Sommario – La “programmazione”
scolastica come narrazione della norma – il “gioco linguistico” della ricerca
– L’autopoiesi come strumento pedagogico
– Le conversazioni scientifiche dei bambini come esempio di autoorganizzazione dell’apprendimento - La strategia
dell’insegnante – L’ascolto e la narrazione come ricostruzione di senso. PAROLE CHIAVE –
apprendimento, autoorganizzazione, conversazione,
strategia, spiazzamento, conflitto cognitivo Scrivere una storia “realmente accaduta” è un bell’impiccio, con
quella faccenda della verità..., ma
scrivere una storia prima che accada
è un paradosso. A meno che non si tratti di una storia inventata; allora cambia
tutto: il contesto, il senso, il “gioco linguistico” (Wittgenstein, 1953) tra
lo scrittore e i lettori; entra in gioco l’immaginazione... Avendo fatto l’insegnante, conosco bene una scrittura di storie
prima che accadano: è un genere letterario chiamato “programmazione”. La scuola della programmazione assume il modello della “scatola nera”, l’idea cioè che i bambini siano meccanismi, il
cui funzionamento è noto agli psicologi, ma di cui ci si può non occupare,
perché ciò che importa è che, per avere output
voluti, è sufficiente fornire input
adeguati. Presupposto di questo modello è l’esistenza di leggi di corrispondenza
certa tra input e output e di un
luogo esterno da cui è possibile
osservare, controllare, dirigere. Per uscire dal paradosso dello scrivere una storia prima che
accada si può non farla sembrare una storia, abbandonando il registro
narrativo; ma sotto il linguaggio pseudo-scientifico si manifesta
l’intenzione narrativa e, dietro l’intenzione, il desiderio: programmare in
fondo è narrare come le cose dovrebbero
andare. Queste storie di programmazione sono storie didascaliche. Sono
noiose per il linguaggio ma, più a fondo, per la mancanza di un elemento
chiave della narrazione, in cui “l’azione
si sviluppa portando a una rottura, a una violazione delle aspettative legittime”
(Bruner, 1996, pag. 107). La programmazione racconta solo la norma, mentre a rompere le
aspettative è la storia di ciò che accade realmente nelle classi. Prosegue Bruner: “Quello che
viene dopo è il ripristino della legittimità iniziale...”; ma qui siamo
ormai in un’altra fase della narrazione scolastica: la valutazione. Tutti abbiamo desideri inconfessati (avere una classe perfetta,
che impara solo perché noi facciamo lezione), ma, quando il desiderio diventa
narrazione e la narrazione si maschera da documento operativo con tanto di
timbri istituzionali, finisce che la storia programmata diventa il paradigma
per la valutazione, e, ancora prima, il riferimento per lo stesso vissuto
dell’insegnante, che sarà condizionato dalla conformità delle reazioni dei
suoi studenti a ciò che ha programmato. E dunque, se la storia non va come dovrebbe
andare, il vissuto sarà negativo e sarà colpa
di qualcuno. Ma, se la programmazione porta inevitabilmente alla
frustrazione, dove sta il “vantaggio evolutivo” che ne ha permesso la
diffusione nella nostra cultura educativa? Sta, credo, nella riduzione
dell’incertezza, che però è una dinamica solo psicologica e solo
dell’insegnante, che la proietta sui bambini convincendosi che il problema
venga da loro: “I bambini hanno bisogno
di certezze” sento dire agli insegnanti in contesti di formazione in cui
loro stessi sono messi, per una volta, nei panni di chi apprende; ma io,
nelle conversazioni in cui l’insegnante non interviene nel merito
dell’argomento (ci tornerò), in cui si cercano soluzioni di problemi, mai ho
sentito un bambino chiedere all’insegnante “dicci tu la risposta”. Non l’ho
sentito perché quella richiesta è adeguata a un “gioco linguistico” diverso,
l’interrogazione, in cui la risposta certa esiste, è unica, e la conosce
l’insegnante, che ha fatto la domanda non per trovare la risposta, ma per
verificare se gli allievi l’hanno “studiata”. Nel “gioco linguistico” della ricerca, che nasce da domande “legittime”, che vengono fatte perché non si conoscono già
le risposte (von Foerster,1987, pag. 130),
la risposta non la sa chi ha fatto la domanda, non è unica, a volte non c’è: l’incertezza fa parte del gioco. Per
questo i bambini non si turbano, anzi sono a proprio agio. Anzi, se vogliamo
capire come mai ci sono persone che continuano a divertirsi giocando a briscola,
nonostante la briscola sia un gioco assolutamente chiuso, con un dominio di
azioni limitatissimo e immutabile, dobbiamo ammettere che proprio
nell’incertezza sull’andamento della
partita e sul suo esito sta il
bello del gioco, la sua essenza. Ma forse occorre ricominciare da un altro punto di partenza.
Tutta l’istituzione educativa poggia su una premessa, talmente sprofondata
dall’abitudine nell’inconscio culturale che ci dimentichiamo di pensarci,
nonostante sia di fondamentale importanza in qualsiasi discorso pedagogico o
didattico: i bambini imparano quello che viene loro insegnato. L’istituzione
educativa è organizzata a valle di questo principio, ma la premessa è palesemente
falsificata dall’esperienza comune: i bambini imparano cose importantissime e
difficilissime, come parlare una lingua a età precocissime, senza che nessuno
le insegni loro (intendendo con “insegnare” quello che normalmente si intende
con questo termine nella scuola). Ma qui mi interessa capire dove poggia quella premessa:
probabilmente sull’idea di un apprendimento come adattamento a un ambiente
esterno che funge da stampo su cui le forme si plasmano: è l’idea di form-azione, di in-segna-mento, appunto. Ma un’idea diversa è possibile. Negli anni ’80 due biologi cileni, per
rispondere alla domanda “cos’è un vivente?”, proposero la teoria dell’autopoiesi (Maturana – Varela, 1980). Caratteristica fondamentale del vivente è produrre se stesso
secondo un’identità (ciò per cui è ciò che è); mantenere l’identità è la
legge di sopravvivenza. Il cambiamento (apprendimento) può essere innescato ma non determinato dall’ambiente: gli stimoli provenienti
dall’ambiente perturbano il sistema vivente, provocando ristrutturazioni
della sua organizzazione; la forma di queste ristrutturazioni
dipende dall’identità del sistema. C’è accoppiamento strutturale tra organismo e ambiente se
c’è un dominio di interazioni, ovvero un campo di influenze reciproche
capaci di innescare ristrutturazioni. L’accoppiamento strutturale è la
base per una co-evoluzione. Ma la
distinzione tra organismo e ambiente è una operazione cognitiva dell'osservatore: il significato che l’osservatore
attribuisce a ciò che osserva fa parte del suo dominio cognitivo, non
di quello del sistema osservato. In questo senso il sistema comprende
l’osservatore. Queste idee sono diventate generative per il mio lavoro mentre
conducevo una ricerca su una ludoteca (Sala, 2007) in cui l’operatore aveva
come regola il non far giocare i
bambini, nel senso che non
proponeva né conduceva giochi, ma costruiva le condizioni perché i bambini
giocassero i loro. Nei giorni in cui cominciavo a interrogarmi sui significati di
ciò che osservavo, mi accorsi che l’autopoiesi forniva delle chiavi di lettura illuminanti per
comprendere la situazione; per usare il linguaggio di Gregory Bateson, forniva una “mappa” adeguata al “territorio”, un
linguaggio di descrizione coerente con il linguaggio della comunicazione interna
a quel sistema vivente 1. Da quel momento pensai che l’autopoiesi fosse un buon linguaggio per
parlare dell’autoorganizzazione dell’apprendimento, perché
sostiene ipotesi pedagogiche sulla relazione insegnamento-apprendimento. Se la perturbazione in sé innesca ma non determina
il cambiamento, allora, nel
contesto educativo, il contenuto dell'apprendimento non sta
nell'insegnamento, ma nell'esito del processo di ristrutturazione
dell'identità cognitiva del soggetto: la forma del processo dipende dalla
identità (storia) del soggetto. Se l’accoppiamento strutturale è la possibilità di essere reciprocamente fonte di perturbazioni
che innescano cambiamenti,
allora, nel contesto
educativo, l'insegnante e i suoi allievi sono fonti di perturbazioni
reciproche che provocano quelle ristrutturazioni che chiamiamo apprendimenti
(la relazione non è simmetrica: l’insegnante è responsabile delle
condizioni di questo processo). Se la forma del cambiamento appare nella descrizione di un osservatore
che fa parte del sistema, allora, nel contesto educativo, l’osservatore
interno è l’educatore che modifica “strategicamente” il proprio intervento
in base alle forme, ai significati che ricava dall'osservazione. Questa “mappa pedagogica” ho provato
ad applicarla alle “conversazioni scientifiche autoorganizzate” in ambito scolastico. Il termine “autoorganizzata” si
riferisce al fatto che la forma che prende la conversazione non è determinata
da una intenzione, da una direzione impressa dall’esterno, ma risulta dalle
interazioni locali tra i partecipanti, nella loro successione temporale e
nello spazio delle relazioni. Poiché il sistema costituito da tali
interazioni è più e meno della somma
delle interazioni stesse, anche se le singole interazioni fossero regolate da
qualche legge, e quindi “calcolabili”, la forma risultante complessiva
sarebbe imprevedibile. La mossa iniziale, la regola del gioco, la condizione che
istituisce quel “gioco linguistico” e non un altro è il silenzio dell’insegnare.
Semplicemente l’insegnante accetta di non dire la sua in merito all’argomento
e di non esprimere giudizi “giusto/sbagliato” su quanto dicono i bambini;
salva questa regola, può fare quanto ritiene opportuno per favorire la
conversazione attorno a un argomento che nasce da una domanda-problema (posta
dall’insegnante stesso o, meglio ancora, raccolta dall’interazione libera dei
bambini nel contesto di un’esperienza). Da qui una conversazione è tanto imprevedibile nel suo sviluppo
che non può neppure essere raccontata; la narrazione implica un narratore: la
struttura e il senso vengono da lui. Le conversazioni autoorganizzate
dei bambini devono essere ascoltate: l’ “ascolto” non è accoglienza affettiva, ma dispositivo
pedagogico. Significa registrare senza selezionare, non dare per scontato
che le parole dei bambini comunichino significati certi, stabilizzati
nella cultura dell’adulto. Significa entrare nel gioco incerto dell’etnografo
che deve interpretare discorsi, gesti, oggetti, riti... non in base alla propria
cultura ma a quella della popolazione osservata, cultura che può conoscere solo
attraverso quei discorsi, quei gesti... Ci vuole recettività, attenzione al
dettaglio, capacità di reggere l’incertezza del non interpretare subito e
disponibilità a cambiare interpretazione (Sala, 2004). In questi tipi di conversazione il comportamento dei bambini
oscilla all’interno di polarità che sono contemporaneamente
cognitive, emotive e relazionali: sicurezza–esplorazione,
integrazione–individuazione, convergenza–divergenza. Il bisogno di sicurezza spinge i bambini, almeno all’inizio, a
fornire risposte che hanno un’alta probabilità di essere valutate
positivamente dall’insegnante, perché rimangono all’interno di un campo
cognitivo già assimilato. Ma con questo entra in tensione un altro bisogno,
che ha origini evolutive e si fa sentire fortemente nei bambini, quello di esplorare. Altrettanto radicata nella natura umana è la tendenza
all’integrazione ai gruppi sociali di appartenenza (in una mappa psicologica
si parlerebbe di bisogno che parte dal desiderio di ricostituire la perduta
fusione con il corpo materno), che entra in tensione con un’altra tendenza
anch’essa riconducibile alla nascita: l’esigenza di distinguersi dalla fusione
costruendo una propria identità (Lapierre – Aucouturier,
1980). Di conseguenza nelle dinamiche di interazione in una
conversazione si manifesta una tensione tra interventi convergenti verso
un’idea dominante nel gruppo e interventi che si pongono in opposizione o in
alternativa. A questo punto vorrei proporre uno spezzone di una
conversazione. [5° elementare; si sta discutendo delle diverse forme che assume
la luna] MASSIMILIANO - Ma quando c'è la Luna il Sole non c'è. La Luna si
vede solo di notte. Probabilmente questa immagine ha un’origine mitica (il Sole re
del giorno, la Luna regina della notte), a ricordarci che la conoscenza dei
bambini cresce su molte radici, dall’esperienza diretta all’immaginario
culturale e che non si può mai essere certi di quali siano in gioco in ogni
momento. Agisce un conflitto cognitivo
in cui una convinzione viene “falsificata” da un'osservazione diretta. INSEGNANTE - Di che colore è la Luna? Il colore è un elemento
apparentemente ininfluente, ma i bambini ci tornano. L’insegnante raccoglie
questo elemento, che evidentemente ha una valenza affettiva, anche se non sa
quale ne sia la pertinenza scientifica. SARA - È bianca, e poi ha tante macchie nere, che sono i crateri. DANIELE - Ma se dalla parte di
Terra dove stiamo noi è notte, come facciamo a mandare la luce sulla Luna? Francesca fa un'ipotesi non semplice e affascinante; Daniele dimostra
una logica molto acuta nel confutarla. Il risultato è un puro dialogo
galileiano. ELEONORA - Io
una sera ho visto la Luna al tramonto, era color rosa: non era bianca! INSEGNANTE - Perché era rosa, secondo
te? ELEONORA - Era rosa come il
cielo, quindi ha preso il colore dal cielo. Qui c'è un intreccio tra osservazione
e ragionamento. Verrebbe da dire che il ragionamento funziona meglio quando
si àncora ad elementi di osservazione. INS. -
Ma il cielo al tramonto perché è rosa? DANIELE - Perché è
il Sole che gli dà il colore!
SOFIA - Anche la Luna allora
prendeva il colore dal Sole! Il tema del colore, che sembrava di
disturbo, si è rivelato cruciale per arrivare all’ipotesi fondamentale per
l’argomento in discussione: la Luna è l’illuminata dal Sole. Nessun insegnante
mai, se dovesse fornire la spiegazione corretta delle forme che assume
la Luna nel suo ciclo celeste, passerebbe per il colore. Questo ci dice che, se anche l’insegnante
conosce la teoria scientifica che spiega quei fenomeni, resta indeterminato
il percorso attraverso il quale quel sistema cognitivo vivente, quel
gruppo di bambini in quella situazione, può arrivare alla soluzione. Poiché
l’insegnante non è l’esperto di scienza, ma l’esperto dei processi di
conoscenza scientifica, l’indeterminatezza del percorso cognitivo è
pertinente alla sua professionalità. Negli esempi abbiamo visto in azione
sia la cooperazione
che il conflitto. Dal punto di vista psicologico e pedagogico, ma anche
epistemologico, il conflitto cognitivo pone la necessità di giustificare le
proprie affermazioni o di confutare quelle altrui, quindi attiva
l'argomentazione 2, svolgendo un ruolo fondamentale nello sviluppo
del pensiero scientifico 3 e,
in generale, critico: [4^ elementare; il calore] GIANMARCO - La bambola non riscalda il
letto, il peluche sì, perché quelli che ho io sono fatti di pelle e la pelle
è calda. La
rappresentazione relativa a calore e temperatura è errata dal punto di vista
scientifico. CLAUDIA - Però
devi vedere che bambola è, perché io una volta ho messo una bambola di
plastica e… CHIARA - Ha
ragione Anastasia, perché un pupazzo grosso è pieno di piume e queste riscaldano
e poi fuori c’è pure la pelle e questa riscalda ancora di più. GIULIA - Il peluche non ha tutto quello che
abbiamo noi dentro il corpo: non ha vita, non ha il calore, non si muove… L’insegnante non interviene e sono i bambini che, attraverso il
conflitto cognitivo, correggono la loro rappresentazione. SILVIA - Nella bambola e nel peluche non circola il sangue che
riscalda l’oggetto. Sostiene l’intervento precedente dandone una spiegazione
causale. ANASTASIA -
Può avere ragione anche Giulia: è vero non hanno vita i peluche, ma se tu l’abbracci,
lo puoi riscaldare comunque. ARIANNA -
Secondo me Anastasia non ha ragione: la bambola e il peluche non sono esseri
viventi… CLAUDIA - … e non hanno la vita e non
possono riscaldare il letto perché non hanno il sangue. A questo punto sembra esserci convergenza sul ruolo del vivente
nella produzione di calore e del sangue nel trasferimento di calore. Per quanto sia “cognitivo”, il conflitto crea, quanto meno,
disagio. Si capisce allora perché la dinamica
incerta del conflitto non sia la preferita dagli insegnanti: se però
“ascoltassero”, si accorgerebbero che i bambini lo reggono molto bene, soprattutto se il contenuto non è il pretesto ma il merito del conflitto. Probabilmente la qualità negativa, dal
punto di vista emotivo-affettivo-relazionale, del
conflitto sta nella insicurezza degli adulti nel gestirlo. Se questi sono i processi che avvengono in situazioni di autoorganizzazione dell’apprendimento, la domanda per
l’educatore diventa come istituire contesti che li favoriscano. Gli insegnanti dovrebbero prendere atto che la fonte della
conoscenza scientifica non è (più solo) la scuola: i bambini raccolgono le
informazioni dal bagno culturale in cui sono immersi. Questo significa
perdita di controllo rispetto alla certezza chiusa nel libro di testo. Tuttavia le informazioni non bastano: (come i cibi) devono
essere assimilate alle
proprie strutture di pensiero. Del processo gli psicologi hanno proposto
modelli; se però (diversamente che per i cibi) esso avviene in uno spazio di
rielaborazione che è sociale 4,
le variabili in gioco diventano più complesse e meno controllabili
dall’esterno. E allora si tratta di non privare i bambini di quelle situazioni
di sperimentazione che permettono loro di imparare in modo “naturale”, come
succede prima di andare a scuola. In fondo si tratta solo di rimettere
le cose a posto. Che fa lo scienziato? scopre, inventa. E, appena
riesce a scoprire qualcosa... ricomincia daccapo. é evidente allora che lo scienziato “per essenza” è colui
che non sa: l’incertezza è il suo mestiere. Per quanto riguarda la
scienza il paradigma di riferimento è la scoperta; e allora come può funzionare
l’educazione scientifica, che dovrebbe essere una iniziazione alla scienza,
se capovolge il tutto facendo diventare la scienza una trasmissione da chi
sa a chi non sa? Ma l’insegnante, se non insegna, che fa? Questa è un’altra fonte di incertezza rispetto alle certezze
dell’insegnare. Se chiedete che cosa fa l’insegnante, qualsiasi ragazzo
risponderà con sicurezza “spiega” (“fa lezione”) e “interroga”. Ma perché,
almeno nella nostra cultura, si pensa che per far lezione, per spiegare, sia
sufficiente conoscere il contenuto? Provate, mentre qualcuno “spiega”, a
fermarlo ogni volta che usa termini che non ha precedentemente “spiegato”:
quello che state facendo è non accettare di comportarsi come se le parole scambiate avessero lo stesso significato per
gli interlocutori. Questo è fondamentale nella relazione educativa: chi come
me ha lavorato con bambini sordi o chi oggi lavora con bambini stranieri, con
i quali non si può dare per condiviso nemmeno il linguaggio quotidiano, sa
bene di che sto parlando. Perché gli insegnanti tendono a dimenticare una struttura
costitutiva della relazione insegnante-allievo, che altrimenti non avrebbe
ragione di esistere: l’allievo non sa
già quello che sa l’insegnante. E con questo si intende non che non sa
ripetere le parole, ma che non ne conosce i significati corretti
(stabilizzati nella comunità disciplinare di riferimento). Ma, se non ne
conosce i significati, come si può pensare di usare quelle parole per
spiegare configurazioni ancora più complesse di significati? Il problema non
è risolvibile come in un gioco di costruzioni modulare in cui un oggetto si
ottiene assemblando pezzi più semplici:i significati sono una rete complessa,
nel senso specifico che ognuno rimanda ad altri, di cui alcuni possono
rimandare ai primi, circolarmente. Quindi si tratta di costruire conoscenza utilizzando elementi che sono in costruzione.
Un gioco di nuovo decisamente caratterizzato dall’incertezza. Ma allora che cosa fa l’insegnante che ha rinunciato alla (ormai
falsa) certezza del fare lezione e dell’interrogare? Si può rispondere
osservando che cosa effettivamente fa,
ad esempio nelle conversazioni auto-organizzate dei bambini. Intanto istituisce il contesto, e garantisce, anche con
interventi di sostegno, che la comunicazione
sia aperta per tutti. Opera un contenimento
cognitivo quando delimita il campo di ricerca attorno a un oggetto su cui riporta l’attenzione
e che aiuta a identificare, là dove per i bambini l’esplorazione non avrebbe
limiti né direzioni. Ma la cosa forse più interessante è che mantiene aperto il conflitto cognitivo, problematizzando,
chiedendo giustificazioni, proponendo contro-esempi...: [5a
elementare; dentro la nostra classe c’è acqua?] MIRIAM
- Perché quando si formano queste goccioline, allora... prima cosa col vapore,
poi con la pioggia, con l'umidità… MAESTRA - E allora perché quel vetro
non è bagnato? Questo tipo di azione è strettamente legato all’uso dello
“spiazzamento”; nel linguaggio dell’autopoiesi sarebbero “perturbazioni”, capaci di innescare
processi di ristrutturazione (apprendimenti): situazioni in cui il proprio
sapere e saper fare non funzionano. Lo spiazzamento provoca incertezza,
che è uno stato contemporaneamente cognitivo e affettivo (disagio), ma senza
spiazzamento non si muovono processi di apprendimento, perché la natura,
anche quella umana, è conservativa, e la legge del vivente è il mantenimento
dell’identità: se quello che si conosce funziona bene, non si apprende,
perché non è vantaggioso cambiare. Naturalmente la perturbazione deve essere
capace di innescare cambiamenti senza distruggere l’organizzazione
dell’identità. L’insegnante “autopoietico” è
consapevole che la forma degli apprendimenti non dipende da quella degli
spiazzamenti, ma dall’identità e dalla storia del sistema perturbato; quindi
l’effetto, ancora una volta, è incerto e comprenderlo richiede ascolto. In generale l’arte del
(non) insegnare non è applicare un metodo, quanto sviluppare strategie: “Il programma è costituito da una sequenza prestabilita di
azioni che si concatenano tra loro e si scatenano a un segno o a un segnale
dato. La strategia si costruisce nel corso dell'azione, modificando, secondo
il presentarsi degli eventi o la ricezione delle informazioni, la condotta
dell'azione considerata. La strategia presuppone dunque a) la capacità di intraprendere
o di cercare nell'incertezza tenendo conto di questa stessa incertezza; b) la
capacità di modificare lo sviluppo dell'azione in funzione dell'alea e del
nuovo. La strategia presuppone la capacità da parte del soggetto di utilizzare
per l'azione i determinismi e le alee esterni e possiamo quindi definirla come
il metodo d'azione proprio di un soggetto in situazione di gioco [nel senso
della ‘teoria dei giochi’]” (Morin, 1986, pag. 72). Strategia evidentemente è in relazione con incertezza, e anche con complessità
e contestualizzazione. é per questo che il (non) insegnare è
un’arte (ci aiuta ricordare che in greco arte si dice téchne). C’è
un altro modo di rappresentare la “programmazione”, che si rifà a Gregory Bateson. L’essere cosciente porta l’uomo ad agire in base
alla finalità, che
connette linearmente
azione e risultato. Ma così funziona
la coscienza, non il mondo. Agendo secondo la finalità cosciente,
l’uomo ignora i circuiti
complessi delle relazioni, trascura la natura sistemica del mondo di cui fa
parte e ne distrugge la rete di connessioni. E se,
per curare quelle patologie, l’uomo utilizza ancora la finalità cosciente
nell’illusione di poter controllare i processi dall’esterno, non può
che peggiorare la propria situazione (Bateson,
1972). Di
qui l’esitare, come atteggiamento epistemologico
prima che etico, come modalità del pensare prima che dell’agire (Madonna,
2003). Esitare di fronte ai sistemi viventi è dar loro modo e tempo di
percorrere in autonomia i processi che caratterizzano la vita: l’evoluzione
(del mondo vivente) e l’apprendimento (dell’individuo). È
questa esitazione il senso che vorrei dare a quel “non” davanti
all’insegnare. E anche le parentesi hanno un loro significato: le ho messe
per riparare quel “non” da una precipitosa interpretazione del non fare come dismissione di responsabilità o disinteresse nei confronti dell’altro
che nella relazione educativa ci è affidato; insomma questo “non” non è un “dis”. E questo mi porta dritto al paradosso dell’insegnante:
l’apprendimento dei bambini dipende e non dipende dall’insegnante; per
questo deve comportarsi come se da lui/lei dipendesse e non dipendesse
l’apprendimento dei ragazzi. L’insegnante deve agire come se ci fosse sempre
una strategia possibile per qualsiasi bambino o bambina in qualsiasi
contesto; ma, d’altra parte, non
può far dipendere il suo
impegno o la sua rinuncia da quelle che ritiene risposte positive o negative da parte dei bambini. Non
si tratta solo di “attendersi gli imprevisti” (Perticari,
1996), ma più profondamente di essere consapevoli che ciò che un bambino
apprende, quando e come, non dipende dall’insegnante. Quella di apprendere è
la loro responsabilità, intenzionale o no. L’arte di (non) insegnare comprende
dunque il costruire le condizioni per
l’apprendimento, l’ “ascoltare”, il perturbare i sistemi cognitivi
degli allievi per innescare apprendimenti (spiazzamento). C’è
poi un ultimo elemento, che ci riporta per contrasto alla scuola della programmazione, della prevedibilità
e del controllo, e quindi della narrazione di come le cose dovrebbero andare,
ed è ricostruire a
posteriori i percorsi effettivi di
apprendimento attraverso narrazioni adeguate che ne restituiscano il senso. Questo significa accettare che un senso si riveli (forse) solo a
posteriori, ma è proprio questa in-certezza
che riporta la pedagogia nell’ambito delle scienze del vivente. NOTE [1] “Il linguaggio […]
sta con gli oggetti che denota in una relazione paragonabile a quella esistente
tra la mappa e il territorio.” (Bateson, 1955, pag. 220). “… se vogliamo parlare di
esseri viventi […] sarebbe opportuno adottare un linguaggio che fosse in
qualche modo isomorfo, che fosse coerente con il linguaggio in base al quale
gli esseri viventi stessi sono organizzati.” (Bateson, 1979, pag. 458). 2 Si vedano le ricerche del gruppo di
Clotilde Pontecorvo (ad esempio Pontecorvo & al. 1991). 3 “La
filosofia medesima non può se non ricevere benefizio dalle nostre dispute, perché
se i nostri pensieri saranno veri, nuovi acquisti si saranno fatti, se falsi,
col ributtargli, maggiormente verranno confermate le prime dottrine”
(Galileo, 1630, pag. 48). 4 Il riferimento è alla
teoria dell’ “interiorizzazione” (Vygotskij, 1954). BIBLIOGRAFIA ·
Bateson Gregory 1955, “Una teoria del gioco e della fantasia”, in
Verso un’ecologia della mente, Adelphi Milano, 1976. ·
Bateson Gregory, 1972, “Patologie dell’epistemologia”, in Verso
un’ecologia della mente, pagg. 507-508, Adelphi
Milano, 1976. ·
Bateson Gregory, 1979. “Ultima
conferenza”, in Una sacra unità, Adelphi Milano, 1997. ·
Bruner Jerome S.. La cultura
dell’educazione, Feltrinelli, Milano, 2007. ·
Galilei Galileo, 1630. Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo,
Edizioni Studio Tesi Pordenone, 1988. ·
Lapierre André – Aucouturier Bernard, 1980. Il corpo e l’inconscio in educazione e terapia, Armando Roma
1982. ·
Madonna Giovanni, 2003. La
psicoterapia attraverso Bateson, Bollati Boringhieri Torino. ·
Maturana Humberto – Varela
Francisco, 1980. Autopoiesi e cognizione, Marsilio Venezia, 1985. ·
Morin Edgar,1986. La conoscenza della conoscenza, Feltrinelli Milano, 1989. ·
Perticari Paolo, 1996. Attesi
imprevisti, Bollati Boringhieri Torino. ·
Pontecorvo
Clotilde - Ajello AnnaMaria
- Zucchermaglio Cristina, 1991, Discutendo si impara,
La Nuova Italia Scientifica Roma. ·
Sala Marcello, 2004, Il volo di Perseo, Junior Azzano S. Paolo. ·
Sala Marcello, 2007, L’arte di (non) insegnare, Change Torino. ·
von Foerster Heinz, 1987. Sistemi che osservano, Astrolabio
Roma. ·
Vygotskij Lev, Pensiero e linguaggio, Giunti e Barbera Firenze, 1954. ·
Wittgenstein Ludwig, 1953.
Ricerche filosofiche, Einaudi,
Torino 1999. |