Marcello Sala

INCERTEZZA E

ARTE DI (NON) INSEGNARE

-pubblicato in-

Riflessioni Sistemiche

n. 1 / 2009

AIEMS

 

 

Sommario – La “programmazione” scolastica come narrazione della norma – il “gioco linguistico” della ricerca – L’autopoiesi come strumento pedagogico – Le conversazioni scientifiche dei bambini come esempio di autoorganizzazione dell’apprendimento - La strategia dell’insegnante – L’ascolto e la narrazione come ricostruzione di senso.

PAROLE CHIAVE – apprendimento, autoorganizzazione, conversazione, strategia, spiazzamento, conflitto cognitivo

 

Scrivere una storia “realmente accaduta” è un bell’impiccio, con quella faccenda della verità..., ma scrivere una storia prima che accada è un paradosso.

A meno che non si tratti di una storia inventata; allora cambia tutto: il contesto, il senso, il “gioco linguistico” (Wittgenstein, 1953) tra lo scrittore e i lettori; entra in gioco l’immaginazione...

Avendo fatto l’insegnante, conosco bene una scrittura di storie prima che accadano: è un genere letterario chiamato “programmazione”.

La scuola della programmazione assume il modello della “scatola nera”, l’idea cioè che i bambini siano meccanismi, il cui funzionamento è noto agli psicologi, ma di cui ci si può non occupare, perché ciò che importa è che, per avere output voluti, è sufficiente fornire input adeguati. Presupposto di questo modello è l’esistenza di leggi di corrispondenza certa tra input e output e di un luogo esterno da cui è possibile osservare, controllare, dirigere.

Per uscire dal paradosso dello scrivere una storia prima che accada si può non farla sembrare una storia, abbandonando il registro narrativo; ma sotto il linguaggio pseudo-scientifico si manifesta l’intenzione narrativa e, dietro l’intenzione, il desiderio: programmare in fondo è narrare come le cose dovrebbero andare.

Queste storie di programmazione sono storie didascaliche. Sono noiose per il linguaggio ma, più a fondo, per la mancanza di un elemento chiave della narrazione, in cui “l’azione si sviluppa portando a una rottura, a una violazione delle aspettative legittime” (Bruner, 1996, pag. 107).

La programmazione racconta solo la norma, mentre a rompere le aspettative è la storia di ciò che accade realmente nelle classi. Prosegue Bruner: “Quello che viene dopo è il ripristino della legittimità iniziale...”; ma qui siamo ormai in un’altra fase della narrazione scolastica: la valutazione.

Tutti abbiamo desideri inconfessati (avere una classe perfetta, che impara solo perché noi facciamo lezione), ma, quando il desiderio diventa narrazione e la narrazione si maschera da documento operativo con tanto di timbri istituzionali, finisce che la storia programmata diventa il paradigma per la valutazione, e, ancora prima, il riferimento per lo stesso vissuto dell’insegnante, che sarà condizionato dalla conformità delle reazioni dei suoi studenti a ciò che ha programmato. E dunque, se la storia non va come dovrebbe andare, il vissuto sarà negativo e sarà colpa di qualcuno.

Ma, se la programmazione porta inevitabilmente alla frustrazione, dove sta il “vantaggio evolutivo” che ne ha permesso la diffusione nella nostra cultura educativa?

Sta, credo, nella riduzione dell’incertezza, che però è una dinamica solo psicologica e solo dell’insegnante, che la proietta sui bambini convincendosi che il problema venga da loro: “I bambini hanno bisogno di certezze” sento dire agli insegnanti in contesti di formazione in cui loro stessi sono messi, per una volta, nei panni di chi apprende; ma io, nelle conversazioni in cui l’insegnante non interviene nel merito dell’argomento (ci tornerò), in cui si cercano soluzioni di problemi, mai ho sentito un bambino chiedere all’insegnante “dicci tu la risposta”. Non l’ho sentito perché quella richiesta è adeguata a un “gioco linguistico” diverso, l’interrogazione, in cui la risposta certa esiste, è unica, e la conosce l’insegnante, che ha fatto la domanda non per trovare la risposta, ma per verificare se gli allievi l’hanno “studiata”.

Nel “gioco linguistico” della ricerca, che nasce da domande “legittime”, che vengono fatte perché non si conoscono già le risposte (von Foerster,1987, pag. 130), la risposta non la sa chi ha fatto la domanda, non è unica, a volte non c’è: l’incertezza fa parte del gioco. Per questo i bambini non si turbano, anzi sono a proprio agio. Anzi, se vogliamo capire come mai ci sono persone che continuano a divertirsi giocando a briscola, nonostante la briscola sia un gioco assolutamente chiuso, con un dominio di azioni limitatissimo e immutabile, dobbiamo ammettere che proprio nell’incertezza sull’andamento della partita e sul suo esito sta il bello del gioco, la sua essenza.

Ma forse occorre ricominciare da un altro punto di partenza. Tutta l’istituzione educativa poggia su una premessa, talmente sprofondata dall’abitudine nell’inconscio culturale che ci dimentichiamo di pensarci, nonostante sia di fondamentale importanza in qualsiasi discorso pedagogico o didattico: i bambini imparano quello che viene loro insegnato. L’istituzione educativa è organizzata a valle di questo principio, ma la premessa è palesemente falsificata dall’esperienza comune: i bambini imparano cose importantissime e difficilissime, come parlare una lingua a età precocissime, senza che nessuno le insegni loro (intendendo con “insegnare” quello che normalmente si intende con questo termine nella scuola).

Ma qui mi interessa capire dove poggia quella premessa: probabilmente sull’idea di un apprendimento come adattamento a un ambiente esterno che funge da stampo su cui le forme si plasmano: è l’idea di form-azione, di in-segna-mento, appunto.

Ma un’idea diversa è possibile.

Negli anni ’80 due biologi cileni, per rispondere alla domanda “cos’è un vivente?”, proposero la teoria dell’autopoiesi (MaturanaVarela, 1980). Caratteristica fondamentale del vivente è produrre se stesso secondo un’identità (ciò per cui è ciò che è); mantenere l’identità è la legge di sopravvivenza. Il cambiamento (apprendimento) può essere innescato ma non determinato dall’ambiente: gli stimoli provenienti dall’ambiente perturbano il sistema vivente, provocando ristrutturazioni della sua organizzazione; la forma di queste ristrutturazioni dipende dall’identità del sistema.

C’è accoppiamento strutturale tra organismo e ambiente se c’è un dominio di interazioni, ovvero un campo di influenze reciproche capaci di innescare ristrutturazioni. L’accoppiamento strutturale è la base per una co-evoluzione. Ma la distinzione tra organismo e ambiente è una operazione cognitiva dell'osservatore: il significato che l’osservatore attribuisce a ciò che osserva fa parte del suo dominio cognitivo, non di quello del sistema osservato. In questo senso il sistema comprende l’osservatore.

Queste idee sono diventate generative per il mio lavoro mentre conducevo una ricerca su una ludoteca (Sala, 2007) in cui l’operatore aveva come regola il non far giocare i bambini, nel senso che non proponeva né conduceva giochi, ma costruiva le condizioni perché i bambini giocassero i loro.

Nei giorni in cui cominciavo a interrogarmi sui significati di ciò che osservavo, mi accorsi che l’autopoiesi forniva delle chiavi di lettura illuminanti per comprendere la situazione; per usare il linguaggio di Gregory Bateson, forniva una “mappa” adeguata al “territorio”, un linguaggio di descrizione coerente con il linguaggio della comunicazione interna a quel sistema vivente 1.

Da quel momento pensai che l’autopoiesi fosse un buon linguaggio per parlare dellautoorganizzazione dell’apprendimento, perché sostiene ipotesi pedagogiche sulla relazione insegnamento-apprendimento.

Se la perturbazione in sé innesca ma non determina il cambiamento, allora, nel contesto educativo, il contenuto dell'apprendimento non sta nell'insegnamento, ma nell'esito del processo di ristrutturazione dell'identità cognitiva del soggetto: la forma del processo dipende dalla identità (storia) del soggetto.

Se l’accoppiamento strutturale è la possibilità di essere reciprocamente fonte di perturbazioni che innescano cambiamenti, allora, nel contesto educativo, l'insegnante e i suoi allievi sono fonti di perturbazioni reciproche che provocano quelle ristrutturazioni che chiamiamo apprendimenti (la relazione non è simmetrica: l’insegnante è responsabile delle condizioni di questo processo).

Se la forma del cambiamento appare nella descrizione di un osservatore che fa parte del sistema, allora, nel contesto educativo, l’osservatore interno è l’educatore che modifica “strategicamente” il proprio intervento in base alle forme, ai significati che ricava dall'osservazione.

Questa “mappa pedagogica” ho provato ad applicarla alle “conversazioni scientifiche autoorganizzate” in ambito scolastico.

Il termine “autoorganizzata” si riferisce al fatto che la forma che prende la conversazione non è determinata da una intenzione, da una direzione impressa dall’esterno, ma risulta dalle interazioni locali tra i partecipanti, nella loro successione temporale e nello spazio delle relazioni. Poiché il sistema costituito da tali interazioni è più e meno della somma delle interazioni stesse, anche se le singole interazioni fossero regolate da qualche legge, e quindi “calcolabili”, la forma risultante complessiva sarebbe imprevedibile.

La mossa iniziale, la regola del gioco, la condizione che istituisce quel “gioco linguistico” e non un altro è il silenzio dell’insegnare. Semplicemente l’insegnante accetta di non dire la sua in merito all’argomento e di non esprimere giudizi “giusto/sbagliato” su quanto dicono i bambini; salva questa regola, può fare quanto ritiene opportuno per favorire la conversazione attorno a un argomento che nasce da una domanda-problema (posta dall’insegnante stesso o, meglio ancora, raccolta dall’interazione libera dei bambini nel contesto di un’esperienza).

Da qui una conversazione è tanto imprevedibile nel suo sviluppo che non può neppure essere raccontata; la narrazione implica un narratore: la struttura e il senso vengono da lui. Le conversazioni autoorganizzate dei bambini devono essere ascoltate: l’ “ascolto” non è accoglienza affettiva, ma dispositivo pedagogico. Significa registrare senza selezionare, non dare per scontato che le parole dei bambini comunichino significati certi, stabilizzati nella cultura dell’adulto. Significa entrare nel gioco incerto dell’etnografo che deve interpretare discorsi, gesti, oggetti, riti... non in base alla propria cultura ma a quella della popolazione osservata, cultura che può conoscere solo attraverso quei discorsi, quei gesti... Ci vuole recettività, attenzione al dettaglio, capacità di reggere l’incertezza del non interpretare subito e disponibilità a cambiare interpretazione (Sala, 2004).

In questi tipi di conversazione il comportamento dei bambini oscilla all’interno di polarità che sono contemporaneamente cognitive, emotive e relazionali: sicurezza–esplorazione, integrazione–individuazione, convergenza–divergenza.

Il bisogno di sicurezza spinge i bambini, almeno all’inizio, a fornire risposte che hanno un’alta probabilità di essere valutate positivamente dall’insegnante, perché rimangono all’interno di un campo cognitivo già assimilato. Ma con questo entra in tensione un altro bisogno, che ha origini evolutive e si fa sentire fortemente nei bambini, quello di esplorare.

Altrettanto radicata nella natura umana è la tendenza all’integrazione ai gruppi sociali di appartenenza (in una mappa psicologica si parlerebbe di bisogno che parte dal desiderio di ricostituire la perduta fusione con il corpo materno), che entra in tensione con un’altra tendenza anch’essa riconducibile alla nascita: l’esigenza di distinguersi dalla fusione costruendo una propria identità (Lapierre – Aucouturier, 1980).

Di conseguenza nelle dinamiche di interazione in una conversazione si manifesta una tensione tra interventi convergenti verso un’idea dominante nel gruppo e interventi che si pongono in opposizione o in alternativa.

A questo punto vorrei proporre uno spezzone di una conversazione.

[5° elementare; si sta discutendo delle diverse forme che assume la luna]

MASSIMILIANO - Ma quando c'è la Luna il Sole non c'è. La Luna si vede solo di notte.

Probabilmente questa immagine ha un’origine mitica (il Sole re del giorno, la Luna regina della notte), a ricordarci che la conoscenza dei bambini cresce su molte radici, dall’esperienza diretta all’immaginario culturale e che non si può mai essere certi di quali siano in gioco in ogni momento.

ALESSIO - Non è vero! Io al mare l'ho vista di giorno; solo che non era bianca e nera, ma bianca e celeste.

Agisce un conflitto cognitivo in cui una convinzione viene “falsificata” da un'osservazione diretta.

INSEGNANTE - Di che colore è la Luna?

Il colore è un elemento apparentemente ininfluente, ma i bambini ci tornano. L’insegnante raccoglie questo elemento, che evidentemente ha una valenza affettiva, anche se non sa quale ne sia la pertinenza scientifica.

SARA - È bianca, e poi ha tante macchie nere, che sono i crateri.

FRANCESCA - Secondo me la Terra fa da specchio alla Luna e la illumina, perché la Terra prende la luce dal Sole e poi la rimanda verso la Luna.

DANIELE - Ma se dalla parte di Terra dove stiamo noi è notte, come facciamo a mandare la luce sulla Luna?

Francesca fa un'ipotesi non semplice e affascinante; Daniele dimostra una logica molto acuta nel confutarla. Il risultato è un puro dialogo galileiano.

MASSIMILIANO - Per me la Luna, siccome è solo un pezzo di roccia, non manda lei la luce, ma la prende dal Sole.

ELEONORA - Io una sera ho visto la Luna al tramonto, era color rosa: non era bianca!

INSEGNANTE - Perché era rosa, secondo te?

ELEONORA - Era rosa come il cielo, quindi ha preso il colore dal cielo.

Qui c'è un intreccio tra osservazione e ragionamento. Verrebbe da dire che il ragionamento funziona meglio quando si àncora ad elementi di osservazione.

INS. - Ma il cielo al tramonto perché è rosa?

DANIELE - Perché è il Sole che gli dà il colore!

SOFIA - Anche la Luna allora prendeva il colore dal Sole!

Il tema del colore, che sembrava di disturbo, si è rivelato cruciale per arrivare all’ipotesi fondamentale per l’argomento in discussione: la Luna è l’illuminata dal Sole. Nessun insegnante mai, se dovesse fornire la spiegazione corretta delle forme che assume la Luna nel suo ciclo celeste, passerebbe per il colore.

Questo ci dice che, se anche l’insegnante conosce la teoria scientifica che spiega quei fenomeni, resta indeterminato il percorso attraverso il quale quel sistema cognitivo vivente, quel gruppo di bambini in quella situazione, può arrivare alla soluzione. Poiché l’insegnante non è l’esperto di scienza, ma l’esperto dei processi di conoscenza scientifica, l’indeterminatezza del percorso cognitivo è pertinente alla sua professionalità.

Negli esempi abbiamo visto in azione sia la cooperazione che il conflitto. Dal punto di vista psicologico e pedagogico, ma anche epistemologico, il conflitto cognitivo pone la necessità di giustificare le proprie affermazioni o di confutare quelle altrui, quindi attiva l'argomentazione 2, svolgendo un ruolo fondamentale nello sviluppo del pensiero scientifico 3 e, in generale, critico:

[4^ elementare; il calore]

GIANMARCO - La bambola non riscalda il letto, il peluche sì, perché quelli che ho io sono fatti di pelle e la pelle è calda.

La rappresentazione relativa a calore e temperatura è errata dal punto di vista scientifico.

CLAUDIA - Però devi vedere che bambola è, perché io una volta ho messo una bambola di plastica e…

CHIARA - Ha ragione Anastasia, perché un pupazzo grosso è pieno di piume e queste riscaldano e poi fuori c’è pure la pelle e questa riscalda ancora di più.

GIULIA - Il peluche non ha tutto quello che abbiamo noi dentro il corpo: non ha vita, non ha il calore, non si muove…

L’insegnante non interviene e sono i bambini che, attraverso il conflitto cognitivo, correggono la loro rappresentazione.

SILVIA - Nella bambola e nel peluche non circola il sangue che riscalda l’oggetto.

Sostiene l’intervento precedente dandone una spiegazione causale.

ANASTASIA - Può avere ragione anche Giulia: è vero non hanno vita i peluche, ma se tu l’abbracci, lo puoi riscaldare comunque.

ARIANNA - Secondo me Anastasia non ha ragione: la bambola e il peluche non sono esseri viventi…

CLAUDIA - … e non hanno la vita e non possono riscaldare il letto perché non hanno il sangue.

A questo punto sembra esserci convergenza sul ruolo del vivente nella produzione di calore e del sangue nel trasferimento di calore.

Per quanto sia “cognitivo”, il conflitto crea, quanto meno, disagio. Si capisce allora perché la dinamica incerta del conflitto non sia la preferita dagli insegnanti: se però “ascoltassero”, si accorgerebbero che i bambini lo reggono molto bene, soprattutto se il contenuto non è il pretesto ma il merito del conflitto. Probabilmente la qualità negativa, dal punto di vista emotivo-affettivo-relazionale, del conflitto sta nella insicurezza degli adulti nel gestirlo.

Se questi sono i processi che avvengono in situazioni di autoorganizzazione dell’apprendimento, la domanda per l’educatore diventa come istituire contesti che li favoriscano.

Gli insegnanti dovrebbero prendere atto che la fonte della conoscenza scientifica non è (più solo) la scuola: i bambini raccolgono le informazioni dal bagno culturale in cui sono immersi. Questo significa perdita di controllo rispetto alla certezza chiusa nel libro di testo.

Tuttavia le informazioni non bastano: (come i cibi) devono essere assimilate alle proprie strutture di pensiero. Del processo gli psicologi hanno proposto modelli; se però (diversamente che per i cibi) esso avviene in uno spazio di rielaborazione che è sociale 4, le variabili in gioco diventano più complesse e meno controllabili dall’esterno.

E allora si tratta di non privare i bambini di quelle situazioni di sperimentazione che permettono loro di imparare in modo “naturale”, come succede prima di andare a scuola.

In fondo si tratta solo di rimettere le cose a posto. Che fa lo scienziato? scopre, inventa. E, appena riesce a scoprire qualcosa... ricomincia daccapo. é evidente allora che lo scienziato “per essenza” è colui che non sa: l’incertezza è il suo mestiere. Per quanto riguarda la scienza il paradigma di riferimento è la scoperta; e allora come può funzionare l’educazione scientifica, che dovrebbe essere una iniziazione alla scienza, se capovolge il tutto facendo diventare la scienza una trasmissione da chi sa a chi non sa?

Ma l’insegnante, se non insegna, che fa?

Questa è un’altra fonte di incertezza rispetto alle certezze dell’insegnare. Se chiedete che cosa fa l’insegnante, qualsiasi ragazzo risponderà con sicurezza “spiega” (“fa lezione”) e “interroga”. Ma perché, almeno nella nostra cultura, si pensa che per far lezione, per spiegare, sia sufficiente conoscere il contenuto? Provate, mentre qualcuno “spiega”, a fermarlo ogni volta che usa termini che non ha precedentemente “spiegato”: quello che state facendo è non accettare di comportarsi come se le parole scambiate avessero lo stesso significato per gli interlocutori. Questo è fondamentale nella relazione educativa: chi come me ha lavorato con bambini sordi o chi oggi lavora con bambini stranieri, con i quali non si può dare per condiviso nemmeno il linguaggio quotidiano, sa bene di che sto parlando.

Perché gli insegnanti tendono a dimenticare una struttura costitutiva della relazione insegnante-allievo, che altrimenti non avrebbe ragione di esistere: l’allievo non sa già quello che sa l’insegnante. E con questo si intende non che non sa ripetere le parole, ma che non ne conosce i significati corretti (stabilizzati nella comunità disciplinare di riferimento). Ma, se non ne conosce i significati, come si può pensare di usare quelle parole per spiegare configurazioni ancora più complesse di significati? Il problema non è risolvibile come in un gioco di costruzioni modulare in cui un oggetto si ottiene assemblando pezzi più semplici:i significati sono una rete complessa, nel senso specifico che ognuno rimanda ad altri, di cui alcuni possono rimandare ai primi, circolarmente. Quindi si tratta di costruire conoscenza utilizzando elementi che sono in costruzione. Un gioco di nuovo decisamente caratterizzato dall’incertezza.

Ma allora che cosa fa l’insegnante che ha rinunciato alla (ormai falsa) certezza del fare lezione e dell’interrogare? Si può rispondere osservando che cosa effettivamente fa, ad esempio nelle conversazioni auto-organizzate dei bambini.

Intanto istituisce il contesto, e garantisce, anche con interventi di sostegno, che la comunicazione sia aperta per tutti. Opera un contenimento cognitivo quando delimita il campo di ricerca attorno a un oggetto su cui riporta l’attenzione e che aiuta a identificare, là dove per i bambini l’esplorazione non avrebbe limiti né direzioni.

Ma la cosa forse più interessante è che mantiene aperto il conflitto cognitivo, problematizzando, chiedendo giustificazioni, proponendo contro-esempi...:

[5a elementare; dentro la nostra classe c’è acqua?]

MIRIAM - Perché quando si formano queste goccioline, allora... prima cosa col vapore, poi con la pioggia, con l'umidità…

MAESTRA - E allora perché quel vetro non è bagnato?

Questo tipo di azione è strettamente legato all’uso dello “spiazzamento”; nel linguaggio dell’autopoiesi sarebbero “perturbazioni”, capaci di innescare processi di ristrutturazione (apprendimenti): situazioni in cui il proprio sapere e saper fare non funzionano.

Lo spiazzamento provoca incertezza, che è uno stato contemporaneamente cognitivo e affettivo (disagio), ma senza spiazzamento non si muovono processi di apprendimento, perché la natura, anche quella umana, è conservativa, e la legge del vivente è il mantenimento dell’identità: se quello che si conosce funziona bene, non si apprende, perché non è vantaggioso cambiare. Naturalmente la perturbazione deve essere capace di innescare cambiamenti senza distruggere l’organizzazione dell’identità.

L’insegnante “autopoietico” è consapevole che la forma degli apprendimenti non dipende da quella degli spiazzamenti, ma dall’identità e dalla storia del sistema perturbato; quindi l’effetto, ancora una volta, è incerto e comprenderlo richiede ascolto.

In generale l’arte del (non) insegnare non è applicare un metodo, quanto sviluppare strategie:

“Il programma è costituito da una sequenza prestabilita di azioni che si concatenano tra loro e si scatenano a un segno o a un segnale dato. La strategia si costruisce nel corso dell'azione, modificando, secondo il presentarsi degli eventi o la ricezione delle informazioni, la condotta dell'azione considerata. La strategia presuppone dunque a) la capacità di intraprendere o di cercare nell'incertezza tenendo conto di questa stessa incertezza; b) la capacità di modificare lo sviluppo dell'azione in funzione dell'alea e del nuovo. La strategia presuppone la capacità da parte del soggetto di utilizzare per l'azione i determinismi e le alee esterni e possiamo quindi definirla come il metodo d'azione proprio di un soggetto in situazione di gioco [nel senso della ‘teoria dei giochi’]” (Morin, 1986, pag. 72).

Strategia evidentemente è in relazione con incertezza, e anche con complessità e contestualizzazione. é per questo che il (non) insegnare è un’arte (ci aiuta ricordare che in greco arte si dice téchne).

C’è un altro modo di rappresentare la “programmazione”, che si rifà a Gregory Bateson. L’essere cosciente porta l’uomo ad agire in base alla finalità, che connette linearmente azione e risultato. Ma così funziona la coscienza, non il mondo. Agendo secondo la finalità cosciente, l’uomo ignora i circuiti complessi delle relazioni, trascura la natura sistemica del mondo di cui fa parte e ne distrugge la rete di connessioni. E se, per curare quelle patologie, l’uomo utilizza ancora la finalità cosciente nell’illusione di poter controllare i processi dall’esterno, non può che peggiorare la propria situazione (Bateson, 1972).

Di qui l’esitare, come atteggiamento epistemologico prima che etico, come modalità del pensare prima che dell’agire (Madonna, 2003). Esitare di fronte ai sistemi viventi è dar loro modo e tempo di percorrere in autonomia i processi che caratterizzano la vita: l’evoluzione (del mondo vivente) e l’apprendimento (dell’individuo).

È questa esitazione il senso che vorrei dare a quel “non” davanti all’insegnare. E anche le parentesi hanno un loro significato: le ho messe per riparare quel “non” da una precipitosa interpretazione del non fare come dismissione di responsabilità o disinteresse nei confronti dell’altro che nella relazione educativa ci è affidato; insomma questo “non” non è un “dis”.

E questo mi porta dritto al paradosso dell’insegnante: l’apprendimento dei bambini dipende e non dipende dall’insegnante; per questo deve comportarsi come se da lui/lei dipendesse e non dipendesse l’apprendimento dei ragazzi. L’insegnante deve agire come se ci fosse sempre una strategia possibile per qualsiasi bambino o bambina in qualsiasi contesto; ma, d’altra parte, non può far dipendere il suo impegno o la sua rinuncia da quelle che ritiene risposte positive o negative da parte dei bambini. Non si tratta solo di “attendersi gli imprevisti” (Perticari, 1996), ma più profondamente di essere consapevoli che ciò che un bambino apprende, quando e come, non dipende dall’insegnante. Quella di apprendere è la loro responsabilità, intenzionale o no.

L’arte di (non) insegnare comprende dunque il costruire le condizioni per l’apprendimento, l’ “ascoltare”, il perturbare i sistemi cognitivi degli allievi per innescare apprendimenti (spiazzamento). C’è poi un ultimo elemento, che ci riporta per contrasto alla scuola della programmazione, della prevedibilità e del controllo, e quindi della narrazione di come le cose dovrebbero andare, ed è ricostruire a posteriori i percorsi effettivi di apprendimento attraverso narrazioni adeguate che ne restituiscano il senso. Questo significa accettare che un senso si riveli (forse) solo a posteriori, ma è proprio questa in-certezza che riporta la pedagogia nell’ambito delle scienze del vivente.

 

NOTE

[1]   “Il linguaggio […] sta con gli oggetti che denota in una relazione paragonabile a quella esistente tra la mappa e il territorio.” (Bateson, 1955, pag. 220).

“… se vogliamo parlare di esseri viventi […] sarebbe opportuno adottare un linguaggio che fosse in qualche modo isomorfo, che fosse coerente con il linguaggio in base al quale gli esseri viventi stessi sono organizzati.” (Bateson, 1979, pag. 458).

2    Si vedano le ricerche del gruppo di Clotilde Pontecorvo (ad esempio Pontecorvo & al. 1991).

3   “La filosofia medesima non può se non ricevere benefizio dalle nostre dispute, perché se i nostri pensieri saranno veri, nuovi acquisti si saranno fatti, se falsi, col ributtargli, maggiormente verranno confermate le prime dottrine” (Galileo, 1630, pag. 48).

4    Il riferimento è alla teoria dell’ “interiorizzazione” (Vygotskij, 1954).

 

BIBLIOGRAFIA

·        Bateson Gregory 1955, “Una teoria del gioco e della fantasia”, in Verso un’ecologia della mente, Adelphi Milano, 1976.

·        Bateson Gregory, 1972, “Patologie dell’epistemologia”, in Verso un’ecologia della mente, pagg. 507-508, Adelphi Milano, 1976.

·        Bateson Gregory, 1979. “Ultima conferenza”, in Una sacra unità, Adelphi Milano, 1997.

·        Bruner Jerome S.. La cultura dell’educazione, Feltrinelli, Milano, 2007.

·        Galilei Galileo, 1630. Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo, Edizioni Studio Tesi Pordenone, 1988.

·        Lapierre André – Aucouturier Bernard, 1980. Il corpo e l’inconscio in educazione e terapia, Armando Roma 1982.

·        Madonna Giovanni, 2003. La psicoterapia attraverso Bateson, Bollati Boringhieri Torino.

·        Maturana HumbertoVarela Francisco, 1980. Autopoiesi e cognizione, Marsilio Venezia, 1985.

·        Morin Edgar,1986. La conoscenza della conoscenza, Feltrinelli Milano, 1989.

·        Perticari Paolo, 1996. Attesi imprevisti, Bollati Boringhieri Torino.

·        Pontecorvo Clotilde - Ajello AnnaMaria - Zucchermaglio Cristina, 1991, Discutendo si impara, La Nuova Italia Scientifica Roma.

·        Sala Marcello, 2004, Il volo di Perseo, Junior Azzano S. Paolo.

·        Sala Marcello, 2007, L’arte di (non) insegnare, Change Torino.

·        von Foerster Heinz, 1987. Sistemi che osservano, Astrolabio Roma.

·        Vygotskij Lev, Pensiero e linguaggio, Giunti e Barbera Firenze, 1954.

·        Wittgenstein Ludwig, 1953. Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1999.