Marcello Sala APPRENDIMENTO DI GRUPPO APPRENDIMENTO IN GRUPPO relazione
introduttiva UNA
PREMESSA EPISTEMOLOGICA Prima di entrare nel merito di alcune
riflessioni sul rapporto tra gruppo e individuo dal punto di vista
dell'apprendimento, sento la necessità, per avere un terreno più solido su
cui poggiare i piedi, di eliminare un equivoco, così grosso che spesso
risulta difficile da percepire. Pensare, all'interno di un qualsiasi
livello di analisi o di azione, individuo e gruppo come due termini disgiunti di una relazione, o
addirittura due entità che si possono contrapporre, è una scelta di carattere
epistemologico che condiziona qualsiasi discorso ulteriore. L'equivoco consiste
nel fatto che il gruppo di cui si
parla comprende l'individuo di cui
si parla: il gruppo non è un'alterità rispetto
all'individuo. L'individuo è parte del gruppo, e, in un altro senso, il
gruppo è parte dell'individuo, in quanto componente fondamentale della sua
identità in termini di appartenenza, di cultura interiorizzata. Che lo voglia
o no, che lo riconosca o no, ciascuno/a di noi appartiene a molti gruppi e
molti gruppi gli/le appartengono, con tutto ciò che questo comporta. Pensare
individuo e gruppo come entità disgiunte significa non riconoscere la circolarità
dei molteplici rapporti organici "essenziali" che li legano. Questo errore ha un'altra faccia, del
tutto complementare, che consiste nel non riconoscere la differenza di livello organizzativo tra individuo e gruppo. Le cellule sono le componenti
fondamentali del nostro corpo; ad un certo livello di descrizione esse sono
sistemi autonomi dotati di una organizzazione interna, ma questo livello di descrizione
non ci rende ragione del funzionamento di un organo come il rene anche se il
rene è fatto di cellule: la fisiologia o la patologia del rene dipendono
dalle differenze e dalle relazioni tra le cellule che lo compongono, in una
parola dalla loro organizzazione. Per rendere ragione del comportamento
emotivo o cognitivo di un individuo non ci serve il livello di descrizione pertinente
per il rene e per ciascuno degli altri organi, anche se il comportamento emotivo
o cognitivo dipende anche dal funzionamento
dei reni e di tutti gli altri organi del corpo. Allo stesso modo fenomeni sociali
come l'economia, la cultura, la Storia, le leggi, le istituzioni, il
linguaggio ecc., concorrono a determinare la qualità della vita, il vissuto,
il comportamento di ogni individuo, così come ogni individuo, con la sua biografia
e le sue scelte concorre a determinare quei fenomeni sociali. Tuttavia il
fatto che esistano relazioni e determinazioni reciproche che si sviluppano in
modo circolare non significa che l'economia, la cultura, la Storia, le leggi,
l'organizzazione sociale ecc., siano descrivibili a partire dalla psicologia
dell'individuo, e viceversa. Ogni sistema è un sottosistema e ad ogni livello di organizzazione corrisponde
un livello di pertinenza delle descrizioni che ne facciamo. Un gruppo dunque non esiste e non
vive se non a partire dall'esistenza e dalla vita dei suoi membri. Ma le
relazioni tra gli elementi che costituiscono il gruppo fanno emergere fenomeni
propri del livello di gruppo che non sono presenti a livello dell'individuo,
né sono la somma dei fenomeni individuali. Ecco perché è un errore
epistemologico carico di conseguenze non riconoscere che per questi due
differenti livelli di organizzazione della realtà sono diversi i metodi di
indagine, le categorie di interpretazione. Contrapporre l'individuo al gruppo in
termini di soggettività contrapposta all'oggettività mi appare come una conseguenza
di questi errori epistemologici di fondo: significa ignorare come il discorso
della soggettività si riproduca a livello di soggetti collettivi in termini
di relatività culturale (su basi di genere, etniche, di classe… o di tifo
calcistico). La differenza, o il conflitto, che sono tanto significativi
nella sfera delle relazioni tra individui, non lo sono certo di meno nella
sfera delle relazioni tra gruppi, anche se le forme di organizzazione
richiedono descrizioni di livello diverso. Anche il polarizzare individuo-gruppo
su un asse di valore mi appare come causa e/o conseguenza di atteggiamenti estremi:
da una parte la fuga dal coinvolgimento in una relazione individuale,
dall'incontro-scontro "corporeo" con una soggettività; dall'altra,
simmetricamente, la fuga dall'assumersi la responsabilità di un livello di
relazioni in cui più soggettività entrano in competizione. Valorizzare la
soggettività individuale, nel senso di prendersene cura, è evitare che il
vissuto vitale dell'individuo sia sacrificato alle forme astratte della legge
e dell'organizzazione, ma valorizzare la dimensione del gruppo nella sua
specificità sovraindividuale è farsi carico delle
relazioni tra soggettività, evitando, con forme di "patto sociale",
che l'inevitabile conflitto tra più soggettività sia in balia di puri rapporti
di forza. Pensare l'individuo e il gruppo come
due istanze disgiunte e contrapposte significa perdere il senso della
copresenza di questi livelli nella stessa realtà educativa in cui viviamo, e
quindi della necessità di una complementarietà nel prendersene cura. Può
anche essere che ciò comporti modalità affettive e cognitive, codici
comportamentali troppo diversi (maschili e femminili forse) per essere ricondotti
entro un'unica soggettività. C'è bisogno allora di un soggetto educativo collettivo
(la famiglia, il team, il gruppo) in cui di nuovo la complementarietà sia il
senso della relazione tra diversità. IL
GRUPPO COME… Nell'ambito educativo, cioè in una
realtà in cui intenzionalmente si promuovono cambiamenti, la dinamica
individuo-gruppo può essere osservata da punti di vista diversi, organicamente
connessi, ma anche descrivibili con una loro specificità. Alcuni li citerò
soltanto, non perché poco importanti, ma perché oggetto di altri interventi. Un primo punto di vista è quello che
in termini educativi definirei come cura della "socializzazione",
in tutti i significati che al termine "società" si vuole dare (le
varie articolazioni gruppali dentro la scuola le
posso assumere come realtà sociali e contemporaneamente come metafore di
realtà sociali più vaste). In questa direzione va il discorso sulle dinamiche
psicologiche e relazionali nel gruppo, e quindi sulle condizioni alle quali
un gruppo può diventare un "buon" gruppo. Mi limito qui a sottolineare
l'opportunità di diversificare la situazione di un gruppo marcato dall'appartenenza (a partire dal genere o
dal gruppo etnico d'origine fino al gruppo di amici) a quella in cui è
costitutiva del gruppo l'assunzione di un compito
comune (gruppo di lavoro). Anche se una condizione non esclude l'altra,
fare con-fusione nella rappresentazione là dove c'è una differenza non giova
alla costruzione di un "buon" gruppo: per gli esseri umani la rappresentazione
condiziona l'esperienza tanto quanto l'esperienza condiziona la rappresentazione:
non può esistere gruppo di lavoro, o gruppo di apprendimento come è una
classe di scuola, se i suoi membri non se lo rappresentano come tale La centratura sul compito mi porta ad
un secondo punto di vista: il gruppo come contesto di apprendimento. Possiamo
essere d'accordo che non si dà esperienza, quindi cambiamento, quindi apprendimento,
senza un soggetto che la viva: nessuno può sostituirsi all'individuo/a come
soggetto di esperienza. Ma mi sembra altrettanto sensato assumere che nessuna
esperienza si dà al di fuori del contesto di un gruppo, fisicamente presente
come insieme di individui in relazione, o interiorizzato come cultura, quindi
come sfondo, schema, linguaggio, preesistenti (e modificabili
naturalmente): su di essi vengono
proiettate e dai essi vengono interpretate le sensazioni, le percezioni, le
emozioni, a partire da essi vengono elaborate le azioni, i sentimenti, i
pensieri. Il gruppo dunque come contesto
ineludibile dell'esperienza, in cui si gioca il continuum dell'apprendimento
come co-evoluzione tra individuo e ambiente.
All'interno di questo sfondo si colloca il punto di vista più strettamente
educativo del gruppo come contesto di apprendimento, nel senso di condizione
favorevole od ostacolante un buon
apprendimento intenzionalmente promosso. E qui mi piacerebbe provare anche a
rovesciare la prospettiva aprendo la domanda: quanto l'apprendimento, un buon apprendimento, è una condizione
che favorisce la costruzione di un buon
gruppo? Sia nel senso più generale che una conoscenza, o meglio l'esercizio
di una capacità meta-cognitiva, relativa al gruppo, alle relazioni nel
gruppo, potrebbe favorire i processi di socializzazione, sia nel senso più
specifico che in un gruppo centrato su un compito di apprendimento la realizzazione
del compito costituisce un fattore evolutivo. Sembra banale, ma, all'interno di un
ambiente educativo come il nostro che ha sempre valorizzato la componente relazionale,
e in generale all'interno di un clima scolastico che per necessità ha oggi ri-centrato la propria attenzione e molte risorse sui problemi
psicologici, affettivi, relazionali, non mi sembra inutile riaffermare il
pericolo della separazione tra la sfera cognitiva e quella affettiva. Come
una scuola che non curi la relazione educativa è destinata a fallire sul piano
dell'apprendimento, così una scuola dove non si costruiscano saperi
semplicemente non è una scuola, vale a dire perde il suo senso, rispetto alla
società ma anche all'individuo che ad essa si affida per costruire,
attraverso la cultura, la propria identità. l'INSEGNAMENTO COME RISORSA evolutivA L'uomo si distingue dagli animali non
tanto perché impara o perché impara ad imparare, ma perché, grazie
soprattutto alla rappresentazione simbolica, può conservare i processi e i prodotti
dell'apprendimento, propri e degli altri. Ma ciò non sarebbe sufficiente a
costruire una cultura ed una storia, perché tali apprendimenti non si fissano
nel codice genetico e quindi non costituirebbero la base per una evoluzione:
ogni generazione si dovrebbe reinventare tutto. La risorsa adattativa
decisiva è dunque allora la capacità di insegnare
ciò che si va imparando[1]. Questo ci riporta anche ad un
ancoraggio biologico del gruppo come soggetto cognitivo. In questo mi rifaccio
qui ad un modo di considerare la conoscenza proiettato non su uno sfondo
cartesiano di separazione tra materia e mente ma su uno sfondo di continuità
biologica ("... occorre concepire
la realtà vivente non come sostanza ma come organizzazione. Possiamo quindi
concepire che il cervello e lo spirito abbiano in comune qualcosa che è sia
materiale sia transmateriale: l'organizzazione."
[2]).I bisogni della sopravvivenza, a
partire da quello di garantire l'integrità dell'essere dal degrado e dalle lesioni
attraverso una continua reintegrazione e rigenerazione, passando dal cibo e
dalla difesa, richiedono la capacità di trarre dall'ambiente informazioni in
funzione delle quali determinare il comportamento (riconoscere forme e
sostanze assimilabili o non assimilabili, fonti di benessere o di pericolo,
riconoscere certe ripetizioni/regolarità/costanze, individuare eventi e
perturbazioni). In un organismo primitivo, come il batterio, i tre aspetti
dell'essere, del conoscere e dell'agire intenzionale, sono indifferenziati
nel medesimo atto; ma anche quando nella scala evolutiva l'organismo "si differenzierà e si autonomizzerà, la conoscenza rimarrà inseparabile
dall'organizzazione, dall'azione, dall'essere." [3]. Se il gruppo, nel senso della popolazione, è l'unità
di sopravvivenza biologica in quanto l'evoluzione ha per soggetto una
popolazione e non un singolo organismo, nel caso dell'uomo lo è perché la via
evolutiva percorsa dalla specie umana per la propria sopravvivenza non è quella
dell'apprendimento individuale, ma quella della trasmissione degli apprendimenti
che implica una relazione sovraindividuale. Anche
per sopravvivere individualmente nell'isola selvaggia Robinson Crusoe usa strumenti costruiti nel suo gruppo sociale o
conoscenze relative alla fabbricazione di strumenti e a procedure, o, se
scopre o inventa qualcosa, usa comunque facoltà metacognitive
frutto dell'insegnamento e della comunicazione culturale. La complessità
della cultura esclude l'autosufficienza dell'individuo. Se si può dire che
ogni individuo ha una cultura, non lo si può dire nel senso che se l'è costruita
da sé. Soggetto di una cultura è un gruppo, anzi un gruppo dilatato nel tempo
della storia: l'individuo ne partecipa in quanto membro del gruppo. In
questo senso l'apprendimento, come cambiamento delle strutture di relazione
di un soggetto con l'ambiente, è attribuibile non solo ad un individuo ma
anche ad un gruppo. E
ciò non vale solo per le conoscenze, ma per qualsiasi struttura di comportamento,
come l'organizzazione, i riti, i
rapporti economici, le leggi ecc. Ancora una volta la differenza tra soggetto
individuale e soggetto collettivo sta nei livelli di pertinenza e quindi di
descrizione. L'INTERAZIONE
COME LUOGO DI APPRENDIMENTO Tornando al rapporto individuo-gruppo
nel contesto dell'apprendimento, il riferimento più significativo è alle
ricerche di Lev Vigotskij
"la psicologia individuale è un
aggregato di relazioni sociali interiorizzate, il che vuol dire che la
dimensione sociale è primaria nel tempo" sia a livello di evoluzione
della specie che di sviluppo del singolo organismo. "La priorità dei processi sociali su quelli individuali, intesa
come l'emergere delle funzioni psicologiche del bambino nelle interazioni con
gli adulti e con i coetanei più competenti, si manifesta nel ruolo della
'zona di sviluppo prossimo', definita come quell'area di funzionamento
psicologico che è possibile al soggetto se è sostenuto dall'aiuto di un
altro, e quindi da una forma di interazione e di regolazione, che sostiene e
attiva quelle funzioni che non operano ancora da sole…" [4]. A partire da qui, in particolare il
gruppo dell'Università di Roma che fa riferimento a Clotilde Pontecorvo ha
sviluppato ricerche sull'apprendimento in gruppo. Di questi lavori voglio qui
riprendere alcuni elementi particolarmente significativi. Innanzitutto c'è l'assunzione, in una
prospettiva educativa, della scuola come contesto sociale "naturale",
nel senso che "può ormai
considerarsi connaturato alle pratiche generalizzate di socializzazione di
una cultura basata sulla scrittura e sulla sua trasmissione […] anche se questa
caratterizzazione sociale è per lo più scarsamente utilizzata ai fini dell'apprendimento,
in quanto si assume che l'ideale situazione educativa sia quella della
relazione diadica […] di tipo tutoriale con l'adulto." Si considera dunque che "lo sviluppo cognitivo, così come la
costruzione di conoscenza, è sempre sostenuto e mediato da strumenti
culturali, da artefatti cognitivi, da media, cioè da mezzi di espressione e di comunicazione attraverso cui si
sviluppa il soggetto […] Si tratta innanzitutto di sistemi di segni e di
sistemi simbolici, di cui il più rilevante è il linguaggio orale, ma a cui, attraverso
la socializzazione scolastica, si aggiunge il ruolo degli 'strumenti' offerti
dalla cultura con le loro particolari caratteristiche e richieste […]" Pertanto "la caratteristica peculiare delle interazioni verbali a scuola dovrebbe essere costituita dal riferirsi ad un
'oggetto di conoscenza' e dal porsi come scopo essenziale quello di 'costruire'
modalità di discorso e di analisi sempre più adeguate alla specificità degli
oggetti del conoscere. Per converso, la struttura usuale delle conversazioni
in classe - con la sua tipica sequenza di domanda dell'insegnante, risposta
dell'allievo, commento dell'insegnante - risponde soprattutto allo scopo di valutare l'allievo verificando le conoscenze che
egli possiede […]" L'interesse per la discussione, il
confronto di opinioni, la produzione di argomentazioni, nasce dal riconoscere
la conversazione come sede per la costruzione dei significati, di una conoscenza
socialmente condivisa: la comunicazione ha un ruolo centrale nella "negoziazione discorsiva quotidiana
che riguarda anche i modi di pensare e di ricordare". Dal momento che "le condizioni organizzative, le proposte curriculari, le
richieste cognitive che si rivolgono agli alunni sono collegate a una nozione
di apprendimento come attività dei
soggetti impegnati insieme nella costruzione delle proprie conoscenze", la proposta della conversazione e
della discussione come pratica didattica si inserisce nella tradizione della
educazione attiva e della cooperazione educativa. Una tale pratica poggia le
proprie prospettive di apprendimento, cioè di cambiamento, sul funzionamento
di processi interattivi, tra loro correlati, di imitazione, di interiorizzazione, di conflitto
cognitivo. Ma questa interazione cognitiva
richiede la cura di condizioni specifiche preliminari: la partecipazione ad
un'esperienza comune, una rielaborazione dell'esperienza compiuta "che si strutturi come situazione di problem solving collettivo, in cui sia possibile
negoziare significati, condividere e confrontare differenti soluzioni o
interpretazioni", un cambiamento delle regole di partecipazione
rispetto alla consuetudine scolastica. Allora "il contesto sociale induce una facilitazione del pensiero sul
piano socio-emotivo, in funzione della reciproca familiarità all'interno del
gruppo e della non difensività dei suoi componenti.
Ciascuno può 'utilizzare' ciò che dice l'altro e si suddivide la fatica o il
carico emotivo del pensare attraverso una condivisione del pensiero: ciascuno
può pensare e dire anche solo un pezzo del discorso, che può essere utilizzato
per la costruzione di un altro ed essergli poi ridato nell'enunciato altrui
in una forma più elaborata, più trattabile e nuovamente riutilizzabile in un
secondo momento a un livello di maggiore complessità." Questo processo collettivo è
sostenuto dall'articolarsi della partecipazione dei singoli secondo stili,
modalità, ruoli discorsivi individuali, diversi e complementari. Si realizza
così nella relazione una co-costruzione del ragionamento "attraverso il contributo di più interlocutori: in altri
termini ha luogo un 'pensare insieme' che non corrisponde esattamente al
pensare di qualcuno e che ancora non si ritrova in quello." COOPERAZIONE
E CONFLITTO C'è una fondamentale connessione tra
pensare e argomentare che "si manifesta con più evidenza e in
forma più esplicita nel dialogo, nella conversazione, nella discussione, cioè
nelle forme sociali del discorso
[…] la forma dell'argomentare è naturalmente e innanzitutto presente quando
c'è il sostegno esterno e sostanziale che al pensare viene dalla presenza di
un altro parlante e pensante […]" Ma "il livello cognitivo complesso della spiegazione (quindi della ricerca ed esplicitazione
di una causa o di una ragione o di una regola) è presente in particolare
all'interno del contesto pragmatico della giustificazione, che ha luogo tipicamente quando si
riceve un'obiezione o si anticipa una possibile obiezione dell'altro." E
questo perché "bambini di 3-4 anni hanno ormai imparato
ad aspettarsi che una giustificazione è una strategia efficace per affrontare
e risolvere un conflitto." Cooperazione e conflitto dunque non
sono polarità opposte ma aspetti di una interazione socio-cognitiva
complessa: "La presenza di
un'opposizione, la richiesta da parte dell'interlocutore di dare ragione di
quello che si dice, esplicitando meglio i fondamenti (o le premesse) delle proprie
asserzioni, ha una funzione di sostegno del discorso e del pensiero. In altri
termini, l'opposizione svolge un ruolo di 'cooperazione cognitiva', di
'supporto sociale' (Bruner) importante tanto quanto
quello svolto dalle forme di co-costruzione" In tutto questo all'educatore spetta
il ruolo fondamentale di presidio di quell' "area di sviluppo prossimo"
"dove insegnanti e allievi si 'appropriano'
delle reciproche operazioni e interpretazioni, con una conseguente negoziazione
sociale dei significati e condivisione degli scopi. In tale 'zona'
l'interiorizzazione si manifesta come processo costruttivo, in cui nuove e
più potenti strutture sono costruite a livello interpsicologico (nello
scambio sociale) e, interagendo con quelle presenti a livello intrapsicologico, producono un cambiamento nel piano
interiore individuale". L'educatore è responsabile di quelle essenziali
attività di mediazione che "rendono
esplicita e consapevole l'azione cognitiva del bambino, mettendogli a
disposizione una coscienza e un controllo, che gli vengono progressivamente
'consegnati', o, se si preferisce, di cui lui si impadronisce a poco a poco." Attività che, per rendere possibile
la cooperazione cognitiva, attraverso la co-costruzione
e il conflitto, richiedono tecniche, strumenti, comportamenti consapevoli,
che danno corpo a quel fondamentale atteggiamento di "ascolto" in
cui tante volte abbiamo collocato la a-simmetria della relazione e la responsabilità
educativa. L'ascolto non è quindi soltanto
disponibilità affettiva alla relazione ma anche mediazione cognitiva, non è
soltanto capacità di sostenere percorsi cognitivi individuali, ma anche di
riconoscere tratti culturali che rendono i bambini simili tra loro e diversi
dagli adulti, forse perché più vicini ad un substrato biologico, a quel
"linguaggio della Creatura", cui si riferisce Gregory Bateson, che ci riporta alla connessione col resto del
mondo vivente più di quanto non ce ne distanzi la nostra arroganza. In conclusione
il gruppo dei pari con la mediazione e la cura dell'adulto può svolgere un ruolo
fondamentale nell'apprendimento; ma vorrei leggere questo ruolo non solo in
termini di attenuazione delle difficoltà, delle sofferenze, che il
cambiamento cognitivo sempre porta con sé. Ci penso quando guardo il
divertimento, la soddisfazione, l'investimento di energie positive, di
bambini piccoli che imparano spontaneamente, giocando, anche da soli, a
leggere, a scrivere, a far di conto, e anche la geografia o la fisica. Mi
capita anche di guardare insegnanti che riproducono questa situazione nel gruppo
scolastico e mi dico che quello che stanno giocando nell'interazione è un
elemento chiave nell'educazione: il piacere
dell'apprendimento. età E DIFFERENZE Vorrei accennare qui un ultimo
discorso rispetto alle dinamiche individuo-gruppo nell'apprendimento e in
particolare nel contesto scolastico. Abbiamo in questi anni molto lavorato attorno
al tema della "continuità" tra un livello di scuola e l'altro e
forse abbiamo perso di vista la ragione costitutiva di una differenziazione
longitudinale, e cioè che età della crescita caratterizzate da bisogni
cognitivi e strutture di relazione diversi pongono compiti di sviluppo
diversi. Queste differenze, collocate sullo sfondo specifico di un contesto
educativo, giocano anche e soprattutto nella dimensione della relazione con
il gruppo e con l'adulto che lo guida. Lo sviluppo evolutivo comporta una
diversa collocazione sull'asse dipendenza-autonomia nei confronti
dell'adulto, ma non in senso banalmente lineare: da una autonomia sul piano cognitivo
dei bambini più piccoli, che sembrano farsi guidare più dal piacere di
apprendere e da proprie modalità di soddisfarlo, ad una dinamica che utilizza
l'apprendimento dentro una modalità di relazione su cui molto gioca il piacere
di far piacere all'adulto-insegnante, all'opposizione dell'adolescente che si
misura nella ricerca di identità nella contraddizione tra bisogno di autonomia
e di riconoscimento. Anche la relazione tra il ruolo del
gruppo dei pari e il contesto di apprendimento cambia dall'infanzia
all'adolescenza: da una situazione in cui sembra prevalere una centratura sull'oggetto
dell'attività del gruppo, da cui dipende lo stesso stare bene nel gruppo, ad
una inversione del rapporto tra le due variabili per cui l'appartenenza e la
condivisione diventano decisive nella percezione e nell'investimento sul
compito cognitivo, al manifestarsi di interessi "intellettuali" che
sembrano destinati a compensare o equilibrare le difficoltà che nascono da un
rapporto difficile con i cambiamenti del proprio corpo e della propria
identità, ad un crescere dell'importanza data all'utilità sociale del proprio
apprendimento. Ciò che comunque mi sembra
attraversare tutti i cambiamenti evolutivi qui accennati è l'importanza
fondamentale di una non separazione tra soggettività psicologica e
oggettività del sapere: il lavoro educativo ancora una volta si configura come
cura della relazione tra soggetto e oggetto della conoscenza. |
[1] Si veda: I. Salomone, Il setting pedagogico, La Nuova Italia Scientifica, 1997, cap. 1
[2] Edgar Morin, La conoscenza della conoscenza, Feltrinelli 1989
[3] Ibidem.
[4] Questa citazione e tutte le seguenti
sono tratte da: C. Pontecorvo A.M. Ajello C. Zucchermaglio, Discutendo s'impara, La Nuova Italia
Scientifica 1991, Carocci 1998