Marcello Sala

APPRENDIMENTO DI GRUPPO  APPRENDIMENTO IN GRUPPO

relazione introduttiva

alle Scuole Estive di Formazione per educatori ed educatrici del MCE

agosto 1998, Montecatini:  “Individuo e gruppo nei processi di conoscenza”

 

 

UNA PREMESSA EPISTEMOLOGICA

Prima di entrare nel merito di alcune riflessioni sul rapporto tra gruppo e individuo dal punto di vista dell'apprendimento, sento la necessità, per avere un terreno più solido su cui poggiare i piedi, di eliminare un equivoco, così grosso che spesso risulta difficile da percepire.

Pensare, all'interno di un qualsiasi livello di analisi o di azione, individuo e gruppo come due termini disgiunti di una relazione, o addirittura due entità che si possono contrapporre, è una scelta di carattere epistemologico che condiziona qualsiasi discorso ulteriore. L'equivoco consiste nel fatto che il gruppo di cui si parla comprende l'individuo di cui si parla: il gruppo non è un'alterità rispetto all'individuo. L'individuo è parte del gruppo, e, in un altro senso, il gruppo è parte dell'individuo, in quanto componente fondamentale della sua identità in termini di appartenenza, di cultura interiorizzata. Che lo voglia o no, che lo riconosca o no, ciascuno/a di noi appartiene a molti gruppi e molti gruppi gli/le appartengono, con tutto ciò che questo comporta. Pensare individuo e gruppo come entità disgiunte significa non riconoscere la circolarità dei molteplici rapporti organici "essenziali" che li legano.

Questo errore ha un'altra faccia, del tutto complementare, che consiste nel non riconoscere la differenza di livello organizzativo tra individuo e gruppo.

Le cellule sono le componenti fondamentali del nostro corpo; ad un certo livello di descrizione esse sono sistemi autonomi dotati di una organizzazione interna, ma questo livello di descrizione non ci rende ragione del funzionamento di un organo come il rene anche se il rene è fatto di cellule: la fisiologia o la patologia del rene dipendono dalle differenze e dalle relazioni tra le cellule che lo compongono, in una parola dalla loro organizzazione. Per rendere ragione del comportamento emotivo o cognitivo di un individuo non ci serve il livello di descrizione pertinente per il rene e per ciascuno degli altri organi, anche se il comportamento emotivo o cognitivo dipende anche dal funzionamento dei reni e di tutti gli altri organi del corpo.

Allo stesso modo fenomeni sociali come l'economia, la cultura, la Storia, le leggi, le istituzioni, il linguaggio ecc., concorrono a determinare la qualità della vita, il vissuto, il comportamento di ogni individuo, così come ogni individuo, con la sua biografia e le sue scelte concorre a determinare quei fenomeni sociali. Tuttavia il fatto che esistano relazioni e determinazioni reciproche che si sviluppano in modo circolare non significa che l'economia, la cultura, la Storia, le leggi, l'organizzazione sociale ecc., siano descrivibili a partire dalla psicologia dell'individuo, e viceversa. Ogni sistema è un sottosistema e ad ogni livello di organizzazione corrisponde un livello di pertinenza delle descrizioni che ne facciamo.

Un gruppo dunque non esiste e non vive se non a partire dall'esistenza e dalla vita dei suoi membri. Ma le relazioni tra gli elementi che costituiscono il gruppo fanno emergere fenomeni propri del livello di gruppo che non sono presenti a livello dell'individuo, né sono la somma dei fenomeni individuali. Ecco perché è un errore epistemologico carico di conseguenze non riconoscere che per questi due differenti livelli di organizzazione della realtà sono diversi i metodi di indagine, le categorie di interpretazione.

Contrapporre l'individuo al gruppo in termini di soggettività contrapposta all'oggettività mi appare come una conseguenza di questi errori epistemologici di fondo: significa ignorare come il discorso della soggettività si riproduca a livello di soggetti collettivi in termini di relatività culturale (su basi di genere, etniche, di classe… o di tifo calcistico). La differenza, o il conflitto, che sono tanto significativi nella sfera delle relazioni tra individui, non lo sono certo di meno nella sfera delle relazioni tra gruppi, anche se le forme di organizzazione richiedono descrizioni di livello diverso.

Anche il polarizzare individuo-gruppo su un asse di valore mi appare come causa e/o conseguenza di atteggiamenti estremi: da una parte la fuga dal coinvolgimento in una relazione individuale, dall'incontro-scontro "corporeo" con una soggettività; dall'altra, simmetricamente, la fuga dall'assumersi la responsabilità di un livello di relazioni in cui più soggettività entrano in competizione. Valorizzare la soggettività individuale, nel senso di prendersene cura, è evitare che il vissuto vitale dell'individuo sia sacrificato alle forme astratte della legge e dell'organizzazione, ma valorizzare la dimensione del gruppo nella sua specificità sovraindividuale è farsi carico delle relazioni tra soggettività, evitando, con forme di "patto sociale", che l'inevitabile conflitto tra più soggettività sia in balia di puri rapporti di forza.

Pensare l'individuo e il gruppo come due istanze disgiunte e contrapposte significa perdere il senso della copresenza di questi livelli nella stessa realtà educativa in cui viviamo, e quindi della necessità di una complementarietà nel prendersene cura. Può anche essere che ciò comporti modalità affettive e cognitive, codici comportamentali troppo diversi (maschili e femminili forse) per essere ricondotti entro un'unica soggettività. C'è bisogno allora di un soggetto educativo collettivo (la famiglia, il team, il gruppo) in cui di nuovo la complementarietà sia il senso della relazione tra diversità.

IL GRUPPO COME…

Nell'ambito educativo, cioè in una realtà in cui intenzionalmente si promuovono cambiamenti, la dinamica individuo-gruppo può essere osservata da punti di vista diversi, organicamente connessi, ma anche descrivibili con una loro specificità. Alcuni li citerò soltanto, non perché poco importanti, ma perché oggetto di altri interventi.

Un primo punto di vista è quello che in termini educativi definirei come cura della "socializzazione", in tutti i significati che al termine "società" si vuole dare (le varie articolazioni gruppali dentro la scuola le posso assumere come realtà sociali e contemporaneamente come metafore di realtà sociali più vaste). In questa direzione va il discorso sulle dinamiche psicologiche e relazionali nel gruppo, e quindi sulle condizioni alle quali un gruppo può diventare un "buon" gruppo. Mi limito qui a sottolineare l'opportunità di diversificare la situazione di un gruppo marcato dall'appartenenza (a partire dal genere o dal gruppo etnico d'origine fino al gruppo di amici) a quella in cui è costitutiva del gruppo l'assunzione di un compito comune (gruppo di lavoro). Anche se una condizione non esclude l'altra, fare con-fusione nella rappresentazione là dove c'è una differenza non giova alla costruzione di un "buon" gruppo: per gli esseri umani la rappresentazione condiziona l'esperienza tanto quanto l'esperienza condiziona la rappresentazione: non può esistere gruppo di lavoro, o gruppo di apprendimento come è una classe di scuola, se i suoi membri non se lo rappresentano come tale

La centratura sul compito mi porta ad un secondo punto di vista: il gruppo come contesto di apprendimento. Possiamo essere d'accordo che non si dà esperienza, quindi cambiamento, quindi apprendimento, senza un soggetto che la viva: nessuno può sostituirsi all'individuo/a come soggetto di esperienza. Ma mi sembra altrettanto sensato assumere che nessuna esperienza si dà al di fuori del contesto di un gruppo, fisicamente presente come insieme di individui in relazione, o interiorizzato come cultura, quindi come sfondo, schema, linguaggio, preesistenti (e modificabili naturalmente):  su di essi vengono proiettate e dai essi vengono interpretate le sensazioni, le percezioni, le emozioni, a partire da essi vengono elaborate le azioni, i sentimenti, i pensieri.

Il gruppo dunque come contesto ineludibile dell'esperienza, in cui si gioca il continuum dell'apprendimento come co-evoluzione tra individuo e ambiente. All'interno di questo sfondo si colloca il punto di vista più strettamente educativo del gruppo come contesto di apprendimento, nel senso di condizione favorevole od ostacolante un buon apprendimento intenzionalmente promosso. E qui mi piacerebbe provare anche a rovesciare la prospettiva aprendo la domanda: quanto l'apprendimento, un buon apprendimento, è una condizione che favorisce la costruzione di un buon gruppo? Sia nel senso più generale che una conoscenza, o meglio l'esercizio di una capacità meta-cognitiva, relativa al gruppo, alle relazioni nel gruppo, potrebbe favorire i processi di socializzazione, sia nel senso più specifico che in un gruppo centrato su un compito di apprendimento la realizzazione del compito costituisce un fattore evolutivo.

Sembra banale, ma, all'interno di un ambiente educativo come il nostro che ha sempre valorizzato la componente relazionale, e in generale all'interno di un clima scolastico che per necessità ha oggi ri-centrato la propria attenzione e molte risorse sui problemi psicologici, affettivi, relazionali, non mi sembra inutile riaffermare il pericolo della separazione tra la sfera cognitiva e quella affettiva. Come una scuola che non curi la relazione educativa è destinata a fallire sul piano dell'apprendimento, così una scuola dove non si costruiscano saperi semplicemente non è una scuola, vale a dire perde il suo senso, rispetto alla società ma anche all'individuo che ad essa si affida per costruire, attraverso la cultura, la propria identità.

l'INSEGNAMENTO COME RISORSA evolutivA

L'uomo si distingue dagli animali non tanto perché impara o perché impara ad imparare, ma perché, grazie soprattutto alla rappresentazione simbolica, può conservare i processi e i prodotti dell'apprendimento, propri e degli altri. Ma ciò non sarebbe sufficiente a costruire una cultura ed una storia, perché tali apprendimenti non si fissano nel codice genetico e quindi non costituirebbero la base per una evoluzione: ogni generazione si dovrebbe reinventare tutto. La risorsa adattativa decisiva è dunque allora la capacità di insegnare ciò che si va imparando[1].

Questo ci riporta anche ad un ancoraggio biologico del gruppo come soggetto cognitivo. In questo mi rifaccio qui ad un modo di considerare la conoscenza proiettato non su uno sfondo cartesiano di separazione tra materia e mente ma su uno sfondo di continuità biologica ("... occorre concepire la realtà vivente non come sostanza ma come organizzazione. Possiamo quindi concepire che il cervello e lo spirito abbiano in comune qualcosa che è sia materiale sia transmateriale: l'organizzazione." [2]).I bisogni della sopravvivenza, a partire da quello di garantire l'integrità dell'essere dal degrado e dalle lesioni attraverso una continua reintegrazione e rigenerazione, passando dal cibo e dalla difesa, richiedono la capacità di trarre dall'ambiente informazioni in funzione delle quali determinare il comportamento (riconoscere forme e sostanze assimilabili o non assimilabili, fonti di benessere o di pericolo, riconoscere certe ripetizioni/regolarità/costanze, individuare eventi e perturbazioni). In un organismo primitivo, come il batterio, i tre aspetti dell'essere, del conoscere e dell'agire intenzionale, sono indifferenziati nel medesimo atto; ma anche quando nella scala evolutiva l'organismo "si differenzierà e si autonomizzerà, la conoscenza rimarrà inseparabile dall'organizzazione, dall'azione, dall'essere." [3].

Se il gruppo, nel senso della popolazione, è l'unità di sopravvivenza biologica in quanto l'evoluzione ha per soggetto una popolazione e non un singolo organismo, nel caso dell'uomo lo è perché la via evolutiva percorsa dalla specie umana per la propria sopravvivenza non è quella dell'apprendimento individuale, ma quella della trasmissione degli apprendimenti che implica una relazione sovraindividuale. Anche per sopravvivere individualmente nell'isola selvaggia Robinson Crusoe usa strumenti costruiti nel suo gruppo sociale o conoscenze relative alla fabbricazione di strumenti e a procedure, o, se scopre o inventa qualcosa, usa comunque facoltà metacognitive frutto dell'insegnamento e della comunicazione culturale. La complessità della cultura esclude l'autosufficienza dell'individuo. Se si può dire che ogni individuo ha una cultura, non lo si può dire nel senso che se l'è costruita da sé. Soggetto di una cultura è un gruppo, anzi un gruppo dilatato nel tempo della storia: l'individuo ne partecipa in quanto membro del gruppo.

In questo senso l'apprendimento, come cambiamento delle strutture di relazione di un soggetto con l'ambiente, è attribuibile non solo ad un individuo ma anche ad un gruppo. E ciò non vale solo per le conoscenze, ma per qualsiasi struttura di comportamento, come l'organizzazione, i riti,  i rapporti economici, le leggi ecc. Ancora una volta la differenza tra soggetto individuale e soggetto collettivo sta nei livelli di pertinenza e quindi di descrizione.

L'INTERAZIONE COME LUOGO DI APPRENDIMENTO

Tornando al rapporto individuo-gruppo nel contesto dell'apprendimento, il riferimento più significativo è alle ricerche di Lev Vigotskij "la psicologia individuale è un aggregato di relazioni sociali interiorizzate, il che vuol dire che la dimensione sociale è primaria nel tempo" sia a livello di evoluzione della specie che di sviluppo del singolo organismo. "La priorità dei processi sociali su quelli individuali, intesa come l'emergere delle funzioni psicologiche del bambino nelle interazioni con gli adulti e con i coetanei più competenti, si manifesta nel ruolo della 'zona di sviluppo prossimo', definita come quell'area di funzionamento psicologico che è possibile al soggetto se è sostenuto dall'aiuto di un altro, e quindi da una forma di interazione e di regolazione, che sostiene e attiva quelle funzioni che non operano ancora da sole…" [4].

A partire da qui, in particolare il gruppo dell'Università di Roma che fa riferimento a Clotilde Pontecorvo ha sviluppato ricerche sull'apprendimento in gruppo. Di questi lavori voglio qui riprendere alcuni elementi particolarmente significativi.

Innanzitutto c'è l'assunzione, in una prospettiva educativa, della scuola come contesto sociale "naturale", nel senso che "può ormai considerarsi connaturato alle pratiche generalizzate di socializzazione di una cultura basata sulla scrittura e sulla sua trasmissione […] anche se questa caratterizzazione sociale è per lo più scarsamente utilizzata ai fini dell'apprendimento, in quanto si assume che l'ideale situazione educativa sia quella della relazione diadica […] di tipo tutoriale con l'adulto."

Si considera dunque che "lo sviluppo cognitivo, così come la costruzione di conoscenza, è sempre sostenuto e mediato da strumenti culturali, da artefatti cognitivi, da media, cioè da mezzi di espressione e di comunicazione attraverso cui si sviluppa il soggetto […] Si tratta innanzitutto di sistemi di segni e di sistemi simbolici, di cui il più rilevante è il linguaggio orale, ma a cui, attraverso la socializzazione scolastica, si aggiunge il ruolo degli 'strumenti' offerti dalla cultura con le loro particolari caratteristiche e richieste […]"

Pertanto "la caratteristica peculiare delle interazioni verbali a scuola dovrebbe essere costituita dal riferirsi ad un 'oggetto di conoscenza' e dal porsi come scopo essenziale quello di 'costruire' modalità di discorso e di analisi sempre più adeguate alla specificità degli oggetti del conoscere. Per converso, la struttura usuale delle conversazioni in classe - con la sua tipica sequenza di domanda dell'insegnante, risposta dell'allievo, commento dell'insegnante - risponde soprattutto allo scopo di valutare l'allievo verificando le conoscenze che egli possiede […]"

L'interesse per la discussione, il confronto di opinioni, la produzione di argomentazioni, nasce dal riconoscere la conversazione come sede per la costruzione dei significati, di una conoscenza socialmente condivisa: la comunicazione ha un ruolo centrale nella "negoziazione discorsiva quotidiana che riguarda anche i modi di pensare e di ricordare".

Dal momento che "le condizioni organizzative, le proposte curriculari, le richieste cognitive che si rivolgono agli alunni sono collegate a una nozione di apprendimento come attività dei soggetti impegnati insieme nella costruzione delle proprie conoscenze", la proposta della conversazione e della discussione come pratica didattica si inserisce nella tradizione della educazione attiva e della cooperazione educativa. Una tale pratica poggia le proprie prospettive di apprendimento, cioè di cambiamento, sul funzionamento di processi interattivi, tra loro correlati, di imitazione, di interiorizzazione,  di conflitto cognitivo.

Ma questa interazione cognitiva richiede la cura di condizioni specifiche preliminari: la partecipazione ad un'esperienza comune, una rielaborazione dell'esperienza compiuta "che si strutturi come situazione di problem solving collettivo, in cui sia possibile negoziare significati, condividere e confrontare differenti soluzioni o interpretazioni", un cambiamento delle regole di partecipazione rispetto alla consuetudine scolastica. Allora "il contesto sociale induce una facilitazione del pensiero sul piano socio-emotivo, in funzione della reciproca familiarità all'interno del gruppo e della non difensività dei suoi componenti. Ciascuno può 'utilizzare' ciò che dice l'altro e si suddivide la fatica o il carico emotivo del pensare attraverso una condivisione del pensiero: ciascuno può pensare e dire anche solo un pezzo del discorso, che può essere utilizzato per la costruzione di un altro ed essergli poi ridato nell'enunciato altrui in una forma più elaborata, più trattabile e nuovamente riutilizzabile in un secondo momento a un livello di maggiore complessità."

Questo processo collettivo è sostenuto dall'articolarsi della partecipazione dei singoli secondo stili, modalità, ruoli discorsivi individuali, diversi e complementari. Si realizza così nella relazione una co-costruzione del ragionamento "attraverso il contributo di più interlocutori: in altri termini ha luogo un 'pensare insieme' che non corrisponde esattamente al pensare di qualcuno e che ancora non si ritrova in quello."

COOPERAZIONE E CONFLITTO

C'è una fondamentale connessione tra pensare e argomentare che "si manifesta con più evidenza e in forma più esplicita nel dialogo, nella conversazione, nella discussione, cioè nelle forme sociali del discorso […] la forma dell'argomentare è naturalmente e innanzitutto presente quando c'è il sostegno esterno e sostanziale che al pensare viene dalla presenza di un altro parlante e pensante […]"

Ma "il livello cognitivo complesso della spiegazione (quindi della ricerca ed esplicitazione di una causa o di una ragione o di una regola) è presente in particolare all'interno del contesto pragmatico della giustificazione, che ha luogo tipicamente quando si riceve un'obiezione o si anticipa una possibile obiezione dell'altro." E questo perché "bambini di 3-4 anni hanno ormai imparato ad aspettarsi che una giustificazione è una strategia efficace per affrontare e risolvere un conflitto."

Cooperazione e conflitto dunque non sono polarità opposte ma aspetti di una interazione socio-cognitiva complessa: "La presenza di un'opposizione, la richiesta da parte dell'interlocutore di dare ragione di quello che si dice, esplicitando meglio i fondamenti (o le premesse) delle proprie asserzioni, ha una funzione di sostegno del discorso e del pensiero. In altri termini, l'opposizione svolge un ruolo di 'cooperazione cognitiva', di 'supporto sociale' (Bruner) importante tanto quanto quello svolto dalle forme di co-costruzione"

In tutto questo all'educatore spetta il ruolo fondamentale di presidio di quell' "area di sviluppo prossimo" "dove insegnanti e allievi si 'appropriano' delle reciproche operazioni e interpretazioni, con una conseguente negoziazione sociale dei significati e condivisione degli scopi. In tale 'zona' l'interiorizzazione si manifesta come processo costruttivo, in cui nuove e più potenti strutture sono costruite a livello interpsicologico (nello scambio sociale) e, interagendo con quelle presenti a livello intrapsicologico, producono un cambiamento nel piano interiore individuale". L'educatore è responsabile di quelle essenziali attività di mediazione che "rendono esplicita e consapevole l'azione cognitiva del bambino, mettendogli a disposizione una coscienza e un controllo, che gli vengono progressivamente 'consegnati', o, se si preferisce, di cui lui si impadronisce a poco a poco."

Attività che, per rendere possibile la cooperazione cognitiva, attraverso la co-costruzione e il conflitto, richiedono tecniche, strumenti, comportamenti consapevoli, che danno corpo a quel fondamentale atteggiamento di "ascolto" in cui tante volte abbiamo collocato la a-simmetria della relazione e la responsabilità educativa.

L'ascolto non è quindi soltanto disponibilità affettiva alla relazione ma anche mediazione cognitiva, non è soltanto capacità di sostenere percorsi cognitivi individuali, ma anche di riconoscere tratti culturali che rendono i bambini simili tra loro e diversi dagli adulti, forse perché più vicini ad un substrato biologico, a quel "linguaggio della Creatura", cui si riferisce Gregory Bateson, che ci riporta alla connessione col resto del mondo vivente più di quanto non ce ne distanzi la nostra arroganza.

In conclusione il gruppo dei pari con la mediazione e la cura dell'adulto può svolgere un ruolo fondamentale nell'apprendimento; ma vorrei leggere questo ruolo non solo in termini di attenuazione delle difficoltà, delle sofferenze, che il cambiamento cognitivo sempre porta con sé. Ci penso quando guardo il divertimento, la soddisfazione, l'investimento di energie positive, di bambini piccoli che imparano spontaneamente, giocando, anche da soli, a leggere, a scrivere, a far di conto, e anche la geografia o la fisica. Mi capita anche di guardare insegnanti che riproducono questa situazione nel gruppo scolastico e mi dico che quello che stanno giocando nell'interazione è un elemento chiave nell'educazione: il piacere dell'apprendimento.

età E DIFFERENZE

Vorrei accennare qui un ultimo discorso rispetto alle dinamiche individuo-gruppo nell'apprendimento e in particolare nel contesto scolastico. Abbiamo in questi anni molto lavorato attorno al tema della "continuità" tra un livello di scuola e l'altro e forse abbiamo perso di vista la ragione costitutiva di una differenziazione longitudinale, e cioè che età della crescita caratterizzate da bisogni cognitivi e strutture di relazione diversi pongono compiti di sviluppo diversi. Queste differenze, collocate sullo sfondo specifico di un contesto educativo, giocano anche e soprattutto nella dimensione della relazione con il gruppo e con l'adulto che lo guida.

Lo sviluppo evolutivo comporta una diversa collocazione sull'asse dipendenza-autonomia nei confronti dell'adulto, ma non in senso banalmente lineare: da una autonomia sul piano cognitivo dei bambini più piccoli, che sembrano farsi guidare più dal piacere di apprendere e da proprie modalità di soddisfarlo, ad una dinamica che utilizza l'apprendimento dentro una modalità di relazione su cui molto gioca il piacere di far piacere all'adulto-insegnante, all'opposizione dell'adolescente che si misura nella ricerca di identità nella contraddizione tra bisogno di autonomia e di riconoscimento.

Anche la relazione tra il ruolo del gruppo dei pari e il contesto di apprendimento cambia dall'infanzia all'adolescenza: da una situazione in cui sembra prevalere una centratura sull'oggetto dell'attività del gruppo, da cui dipende lo stesso stare bene nel gruppo, ad una inversione del rapporto tra le due variabili per cui l'appartenenza e la condivisione diventano decisive nella percezione e nell'investimento sul compito cognitivo, al manifestarsi di interessi "intellettuali" che sembrano destinati a compensare o equilibrare le difficoltà che nascono da un rapporto difficile con i cambiamenti del proprio corpo e della propria identità, ad un crescere dell'importanza data all'utilità sociale del proprio apprendimento.

Ciò che comunque mi sembra attraversare tutti i cambiamenti evolutivi qui accennati è l'importanza fondamentale di una non separazione tra soggettività psicologica e oggettività del sapere: il lavoro educativo ancora una volta si configura come cura della relazione tra soggetto e oggetto della conoscenza.

 

 



[1]  Si veda: I. Salomone, Il setting pedagogico, La Nuova Italia Scientifica, 1997, cap. 1

[2]  Edgar Morin, La conoscenza della conoscenza, Feltrinelli 1989

[3]  Ibidem.

[4]  Questa citazione e tutte le seguenti sono tratte da: C. Pontecorvo  A.M. Ajello  C. Zucchermaglio, Discutendo s'impara, La Nuova Italia Scientifica 1991, Carocci 1998