso, stanno l’esperienza del sé e la
possibilità di parlarne. Il ricorso all’auto-conoscenza come modello per capire
gli altri, sulla base di somiglianze o congruenze, lo si potrebbe chiamare
comprensione, ma il termine migliore nell’uso corrente mi sembra empatia.” (Mary
Catherine Bateson (1986), A che serve una metafora?, in G. Bateson
– M. C. Bateson, Dove
gli angeli esitano, Adelphi 1989, pag. 291).
[7] Dovrei dire che continua a fare danni, visto che uno dei
più diffusi quotidiani italiani, ogni volta che pubblica nella pagina
scientifica un articolo di argomento evoluzionistico, lo incornicia
immancabilmente con la immagine della “marcia del progresso”, rigorosamente
lineare dallo scimmione quadrupede all’Homo
sapiens col cervello più grande di tutti.