Insegnanti al museo relazione
sugli incontri di formazione con animatori/trici a
cura di Marcello Sala 1°
incontro Agli animatori e alle animatrici è stato chiesto
di raccontare un episodio ritenuto di particolare successo o insuccesso nel
contesto delle esperienze condotte con gruppi di insegnanti. La forma della narrazione permette una espressione più vicina al
vissuto e alla materialità dell’esperienza, senza separazione tra aspetti
cognitivi ed affettivi. Lavorando su questi “testi” come oggetti linguistici
è possibile ottenere indicazioni significative sulle rappresentazioni
culturali e sugli investimenti affettivi che sono effettivamente in gioco nel
rapporto formativo, a fianco, ma in ombra, rispetto alle dimensioni
progettuali, alle intenzionalità, ai valori espliciti. Provo a ordinare le problematiche emerse. Un primo nucleo ha a che fare con le rappresentazioni che si hanno del
proprio ruolo, che sembra comprendere aspetti non scontati, come quello di
suscitare interesse, partecipazione emotiva, “desiderio” di attivare
discussioni oltre che azioni pratiche, di coinvolgere gli insegnanti nella
trasferibilità a scuola, di mettere in moto processi che si sviluppino nelle
scuole, di essere tramite tra gli utenti e certe conoscenze o aree di ricerca. Sono
funzioni che, più della semplice trasmissione di conoscenze, comportano
aspettative e investimenti affettivi. Ecco allora la preoccupazione di
riuscire a farsi capire, l’insicurezza della propria competenza e la
soddisfazione nel vedersela riconosciuta, lo sconcerto e la delusione nel non
veder riconosciuto il senso e il valore delle proprie proposte. Questo
significa che la relazione con gli utenti non sta solo sul piano cognitivo,
ma che si è presi in un gioco di azioni-reazioni di reciproca dipendenza
emotiva. Per certi versi è una situazione “teatrale”, in cui il desiderio del
pubblico attiva l’energia e la presenza dell’attore (un gioco in cui comunque
c’è diversità di ruoli tra attore e pubblico). Ma la ricerca di un riscontro da parte dell’altro non si gioca solo sul
piano di un naturale piacere narcisistico (risultare graditi come persone),
ma su una verifica di valore della propria professionalità (ritrovare a
distanza di tempo nell’utenza tracce del proprio lavoro), professionalità che
comprende le dimensioni rappresentate sopra. Naturalmente ci si sente in difficoltà quando qualche utente non si
coinvolge o addirittura manifesta un rifiuto. Solo nella misura in cui
ciascuno riesce a tollerare la propria ansia può permettersi di non reagire, occupandosi
del resto del gruppo, attribuendo a quella persona la responsabilità della
propria partecipazione. Ma c’è anche da chiedersi quanto le manifestazioni
di non coinvolgimento sono da registrare come dati di realtà in una verifica
della propria efficacia come animatore/trice oppure
come messaggi che quella persona invia (1° assioma della “pragmatica della
comunicazione” di Watzlawick) riguardo a propri
problemi. Anche un comportamento negativo come quello di chi lavora per
“trascinare via” il gruppo può essere la manifestazione di un proprio
disagio. E qui entriamo nel discorso delle reazioni difensive che vedremo più
avanti. A volte ciò che viene messo in crisi da certi comportamenti degli
utenti è la propria sicurezza nell’attribuirsi valore, cosa resa più
difficile dall’età e dalla qualifica. Sullo sfondo c’è una valutazione
sociale che dà meno valore ad un giovane animatore (o animatrice!) rispetto
ad un professore universitario, o anche ad un insegnante, e che non a caso
emerge nelle situazioni in cui il confronto con queste figure è ravvicinato. A questo fa da contrappeso, se si vuole, lo spiazzamento che deriva dal
constatare come il comportamento degli insegnanti sia spesso molto simile a
quello degli studenti, ma questo rimanda ad un problema strutturale della relazione
formativa con gli insegnanti che vedremo più avanti. Altro problema interessante emerso dai racconti è quello relativo alle
premesse culturali, che, proprio perché profondamente radicate, sono in larga
parte inconsapevoli e possono creare difficoltà nella relazione formativa.
Quella più significativa nel contesto di un Museo scientifico è la premessa
della “trasparenza” della realtà, che viene dalla cultura scientifica; che
può indurre a considerare evidente ciò che non lo è per chi non condivide la
stessa formazione culturale. Sono stati individuate anche due variabili importanti di cui tenere
conto nei discorsi sulla relazione formativa. Una è la differenza tra i vari
ordini di scuola da cui provengono gli/le insegnanti: al di là delle
differenze caratteriali, vi sono delle caratterizzazioni legate alla cultura
dell’organizzazione. D’altra parte il problema della coerenza tra gli
obiettivi formativi e le attività proposte va articolato tenendo conto delle
differenze tra i vari laboratori, che sono significative sia sul versante
della “materialità”, ovvero delle condizioni di svolgimento (gli spazi, gli
oggetti, i materiali, le articolazioni in unità di senso…) sia sul versante
epistemologico (le specificità del linguaggio e dei contenuti cognitivi,
delle strutture disciplinari…) Nella seconda parte dell’incontro sono state proposte delle
osservazioni fatte da me durante i laboratori tenuti al Museo sull’educazione
tecnica. Nel merito la domanda è stata: le osservazioni fatte con queste
modalità sono pertinenti e forniscono materiale interessante per una
riflessione sulla conduzione dei laboratori? Ma c’è un’altra domanda “meta” cui occorre rispondere: alla luce di
questa esperienza è tollerabile essere osservati mentre si lavora? (in questo
senso per rispondere qualcuno si è generosamente sottoposto all’esperienza
dell’essere osservato). Ogni osservazione è un giudizio, anche se non bisogna
interpretare la parola “giudizio” nel senso restrittivo (che pure è
socialmente pregnante) di “ha fatto bene/male” “è bravo/no”, ma anche, e in
primo luogo, nel senso filosofico di definire degli oggetti, di dare loro un
nome: “è quadrato”, “è un tavolo”, “ è una reazione difensiva”. Dalle osservazioni analizzate si può ricavare materiale interessante
soprattutto sulle reazioni degli insegnanti. Ci sono situazioni che
inevitabilmente li sottopongono ad un giudizio, anche se nessuno
esplicitamente li giudica, come quando viene proposto un modello positivo di
comportamento, oppure sono chiamati a rispondere a richieste che prevedono
un'unica risposta “giusta”. In questo caso l’auto-giudizio sfavorevole
provoca reazioni difensive, che consistono nel “giustificarsi” attribuendo la
mancanza di qualità ad altri (gli studenti in primo luogo) o alle condizioni
avverse, oppure nel recuperare autorevolezza nei confronti dell’animatore
(sfidandolo o affermando una propria competenza su un terreno diverso),
oppure nel sottrarsi alla prova (estraniandosi o “contestando” a seconda del
carattere). Altre osservazioni riguardano la relazione tra tipo di azione
dell’animatore e tipo di risposta (ad esempio sull’asse attività-passività);
ad esempio il modo di dare le consegne può differenziare il modo in cui gli
utenti si rappresentano la propria attività, come esplorazione libera o come
compito strutturato. La variabile affettiva in gioco sembra essere essenzialmente il senso
di sicurezza, sia rispetto al giudizio o al suo fantasma, sia riguardo
all’incognita che apre (oltre alla fatica che comporta) ogni proposta di cambiamento.
L’animatore/trice in questo senso gestisce un
potere di rassicurazione che è in tensione con la necessità di spiazzamento
che ogni processo di apprendimento (e quindi di cambiamento) comporta, e che
costituisce il senso stesso della formazione. Ma l’elemento più significativo che si ricava dalle osservazioni
riguarda l’oscillazione degli animatori tra comportamenti che collocano
l’utente insegnante nel ruolo di formando (“come se fosse un ragazzo”) e
quelli che lo collocano nel ruolo di formatore (come un collega che gestisce
una relazione formativa con bambini/ragazzi in un contesto diverso). Ma non
si tratta tanto di un problema di abilità degli/delle animatori/trici, quanto del “paradosso della formazione dei
formatori”: un insegnante che partecipa come formando ad una attività
formativa lo fa in quanto formatore. È una questione strutturale che non può essere elusa
e che costituisce il nucleo di senso della differenza tra gestire laboratori
con ragazzi e con insegnanti (più che con adulti in generale). In merito all’esperienza dell’essere osservati ci sono state reazioni
positive riguardo alla possibilità di vedersi dal punto di vista di un altro,
confrontabile con il proprio dall’interno: come dice Bateson
“due visioni sono meglio di una” non tanto perché si sommano quanto perché
fanno nascere una nuova dimensione di profondità. Lo scopo è di fornire elementi per una analisi più adeguata del
rapporto tra il proprio agire formativo e i suoi effetti da una parte e le
intenzioni formative dall’altra. Nell’accogliere l’osservazione come un utile strumento di
ricerca-azione, il gruppo sembra preferire che, almeno all’inizio, sia
condotta da un “esterno”, rimandando eventualmente ad una fase successiva la
possibilità di una osservazione reciproca, di cui si riconoscono i limiti
come i vantaggi. La presenza dell’osservatore comunque richiede di essere concordata con
l’animatore/trice, tenendo conto del tipo di
attività e di utenza, perché non si deve dimenticare che quella
dell’osservatore è una presenza che entra nelle dinamiche relazionali in modo
significativo (è meno tollerabile ad esempio in situazioni in cui le singole
persone si espongono). 2° incontro Abbiamo già incontrato
il “paradosso della formazione dei formatori” vale a dire “un formatore che partecipa come formando ad
una attività formativa lo fa in quanto formatore”. Normalmente il comportamento di chi guida
un’attività formativa (insegnante, animatore, educatore ecc) costituisce una condizione
per l’apprendimento dei formandi (studenti di
medicina o apprendisti cuochi che siano). Nel caso che i formandi
siano a loro volta formatori, il comportamento di chi guida è anche
oggetto della formazione: di per sé (quindi anche non in modo
intenzionale) esso costituisce un modello, un esempio di come si fa
formazione (per gli studenti di medicina o gli apprendisti cuochi questo non
è oggetto di apprendimento). Questo, ricorsivamente, vale anche nella nostra situazione, che in una
forma diversa può essere considerata un contesto formativo. Per questo anche
ciò che capita a noi in questi incontri fa parte del gioco e può essere un
interessante oggetto di riflessione. Un esempio: un animatore mi ha chiesto, nel riferire le osservazioni
fatte nel laboratorio da lui condotto, di esprimere anche giudizi di valore. Indipendente dall’intenzione, questa
richiesta mi mette in un “doppio vincolo” che è tipico nelle situazioni
educative. Essa infatti implica un’attribuzione di autorevolezza: se rifiuto,
rinuncio all’autorevolezza che è una condizione necessaria per ricoprire
questo ruolo; se aderisco alla richiesta contraddico quanto precedentemente
affermato a proposito del dare giudizi nel mio ruolo e per questo perdo autorevolezza. Nel
merito rispondo che il giudizio che si può dare riguarda la coerenza tra gli
effetti del comportamento e le intenzioni dell’animatore stesso e che quindi
lui è il più qualificato a formularlo (con questo gli restituisco responsabilità). Un’altra risposta
riguarda che cosa farei io al suo posto (sarei più contenitivo e direttivo
perché non tollererei la mia ansia di fronte al “disordine”). Ma questa
risposta si colloca all’interno di una parità (se fossi al suo posto)
e non dentro l’asimmetria del ruolo formativo che io ho in questa sede. Un
eventuale dissenso sarebbe una divergenza di opinioni tra colleghi e non
creerebbe un doppio vincolo (che consisterebbe in questo: se io sono il tuo
formatore e disapprovo quello che fai, o tu ti adegui svalutandoti, o mi
contesti non riconoscendo la mia autorevolezza e con ciò ti sottrai al rapporto
formativo). Ma, parlando di questo episodio come doppio vincolo e
facendone oggetto di una discussione con il mio interlocutore, ho collocato
lui e me in una posizione esterna al doppio vincolo stesso, che è il
modo per sottrarsi ai suoi effetti negativi: c’è un salto di “livello logico”
tra stare dentro un gioco con le sue regole e invece poterne discutere e
stabilire le regole, che comporta un vissuto emotivo (sentirsi prigionieri) e
aspetti relazionali (subire il potere di un altro). I bambini nei loro giochi
scivolano con facilità tra questi due livelli logici (dicono “facciamo che io
ero…” e subito prima e subito dopo recitano la parte di…), ma crescendo si ha
bisogno sempre più di segnali che indichino quando si passa da un livello
all’altro (il teatro, i giochi di società, lo sport ecc. sono contesti ben
segnalati che rendono accettabili comportamenti altrimenti intollerabili
nelle relazioni tra adulti). I doppi vincoli tendono ad essere degli schemi di
relazione che si ripetono e si consolidano nelle situazioni educative. Quando
si incontra una classe con i suoi insegnanti si entra in una storia senza
conoscerla e si rischia di essere coinvolti in questi giochi di doppio
vincolo. È utile perciò imparare a riconoscerli. Dalle esperienze riportate abbiamo ricavato alcune
riflessioni. I “giochi” relazionali in cui più frequentemente si
rischia di essere trascinati seguono due schemi base: la complicità e la
competizione. La ricerca di complicità contro i ragazzi può
essere, per l’insegnante che tiene molta “distanza” dai ragazzi ma che si
sente giudicato come insegnante, un modo per difendersi da una possibile
“vicinanza” tra ragazzi e animatore. Il dare preventivamente all’animatore un
giudizio negativo sui ragazzi può essere una tattica per sottrarsi al
giudizio negativo che ricadrebbe sull’insegnante in caso di comportamento
inadeguato dei ragazzi. La smentita da parte dell’animatore (“ma no, sono
bravi”), anche su una base reale, se da una parte rompe questo gioco, nella
relazione con l’insegnante può essere vissuto come un atto aggressivo, perché
implica un giudizio negativo (“se ragazzi così bravi non si comportano bene
con te, la colpa è tua”). Se il gioco è quello della complicità tra ragazzi e
animatore, quest’ultimo deve aspettarsi reazioni da parte degli insegnanti
che vivono la difficoltà ad essere “messi da parte” nella relazione con i ragazzi:
possono essere richieste più o meno scoperte di essere “associati”
all’animatore (importante leggere i segnali nel modo di collocarsi dei corpi
nello spazio), soprattutto quando ha successo, oppure reazioni aggressive. L’insegnante non sicuro della propria autorevolezza
nella relazione con i suoi studenti, oppure che investe affettivamente troppo
su di essa, può cercare una rassicurazione del proprio ruolo mettendosi in
competizione con l’animatore. L’animatore dovrebbe decidere se puntare sulla
vittoria dentro la competizione oppure se costruire una posizione
“meta-” in cui la competizione diventa un oggetto da osservare e gestire in
nome di una responsabilità educativa di ordine superiore, e in cui cercare di
portare anche l’insegnante o, alla peggio, i ragazzi. Un modo per disinnescare la competizione, in cui
l’insegnante si sente perdente e quindi manifesta aggressività, è quella di esplicitare
le differenze (sono reali, ma devono diventarlo nella rappresentazione
dell’insegnante) di contesto tra scuola e visita al Museo (i tempi,
l’elemento “valutazione”, gli obiettivi, le condizioni ecc.) costruendo così
una rappresentazione in cui le due situazioni sono complementari, cioè
entrambe necessarie nella loro diversità per costruire l’interezza del
compito educativo. In questo gioco relazionale va tenuto conto, al di là
delle caratterizzazioni individuali, della diversità culturale che vi può
essere nella relazione educativa, e nei relativi investimenti affettivi, tra
scuole elementari, medie o superiori. Sullo sfondoquello con cui si
ha a che fare è il fantasma, potente,
del “giudizio”: è bene esserne sempre consapevoli. Sono state analizzate le osservazioni fatte durante un
altro laboratorio con gli insegnanti di educazione tecnica. A seconda delle
situazioni gli interventi dell’animatore assumono gli insegnanti come “colleghi”
(e sembrano prevalere nella fase di introduzione e di conclusione) oppure
come “allievi” (più nella fase centrale dell’attività proposta specifica del
laboratorio). Le osservazioni mostrano un ulteriore tipo di strategia di
conduzione, che punta sul lasciare autonomia all’azione delle persone per poi
ricostruire a posteriori il senso delle esperienze. È una strategia che
richiede un forte dispendio di energie perché rinuncia a dare indicazioni
univoche e uguali per tutti, puntando su interventi caso per caso, in
risposta alle richieste o alle situazioni che si creano, il che richiede
attenzione costante, spostamenti continui, capacità di tenere un filo nella
dispersione delle azioni e delle richieste. E richiede anche una capacità di
tollerare l’ansia che deriva dal non “controllare” la situazione. Una proposta di questo tipo è spiazzante e da una parte
attiva curiosità e autonomia, dall’altra può creare insicurezza,
disorientamento e notevole differenza di reazioni. Anche qui si può cogliere una relazione tra
l’iniziativa di chi conduce e i comportamenti dei partecipanti. La proposta
di esplorazione (non guidata, ma non del tutto libera, perché l’animatore
tiene comunque dei confini) sembra far funzionare meglio l’identificazione
nel ruolo degli “allievi”, compresa qualche “regressione” a comportamenti
deresponsabilizzati. Quando l’animatore riprende la sua centralità e “spiega”,
la risposta sembra essere una maggiore passività da parte dei partecipanti. Questo conferma l’ipotesi che nella cultura
dell’insegnante ci siano dei contesti stereotipati (la “spiegazione” l’
“interrogazione”…), ovvero dei sistemi di significati e di relazioni, e che
ci siano delle situazioni, dei comportamenti, che fungono da “segnacontesto”, cioè dei segnali che indicano in quale
contesto ci si trovi; ed è come se una legge di adattamento mettesse in
azione automaticamente, in risposta a determinati segnacontesto,
determinati comportamenti, che la “selezione culturale” ha consolidato come
più adeguati. Da queste osservazioni emerge una strategia, un modo di
affrontare il nodo centrale del “paradosso della formazione dei formatori”,
che sembra rivolta a tenere contemporaneamente presenti entrambi gli aspetti,
di formandi (utenti del laboratorio) e formatori
(insegnanti responsabili di un contesto formativo scolastico). Una strategia molto diversa è quella che nel
laboratorio esclude qualsiasi riferimento al ruolo formativo degli utenti,
per sottolinearne soltanto l’identificazione con i ragazzi. È significativo
che i partecipanti soltanto alla fine del lab si
rivolgano all’animatore ponendo domande e richieste come insegnanti. Ancora
una volta ad una scelta strategica dell’animatore, purché coerente,
corrisponde un certo tipo di risposta. Non è certamente un fatto meccanico
(gli “attesi imprevisti” fanno parte del gioco formativo) ma ci consente
qualche generalizzazione, cioè di imparare qualcosa dall’esperienza; come ad
esempio che è bene che ciascuno, attraverso un processo “per tentativi ed
errori” elabori una strategia sostenibile, cioè coerente con le
caratteristiche personali (l’interprete deve essere adatto al personaggio, o
meglio: il personaggio deve essere costruito sull’interprete). Da biologo mi piace ricordare che l’evoluzione richiede
una base di diversità e una interazione tra le diversità (per noi significa
garantire un luogo di comunicazione e rielaborazione) 3° incontro Si è ragionato a partire
dall’esperienza di progettazione in coppia (animatore/trice
del Museo – tutor) per l’iniziativa di Scuola & Museo. Le situazioni in questa
fase sono abbastanza diversificate nelle diverse coppie anche in relazione
alle caratterizzazioni psicologiche individuali. Ci sono però alcuni elementi
di contesto generale che appaiono problematici e sui quali vale la pena di
lavorare collettivamente. Semplificando, il
problema riguarda la difficoltà, nella relazione “di coppia”, a definire i
ruoli dei due. Aleggiano nell’aria
culturale delle immagini come quella dell’ “assistente di laboratorio” che
non aiutano. C’è anche la profonda
ambiguità (istituzional-culturale) di cui sono
portatori i tutor, che sono dei formatori di insegnanti pur essendo
insegnanti, il che comporta problemi di relazione con i colleghi nelle scuole
di appartenenza e di accreditamento nei luoghi di formazione; questo può
indurre in alcuni una attitudine difensiva-aggressiva. È chiaro che tocca alle
persone contrattare e/o costruire una relazione di lavoro all’interno della
coppia, ma poiché si tratta di “ruoli”, che quindi hanno anche un livello
istituzionale, ha la sua importanza la cornice entro la quale si muovono. In questo senso sarebbe
molto utile se nelle comunicazioni di livello “istituzionale” (come l’inizio
ufficiale del progetto con tutti gli insegnanti) da parte di chi si colloca
ad un livello “superiore” del progetto venisse delineata questa cornice. Questo sulla base di un
elemento costitutivo: la diversità di contesti. La scuola e il museo sono due
ambienti educativi molto diversi (per tempi di contatto con gli utenti, per
obiettivi istituzionali, per condizioni materiali ecc.). Per questo non ha
senso un confronto (con il poco consapevole e perciò pericoloso intento di
stabilire chi è più bravo tra animatore e insegnante/tutor) mentre ha molto
senso uno scambio (gli animatori hanno molto da insegnare su come si
organizza e si gestisce un laboratorio con i bambini, competenza poco
presente a scuola, ma non conoscono e non praticano il contesto pedagogico e
materiale in cui si colloca un laboratorio a scuola, per cui il trasferimento
a scuola richiede la competenza del tutor). Quello che conta è che sulla
diversità delle competenze si basa la pari dignità dei due personaggi e
l’articolazione dei loro ruoli. All’interno di questo
discorso hanno la loro importanza anche i nomi. I “ragazzi del museo” sarà pittoresco
ma è chiaramente svalutante; “animatori” potrebbe andare bene se non ci fosse
una troppo larga fruizione del termine, all’interno della quale il Club
Mediterranée è il riferimento più forte. In questo contesto sarebbe il caso
di usare la denominazione ufficiale di “divulgatori scientifici” e di sottolinearla.
La definizione dei ruoli in
relazione tra loro è fondamentale per affrontare positivamente il lavoro con
gli utenti insegnanti. Una linea che sembra condivisa è quella di mantenere
separato l’ambito del laboratorio da quello del trasferimento a scuola
(pensare prima a come rispondere a richieste estemporanee che possono rompere
la distinzione sei contesti); nel primo gli insegnanti sono utenti, viene
gestito dal divulgatore scientifico, e il tutor potrebbe fungere da
osservatore; il secondo è gestito dal tutor, e il divulgatore scientifico
potrebbe fungere da consulente non solo per l’aspetto scientifico ed
organizzativo ma anche per la relazione educativa con i bambini in contesto laboratoriale. |