“noi ci compiacciamo di
una nostra particolare immagine del mondo, che ci induce a sentire e ad agire
come se del mondo conoscessimo tutto” Carlos Castaneda é possibile educare il pensiero? ovvero
è possibile cambiare modo di pensare? Quando dico “modo di pensare” non
intendo qui ciò che può anche essere chiamato un’ ”opinione”, cioè un giudizio,
un orientamento di tipo valoriale, su qualcosa di specifico; intendo invece
ciò che ne costituisce una premessa, l’epistemologia implicita che governa i
nostri giudizi, il come una persona
pensa (percepisce, decide, conosce...) che è inseparabile dal che cosa pensa. Che
le nostre attribuzioni di valore siano condizionate dalla autobiografia,
dall’affettività o dall’emotività è assodato; del resto questa sembra essere
la “natura umana”. Il neurologo Antonio Damasio [1], a
partire dall’osservazione che alcune lesioni cerebrali localizzate comportano
sia un difetto del comportamento sociale e della capacità di decidere sia del
provare emozioni e sentimenti, ma
non della memoria, del linguaggio, dell’attenzione, del ragionamento, della conoscenza dei sentimenti, sostiene
che il sentimento è una parte integrante del modo di operare della ragione,
perché consente di assegnare valori differenti a opzioni differenti. Questo
punto di partenza non mi porta però verso un relativismo totale, per cui
tutti i giudizi sono “buoni”, e soprattutto tutte le epistemologie sono
buone. La sensazione, emotivamente bruciante, che qualcosa di patologico e di
socialmente minaccioso ci può essere nelle epistemologie personali e sociali,
è legata per me al ricordo della “guerra del Golfo” o meglio ciò che in quei
giorni si leggeva e si sentiva dire alla TV in proposito. In quei giorni fu
la rabbia ad arginare la paura, riuscendo a tenere in vita in me la capacità
di analisi. Tentai in quella contingenza di mettere in luce i dispositivi di
ragionamento che sottostavano alla campagna interventista [2]. Ad
esempio la “tecnica Catalano”, dal nome di un attore televisivo (lui però ne
faceva la sostanza paradossale del suo personaggio comico); diceva Catalano: “Preferisci un capufficio tollerante e
generoso o uno indisponente e becero?“; dicevano certi opinionisti televisivi
molto, molto ingombranti: “C’è un aggredito e un aggressore: tu da che parte
stai?”; dove evidentemente il trucco sta nel come si pongono le premesse e nel chiedere di pronunciarsi
solo sulle conseguenze delle
premesse. Oppure “visto che non sei con Bush, allora sei con Saddam”, dove il
trucco, e quindi l’esercizio del potere, sta nella delimitazione arbitraria
dell’universo del discorso, che poggia sulla differenza di “tipo logico” tra
il porre una alternativa e lo
scegliere all’interno dell’alternativa
posta. “Coloro cui sfugge completamente l’idea che
è possibile aver torto non possono imparare nulla, se non la tecnica” avverte
Gregory Bateson [3] e
prosegue “Vale la pena di individuare certi presupposti fondamentali che
tutte le menti devono condividere...”. E Bateson
argomenta a lungo attorno al fatto che il linguaggio con cui l’uomo traccia
una mappa della realtà fisica (dove sono importanti soltanto urti e forze)
deve rispondere solo a una coerenza interna, mentre il mondo biologico, dove
dominano la differenza e l’informazione, ha
un suo linguaggio con cui l’uomo deve entrare in sintonia. Personalmente,
nel condurre una ricerca su “l’azione del pensare”, ero motivato
dall’osservazione di una non organicità nel mondo ambientalista tra una prassi
ecologica e un pensiero fondamentalmente tributario della scienza classica,
quello divenuto dominante con il mito del “progresso”, che tanto ha
contribuito al degrado ecologico. GLI
“INCIAMPI” DEL PENSIERO Usare
per una proposta di laboratorio formativo il termine “l’azione del pensare”
voleva sottolineare la centralità dell’esperienza, lo stretto legame tra il
corpo e il pensiero, il ruolo dei circuiti senso-motori nella conoscenza non
solo in una fase infantile, il legame con pratiche teatrali che si fondano su
“l’intelligenza del corpo”, l’importanza della “presenza”, qualità globale
della persona nel “qui e ora”, anche in un contesto di lavoro sul pensiero
scientifico, sul ragionare, sull’epistemologia. Da esperienze che conduco in
ambienti naturali mi viene la domanda: che cosa succede nel processo del mio
conoscere (del mio pensare?) quando cammino per ore su un sentiero sconosciuto
dentro un bosco fitto in una notte senza luna? Ma da altre esperienze (ad esempio
un lavoro in cui le “illusioni ottiche” hanno un ruolo importante) mi viene
l’altra domanda: quanto la percezione stessa è condizionata dalla
rappresentazione che ho del mondo? Dalla
consapevolezza di questa circolarità irriducibile nasce la proposta che
faccio nel laboratorio di mettere in
azione il pensiero su piste inusuali, piene di inciampi: dal gene che
funziona come un’idea ai paradossi della separazione mente/corpo, dai
problemi con più soluzioni incompatibili a quelli così semplici che non ne hanno,
dagli specchi che non ne vogliono sapere di ribaltare l’alto con il basso ai
vetri che al buio perdono la trasparenza, dalle macchine non banali agli
auto-organismi, dagli oggetti impossibili alle figure che si vedono anche se
non ci sono, da strani anelli in cui la causa è effetto dell’effetto all’
“effetto farfalla”, da treni di numeri che non vanno dove sembrano andare a
treni che arrivano in ritardo per un errore logico del passeggero,
dall’ordine prodotto dal caso al caso prodotto dal calcolo... Il
laboratorio fa i conti in particolare con una serie di premesse del pensiero
scientifico classico, pensiero che ci appartiene come adulti scolarizzati e
che ci torna continuamente anche dai mass-media: innanzitutto che il mondo e
il pensiero sono entità distinte; a questa sono legate altre premesse che
possono collocarsi più sul versante di come funziona il pensiero o più sul
versante di come è fatto il mondo: che esiste una razionalità “pura” esente
da pregiudizi, che esistono concetti chiari e distinti, che l’astrazione dà
maggiori garanzie della percezione nella conoscenza della verità, che la deduzione
è la forma più alta della razionalità e della conoscenza, che la rappresentazione
e il linguaggio sono in larga parte universali, che il mondo è ordinato e che
l’ordine del mondo è conoscibile, ovvero che l’ordine è oggettivo ed esiste
un luogo “esterno” da cui è possibile osservarlo, che la causalità è
l’elemento chiave dell’ordine del mondo, che la linearità è caratteristica
della causalità, che l’esistenza di uno scopo e/o di un “meccanismo” è
l’unica spiegazione dell’ordine, e così via. Gli insegnanti, che sono gli adulti
con cui lavoro più spesso, in generale disconoscono la scienza come loro
referente culturale, eppure a me appare evidente come il modello della
programmazione didattica con cui tutti loro hanno a che fare nella scuola, abbia
presupposti (che il processo educativo è prevedibile e che può essere
controllato) che poggiano sulle premesse classicamente scientifiche
dell’ordine, della causalità, della linearità, della collocazione esterna
dell’osservatore. Così
l’apertura a un modo di pensare complesso (dove si crede all’ ”unità
necessaria” tra mente e natura, dove l’imprevedibilità è una caratteristica
irriducibile e intrinseca della realtà, dove l’ordine può essere auto-organizzazione
che sorge dall’interazione tra caso e connessione, dove la circolarità e la
ricorsività sono dimensioni proprie dell’organizzazione, dove le relazioni e
non gli oggetti sono centrali nella descrizione, dove l’osservatore è
elemento del sistema che osserva, dove “tertium datur”...) come pensiero più organico a una idea di
educazione come co-evoluzione educativa, parte
dall’esperienza dei limiti che incontra il pensiero scientifico classico, a
causa delle sue premesse. PENSARE
PER STORIE Forse
la premessa più profonda, il pre-giudizio più potente che il pensiero ha su
se stesso è quello che lo identifica con il pensiero linguistico. Come
sostiene Domenico Parisi [4], si
attribuiscono al pensiero strutture, processi, modi di rappresentazione, che
sono propri del linguaggio. In particolare l’etichetta linguistica attaccata
a un concetto tende a far pensare che un concetto sia un’entità fissa,
definita, oggettiva. Ricordo la mia sorpresa, in un lavoro di costruzione di
“mappe concettuali” con bambini di quinta elementare (loro le chiamavano
“labirinti”), quando, utilizzando un codice grafico che distingueva quelli
che noi chiameremmo “verbi” e “nomi”, furono unanimi nell’utilizzare la prima
categoria per “il mito”. All’invito a giustificare in termini di “azione” la
loro scelta, risposero “il mito è scritto e raccontato” e poi aggiunsero
anche “cantato”, “letto”, “studiato”, “imparato”, “ascoltato”, “ripetuto”... Di
fronte alla domanda “Un tavolo di legno è artificiale o naturale?” gli stessi
bambini rispondono: Più voci:
<<Artificiale e naturale>> <<Il legno è
naturale ma poi viene trasformato>> <<Prima c’è l’albero
ed è naturale, poi l’uomo gli dà la forma ed è artificiale>> Questo
piccolo brano (significativo dell’intero dialogo da cui è tratto) mi comunica
con grande chiarezza che i bambini non accettano la classificazione data, ma
ripropongono come risposta una narrazione:
non “cos’è”, ma “come è stato fatto”. I bambini incorporano nella descrizione
di un oggetto la dimensione del tempo, della trasformazione, che è un
contesto di relazioni (chi, dove, con quali mezzi...), insomma la sua storia.
Nell’occasione del dialogo riportato i bambini elaborarono una affascinante
“teoria ricorsiva dell’artificialità” in cui naturale e artificiale non sono
le due categorie di una partizione, ma due estremi di una scala, ed è
l’accumulo di trasformazioni incorporate nell’oggetto “storico” che ne sposta
la collocazione dal naturale verso l’artificiale. Gli adulti cui ho posto la
stessa questione si sono imbarcati in una discussione senza fine, che ha
generato sempre più contraddizioni in cui mai sono entrate in gioco le premesse,
e cioè l’accettazione della classificazione come unico schema di descrizione,
e di quella particolare classificazione come partizione dicotomica. Naturalmente
non sto dicendo che gli adulti non sono capaci di “pensare per storie”, sto
dicendo che la forma della narrazione sembra estranea alla nostra cultura
scientifica (la scienza è vista come un progressivo e lineare svelamento
della verità e non come un intreccio di storie spesso conflittuali, e infatti
non si insegna la storia della scienza), sembra abitare spazi separati da
quelli del pensiero razionale in generale. I bambini allora sembrano più in
sintonia con l’idea di una scienza come “storia naturale” e con la rivoluzione
epistemologica che in questo secolo ha messo in crisi il modello meccanicistico
e ha aperto le porte della “complessità” [5]. Sempre
secondo Parisi, l’importanza attribuita alla logica tende a lasciare fuori la
vaghezza, l’ambiguità, l’imprecisione; ma negli aspetti meno precisi,
probabilistici, del pensiero sta anche la flessibilità e creatività. I
livelli “alti” del pensiero, come la rappresentazione della conoscenza,
l’inferenza, la soluzione dei problemi, la pianificazione, si sviluppano a
partire da e integrando i livelli più “bassi”, come i circuiti senso-motori,
il riconoscimento del linguaggio ecc. Il mio riferimento ai bambini poggia
sulla ipotesi che ascoltarli possa aprirci delle finestre su un pensiero più
radicato in questi livelli “bassi”, ovvero più rappresentativi della nostra
appartenenza al mondo biologico, della “mente” che, secondo Bateson, è la struttura che ci connette a, anziché
separarci da, il resto della vita. SERIAZIONE
E RASSICURAZIONE Quando
gli insegnanti, che lamentano il fatto che i ragazzini “non sanno ragionare”,
si pongono anche il problema di insegnarglielo, mettono solitamente tra gli
obiettivi della programmazione le “capacità logiche” che consistono in prima
istanza in “classificazione” e “seriazione”.
Mettiamo
allora questi insegnanti di fronte a un compito di seriazione: trovare il numero
successivo di una sequenza data, ovvero scoprire la “legge” della sequenza.
Riporto qui una registrazione fatta nel laboratorio su “l’azione del pensare”
relativa alla fase iniziale del lavoro: 2
4 6 ... Più voci:
<<8.>> 2
4 6 10 ... Fabiana:
<<È la somma... la somma dei numeri precedenti.>> Stella: <<Dei
due numeri precedenti.>> Marcello:
<<Allora cosa viene dopo?>> Più voci:
<<16.>> 2
4 6 10 16 ... Più voci: <<26.>>
2
4 6 10 16 2 ... (mormorii di disappunto e
protesta) Più voci:
<<Ma... ricomincia da capo!.>> Quella che fa dire “8”
dopo la sequenza 2 4 6, scegliendo la più semplice e usuale tra le possibili
progressioni numeriche il cui inizio è 2 4 6, e che fa dire “26” dopo la sequenza
2 4 6 10 16, è la “legge del risparmio”, cioè la tendenza a privilegiare la
risposta non solo più semplice ma soggettivamente più nota. La legge del
risparmio ha un evidente valore adattativo: se non potessimo dare per scontato
un mondo in larga parte costante, in ogni momento dovremmo ricostruire da
capo la nostra conoscenza; se non potessimo spostare nelle zone inconsce una
quantità di “abitudini” non avremmo a disposizione risorse di attenzione e di
elaborazione necessarie a rispondere adeguatamente agli stimoli contingenti
dell’ambiente. Ma è anche vero che le abitudini sono un ostacolo alla conoscenza
del nuovo, ed è solo quando la conoscenza basata su certe abitudini di pensiero
fallisce che ci rendiamo conto di avere delle abitudini, e possiamo non
gettarle via ma relativizzarle. Tuttavia
la cosa che in questo esempio mi
sembra più interessante è la nota “mormorii
di disappunto e protesta” alla comparsa del 2 dopo il 16. A quel punto la
sequenza “riparte daccapo” rivelando una logica modulare del tutto inattesa.
Ma una cosa inattesa può essere una sorpresa, che fa scaturire un “Oh!” di
meraviglia, o illuminare lo sguardo o aprire a un sorriso. Ed è precisamente
quest’ultima la reazione dei bambini (dai 9 ai 12 anni) cui più volte mi è
capitato di proporre la stessa situazione. Perché gli adulti si arrabbiano o
comunque mostrano reazioni negative? Credo che la ragione sia da ricercarsi
nel fallimento di una previsione, di un pre-giudizio, che il compito del
resto chiede. La “trappola” scatta con maggiore efficacia alla seconda
previsione fallita: il primo fallimento in qualche modo è atteso, implicito
nel contesto del gioco proposto. Il secondo è più grave non solo perché è “ancora
un altro fallimento”, ma perché non ha per oggetto soltanto la specificità
della previsione, ma comincia a mettere in dubbio anche la capacità stessa di
fare previsioni. In
merito alla “seriazione”, so bene che quella che propongo non è una “serie”
in senso strettamente matematico (infatti parlo di sequenza), ma mi sembra
che questo sia un ulteriore sostegno al discorso sui pre-giudizi: se usciamo
dalla logica squisitamente scolastica dei “problemi col +” ovvero degli
esercizi in cui si sa già prima quale struttura applicare e ci avventuriamo
un passo più in là nel mondo, dove gli esercizi ci chiedono di scoprire la
struttura che c’è nel pezzo di
realtà che ci viene sottoposto, allora ci rendiamo conto di quanto limitato e
limitante sia il nostro bagaglio di pre-giudizi e la pretesa che la realtà
coincida con quella piccola parte che le nostre premesse ci permettono di
cogliere. Nel
prosieguo del gioco la logica modulare renderà evidente l’impossibilità di
prevedere (quando la sequenza “ricomincia da capo” per la seconda volta non
si può sapere se è terminato solo un secondo modulo o anche un modulo di
secondo livello composto di due moduli... e così via): sarà possibile
descrivere la legge di composizione della sequenza soltanto quando la
sequenza sarà finita, ma a quel punto non ci sarà più nulla da pre-vedere. E per l’adulto, dotato più
del bambino di pre-giudizi, abituato più del bambino dai successi accumulati
a considerarli leggi universali, preoccupato più del bambino di poter
controllare il mondo attraverso la conoscenza di leggi universali, il fallimento
mette in gioco un fondamentale senso di sicurezza nella relazione con il mondo.
Nello svolgimento del laboratorio si presenta prima o poi un passaggio quasi
inevitabile in cui gli insegnanti esprimono (mascherano) questo problema
della propria rassicurazione
esplodendo in un “ma noi ai bambini dobbiamo insegnare delle certezze!”. E
questo ci porta a quella relazione, consapevole o no, comunque ineliminabile
dall’esperienza umana, che nella conoscenza lega saperi e affettività. saperi e affettività Nel
laboratorio, in uno dei momenti in cui si discute un’esperienza fatta, spesso
propongo una modalità particolare, una “regola” per cui le persone, che
abbiano qualcosa da dire o no, devono prendere e passare la parola seguendo
il circolo in cui sono disposte: nessuno può parlare se non quando la parola
gli viene passata dal vicino che lo precede. Anch’io, dopo aver avviato la
discussione, rispetto la regola. Se a qualcuno “scappa” di parlare fuori
turno, di solito basta un cenno per zittirlo (da parte mia è l’unico intervento
in cui mi colloco non dentro la discussione regolata, ma nel livello “meta”
da cui la discussione viene regolata). C’è
quasi sempre qualcuno che dopo un po’ non regge la costrizione. Quello che succede
è una situazione di ambiguità: chi ha preso la parola fuori turno ha rotto la
regola (spesso con un intervento che propone proprio la dismissione della
regola), ma la regola vale ancora o no?. Se il trasgressore chiede, per
sancire la validità di una nuova regola, la mia approvazione, da una parte si
contraddice perché ha appena negato la mia autorità di garante, e d’altronde
dall’autorità in risposta a una trasgressione non può che ricevere una
repressione. Se non si rivolge a me ha bisogno di un’altra autorità: così o
impone la propria, ma di nuovo si contraddice perché proprio la sua azione ha
negato la validità di una autorità non accettata, oppure deve contrattare una
legittimazione collettiva, ma, proprio per avere negato l’autorità garante,
si trova in un regime in cui non sono previste regole di contrattazione né
chi ne sia il garante. Il
problema che così ho provocato (che cosa succede quando non si rispettano le
“gerarchie” tra “in” e “meta”, tra contenente e contenuto, tra argomento e
contesto...) è interessante dal punto
di vista di quelli che Bateson chiama i “tipi
logici” della organizzazione e della descrizione della realtà; ma questa
situazione per le persone non è soltanto un oggetto di discussione quanto di
esperienza diretta e ciò provoca conseguenze sul piano delle relazioni e dei
sentimenti. Tra i partecipanti c’è chi ritiene ancora valida la regola del
turno e aspetta il proprio turno, salvo esprimere rimostranze per il fatto di
aspettarlo invano, chi dà per scontato che c’è un nuovo regime di libertà di
intervento e cerca di intervenire nel merito della discussione precedente,
chi interviene nel dibattito sulle regole, mentre io naturalmente (per un po’)
sto zitto e osservo. Quello che ne risulta è un grande disagio, e manca poco
perché diventi frustrazione, rabbia, aggressività. In gioco in una situazione
come questa, dove il ruolo chiave lo giocano le “regole”, è il potere, e il
potere fa male. E che le dinamiche legate al potere abbiano molto a che fare
con la scienza non lo sta a dimostrare solo la vicenda di Galileo, ma
paradossalmente il ruolo autoritario che la scienza che da Galileo è nata ha
assunto sempre più in questi quattro secoli, tanto che “l’hanno detto gli
scienziati” rappresenta oggi l’emblema dell’autorità. Questo
è solo un esempio forte, ma i vissuti personali nel laboratorio mettono in campo
altri aspetti affettivi e relazionali, accanto e intrecciati a quelli
cognitivi ed epistemologici. Ecco come vengono espressi dai partecipanti al
momento della conclusione in risposta a alcune parole stimolo: “la zavorra”
(cioè le abitudini che ciascuno si è portato dietro e che gli si sono
rivelate come impedimenti): “Le
aspettative troppo grandi”, “La paura di non essere all'altezza”,
“Desuetudine alla logica”, “Pregiudizi nell'individuare il piano di
pertinenza”, “L'incapacità di mettersi di fronte a un problema con occhi
nuovi e sguardo aperto”, “Pigrizia e mancanza di elasticità mentale”, “La
certezza data dall'uso di un solo punto di vista”, “Difficoltà a uscire
dall'abitudine a un modo di pensare”, “La logica delle dicotomie”,
“Linearità, uniformità”, “Mancanza di interesse per problemi logico
matematici”, “La coscienza della complessità e il timore di non reggerla”. “l'ostacolo”
(la situazione che all'interno del laboratorio ha creato a ciascuno più difficoltà): “Eccessiva
astrazione, mancanza di indicazioni didattiche, di finalizzazione del concetto
al progetto”, “La paura di non farcela”, “Difficoltà a comunicare i
pensieri”, “La formalizzazione astratta”, “Il non trovare soluzione a
problemi apparentemente semplici”, “La discutibilità di ogni cosa”, “La
mancanza di dati oggettivi, di sicuri punti di partenza”. “la svolta”
(un momento ritenuto cruciale nello sviluppo del laboratorio, così come si è
svolto): “Comprendere quanto poco si dà spazio ai bambini, ai
loro tempi”, “La fecondità dell'ascolto”, “L'importanza del pensiero collettivo”,
“Il raggiungimento di un'armonia nel dialogo”, “La percezione di nuovi e
permanenti bisogni di conoscenza”, “Lo smontaggio del pregiudizio sulla
generalità del modello meccanico”, “L'instabilità dell'equilibrio”, “L'uso
del corpo”, “L'insistere”, “Lo svelarsi di connessioni”, “Il mettere, attraverso
il dialogo, una giusta distanza tra aspettative didattiche e il lavoro del
laboratorio”. “l’idea”
(nelle mie intenzioni era propriamente un concetto elaborato, messo a fuoco,
all'interno del laboratorio, di particolare importanza o novità; è stato
interpretato anche come consapevolezza acquisita): “Il
non essere sola a voler pensare, a credere nella scuola, a volere l'interezza
della persona”, “L'efficacia di una aggregazione alla pari”, “Il metodo della
elaborazione condivisa”, “Non solo più vie per l'apprendimento ma l'intreccio
delle vie”, “La relazione tra corpo conoscenza crescita”, “Non solo idee:
osservare scoprire”, “L'accettazione della imprevedibilità”, “La bellezza del
pensiero”, “Conoscere come ri-conoscere”, “Le categorie di semplicità/complessità”,
“La possibilità di una ricerca per collegare l'epistemologia alla esperienza,
al senso comune, alla didattica”. Non
è il caso qui di commentare queste risposte che mettono insieme il contesto
contingente del laboratorio (una piccola comunità di ricerca), la biografia
(di chi viene chiamato ad agire in prima persona), l’argomento del
laboratorio (le premesse del pensiero scientifico classico). Quello che ho
voluto sottolineare riportando questi elementi dei vissuti dei/delle partecipanti è che costituiscono il contesto ineludibile del possibile
cambiamento. Una certa mancanza di incisività delle risposte rispetto ai contenuti
specifici del laboratorio mi dice anche che queste condizioni, che possono fare di un laboratorio un laboratorio
efficace dal punto di vista formativo, non determinano di per sé la direzione del cambiamento che
costituisce lo specifico scopo del laboratorio, cioè in questo caso un modo
di pensare diverso. Per quello occorre anche uno spessore di ricerca specifica. Che
il pensiero cambi è reso ovvio dallo sviluppo intellettuale dei bambini e
dall’esistenza ormai millenaria di teorie, pratiche e istituzioni preposte a
studiare, indirizzare, modellare, questo processo. Ma nello specifico io do
all’affermazione precedente un senso più preciso: i bambini perdono la capacità di pensare in
maniera complessa, per acquisire in cambio la modalità di pensare “standard”
degli adulti della propria cultura, che nel nostro caso ha un diretto e
consolidato rapporto genealogico con Cartesio e, più in su, con Aristotele. E
questo rapporto passa per ciascuno essenzialmente dalla scuola e dall’acquisizione
del linguaggio degli adulti. Allora, in conclusione, ci si può chiedere se un
laboratorio sull’azione del pensare che mette in azione il pensiero, lo fa inciampare
mettendo in luce la relatività e a volte l’inadeguatezza delle sue premesse,
può far cambiare queste premesse, può far cambiare il modo di pensare degli adulti. La mia risposta è che un
certo numero di anni di una ricerca (di cui il laboratorio è la proiezione
formativa) che tenta di ricostruire nella mia storia un’interezza, o almeno
una relazione organica con altre esperienze che vanno dal teatro allo yoga
alla relazione diretta con la natura, hanno prodotto qualche primo sintomo di
cambiamento... nel mio modo di
pensare. |
[1] Antonio R. Damasio,
L’errore di Cartesio, Adelphi 1995.
[2] Marcello Sala, “La
guerra e l’arte della manutenzione del pensiero”, in Cooperazione
Educativa n. 4 1991, La Nuova Italia.
[3] Gregory Bateson, Mente
e natura, Adelphi 1984.
[4] Domenico Parisi, Intervista sulle reti
neurali, Il Mulino 1989.
[5] si veda: Gianluca Bocchi Mauro Ceruti, Origini
di storie, Feltrinelli 1993.