Marcello Sala

 

FAHRENHEIT 451

- pubblicato in-   

COOPERAZIONE EDUCATIVA

n. 12 / 1987

La Nuova Italia

 

Lettera aperta a un Preside

 

  Ill.mo Sig. Preside,

                            la decisione, anzi il bisogno, di scriverLe questa lettera ha una data precisa. Quel lunedì mattina i marosi della 2a F si infransero fragorosamente nell’aula come ogni giorno, ma nell’onda di risacca che rifluì, alleggerita di borse e zaini, verso la porta una frase galleggiava rotolando e rimbalzando sulla spuma di voci <<Il Preside non vuole che raccogliamo la carta in classe>>. "La carta" erano i pacchi di giornali scompostamente ammassati in fondo all’aula che i ragazzi avevano cominciato a portare come loro contributo diretto al finanziamento del progetto di campo-scuola per l'anno seguente.

   Era lunedì mattina, ma non uno qualsiasi per me: mentre ancora distrattamente assistevo dalla porta dell’aula al rito quotidiano dell’entrata a scuola, tentavo, come chi ancora una volta controlla lo splendere delle proprie gioie nello scrigno, di ritrovare dentro di me intatta l'emozione dell’incontro dei giorni precedenti. Per un'insegnante come me, cui Lei concede come "piacere personale" i cinque giorni previsti dalla normativa, passare il fine settimana in "attività di aggiornamento", con un viaggio di 500 Km e a proprie spese, è normale, non è invece "normale" incontrare un grande Maestro.

   Paul Le Bohec è una di quelle persone che sconvolgono perché nella loro persona e nel loro lavoro, che ci si aprono davanti in tutta la quotidianità di una realtà riconoscibile, è presente qualcosa di più grande, che chiama irresistibilmente ciò che di grande, di importante c'è anche in noi. E quando questo qualcosa, impaurito o disconosciuto, dimenticato o schiacciato, emerge alla coscienza, si rimane commossi e sconvolti. Il "metodo naturale" di Paul e di sua moglie Jannette ripropone l'essenza del nostro essere insegnanti (e già la parola tradisce) nel rapporto educativo tra l'adulto e la vita del bambino che cresce.

   È stato il contrasto a far scattare la soglia della reazione quel lunedì mattina, il senso di attraversare un confine, che non è una linea ma la percezione netta di una inconciliabile diversità. <<Ve l'ha detto il Preside in persona?>> <<No, ce l'ha riferito la prof.>>. Dalla grandezza di Paul, tutta intrisa della presenza eroica di Freinet, alla piccolezza di un "capo" che teme di guardare in faccia quei ragazzi cui sa di dovere delle spiegazioni o degli ordini.

   Sui "perché" che si condensarono nella mia mente pesò senza dubbio quello che era successo poche sere prima in Consiglio di Istituto alla mia presentazione del progetto per il campo-scuola. Il puntuale verificarsi di ciò che avevo previsto non aveva fatto che esasperarmi maggiormente. Nessuna critica, nessuna richiesta di capire, solo l'ipocrita aria di compatimento con cui si anticipavano le difficoltà, che non loro certamente, ma altri, l'Amministrazione Comunale, il Provveditorato, il Ministro, avrebbero purtroppo sollevato come insormontabile e fatale barriera alle velleità di un piccolo insegnante presuntuoso.

   Per un attimo avevo sperato che la meticolosità con cui Lei, unico fra tutti, leggeva il progetto, fosse un segno di attenzione. La scrittura di quel progetto, all’inizio dettata solo dall’esigenza organizzativa di predisporre in tempo utile certe condizioni indispensabili, mi aveva ben presto coinvolto. Mi accorgevo, mano a mano che tentavo di tradurre lo spirito dell’esperienza della Casa-laboratorio di Cenci in un qualcosa che potesse coinvolgere l'Assessore alla PI di un Comune dell’hinterland milanese, di quanto fosse importante da un punto di vista educativo ciò che stavo cercando di rendere possibile. Ma anche mi dava il senso di volare alto, sopra il ciarpame della scuola e del nostro fare scuola di ogni giorno. Pensare in grande un rapporto tra scuola ed Ente Locale in cui questo diventi interlocutore e committente di una ricerca e in cui i ragazzi siano chiamati a una funzione vera nel tessuto sociale della città come protagonisti di una comunicazione: sì, era la grandezza di ciò di cui ero portatore che caricava di una tensione antica il mio sguardo a incontrare il Suo, quando ebbe finito di percorrere quei fogli

   E la Sua sentenza era piombata con la definitività del tonfo del timbro tondo della Repubblica sulla carta bollata di un tribunale: non era regolare che il progetto fosse firmato come Consiglio di Classe; l'argomento avrebbe dovuto essere messo all’ordine del giorno di una riunione e risultare dai verbali. La durezza della mia reazione, del mio attacco a Lei, aveva molto a che fare con quella tensione interna e poco col clima della seduta: lo sconcerto dei presenti era evidente.

   Così confesso che quel lunedì mattina fui ingeneroso nei Suoi confronti: il Suo vendicarsi attraverso il boicottaggio del progetto era solo un fantasma della mia rabbia. Mi fu chiaro quando i ragazzi mi riferirono ciò che era stato riferito loro come Sua spiegazione: era per ragioni di sicurezza, per il pericolo di incendi, che non si poteva raccogliere carta a scuola. Fu soprattutto il fatto che "c'è una circolare in proposito" ad aprirmi gli occhi.

   Più che rabbia era una grande desolata tristezza quella che mi bruciava dentro quando scoppiai a ridere, una risata recitata in cui misi tutte le mie esperienze di animazione teatrale e la mia professionalità di animale di scuola. La perplessità dei ragazzi, già incrinata da qualche risata empatica e incosciente, si sgretolò in lazzi sguaiati quando nella mia evidente difficoltà a trovare fiato per le parole <<... e voi ci credete?... ci siete cascati un’altra volta... la prof. di lettere... quella burlona...>> emersero più eloquenti i gesti che indicavano inequivocabili, incombenti, straripanti presenze cartacee: cartine in mostra ai muri e in disarmo sull’armadio, dalla cui porta sgangherata si mostravano libri e vocabolari precipitanti in valanghe sui sottostanti ripiani inzeppati di mazzi di vecchi compiti in classe, borse rigonfie di testi e quaderni, registri vomitanti fogli stampati, cassetti rigurgitanti foglietti di giustificazione e pagine di dizionario, in un'orgia di cellulosa.

    Ma qualcuno non rideva, preoccupato, <<Ma allora è vero o no?>>. La recita aveva avuto successo, l'esca aveva funzionato; <<C'è un modo sicuro per saperlo: andate a chiederlo al Preside>>. Non ci voleva altro per far scattare la pattuglia d'assalto con le capopopolo e l'intellettuale organico della classe. Fu così che quella che per interposta autorità era stata una proibizione a raccogliere la carta a scuola, nel confronto diretto con Lei divenne una raccomandazione a non accumulare troppa carta, imballandola e portandola via con sollecitudine.

   Fu la mia collega poi a raccontarmi che, quando Lei l'aveva convocata per parlarle della faccenda, era stato il "genitore illuminato" del Consiglio di Istituto, presente al colloquio, ad aggiungere che del resto non valeva la pena darsi tanto da fare con la carta per così poca resa: sarebbe stato molto più semplice raccogliere 2 o 3.000 lire a testa... Un’invidiabile saggio equilibrio governa l'azione educativa della scuola, tra le difficoltà che temprano e gli interventi paterni o materni che semplificano. Ma perché le difficoltà, anziché quelle così abbondanti, varie e a buon mercato che offre la realtà, devono essere inverosimili, artificiali, pericolose per il corretto sviluppo del pensiero logico dei bambini e scandalose per il loro senso di giustizia? E perché le semplificazioni devono spazzare via i passaggi intermedi, quelli che possono fare la differenza tra un apprendimento naturale e un dizionario sconnesso di associazioni pavloviane, o possono trasformare un progetto degli adulti per i ragazzi in un’iniziativa dei ragazzi, vissuta in prima persona, dove la possibilità di divenire, forse per la prima volta, artefici di un piccolo pezzo del proprio futuro è affidato a qualcosa di effimero come la carta di giornale?

   E d'improvviso mi ero ritrovato quel pensiero nella mente... e se davvero, in spudorato spregio alle Sue circolari, la cicca di sigaretta mal spenta da un insegnante troppo bruscamente richiamato in classe dalla campanella e dal dovere, superando la soglia dei 451 gradi Farhenheit, appiccasse il fuoco a un qualsiasi pezzo di carta, clandestino o regolare, dando il via a un incendio... che ne sarebbe di questa scuola?

   Di una cosa sentii subito di essere sicuro: se bruciasse la scuola, i ragazzi si salverebbero. Loro si salvano sempre, perché hanno gli "anni in tasca": da poco avevo visto il film di Truffaut insieme con i ragazzi e anche nei loro commenti era risuonata questa sicurezza. Anche degli insegnanti non mi preoccuperei più di tanto. A scappare da questa scuola sarebbero i più pronti: è tanto che aspettano il momento. E se c'è qualche cosa della scuola cui tengono nonostante tutto, è qualcosa che possono portare con sé o che ritroverebbero là fuori in mezzo ai loro ragazzi, con i quali finalmente intreccerebbero le mani in un girotondo attorno al falò.

   E ciò che resta della scuola abbandonata dalle presenze umane è la Sua scuola: a bruciare sarebbe la Sua scuola, Preside, che è tutta di carta. Brucerebbero le Sue circolari, immense miniature alla cui stesura dedica l'inaccessibilità del suo tempo, coinvolgendo a volte insegnanti di passaggio in complessi problemi testuali. Strumenti di un governo illuminato e severo o prove documentali della competenza e affidabilità di chi è chiamato a rendere conto della propria promozione, attraverso di esse Lei oggi impone irrevocabilmente ciò che domani, quando la solitudine Le sarà insopportabile, troppo tardi chiederà alla nostra collaborazione (ai rematori dalla schiena segnata dalle frustate non piace sentirsi dire dal comandante che "siamo nella stessa barca").

   Forse è la minuziosa descrizione delle operazioni che gli insegnanti dovrebbero compiere o delle modalità secondo cui dovrebbero compierle che Le dà l'illusione di dirigere la scuola. In realtà la Sua carta non fa che generare altra carta e quello che Lei sta dirigendo è un nervoso lavorio di scrittura. Se qualcosa Le riesce di condizionare è solo l'oggetto delle ansie degli insegnanti. Non la preoccupazione di programmare l'attività didattica per costringersi a riflettere sui guasti della nostra faciloneria o per abbassare il livello dell’ansia del giorno dopo, ma redigere la programmazione, magari ricavandola da qualche manuale; non l'incombenza di verificare il proprio lavoro per scoprire che i bambini non sono programmabili o che gli insegnanti non hanno il coraggio di progettare se stessi, ma scrivere una verifica, magari copiando quella dell’anno precedente con la data cambiata; non porsi il problema di valutare i ragazzi rivoltandosi fino in fondo nella contraddizione del giudicare se stessi attraverso gli altri, ma compilare in duplice copia le schede dibattendosi nell’eterna diatriba se spetta a quella azzurra o quella marrone il privilegio di essere leggibile.

   E forse, nel rogo Sue circolari, vampe più vive si leverebbero da quelle citazioni della normativa con cui Lei timbra anche la più innocua delle disposizioni: innocenti esibizioni di competenza da sopportare con annoiata indifferenza, o autorevoli richiami da temere con pertinente rispetto; forse offerte ai sospettosi come rassicurazioni contro l'arbitrio e proprio per questo più brucianti quando, annullate dalla superiore esigenza di reprimere una protesta sindacale, restano come testimonianze di un potere tanto arrogante da poter smentire se stesso.

   E brucerebbero i registri. Forse se non esistessero i registri le assenze dei ragazzi sarebbero un fatto, invece che un segno sulla carta. Ricorda Preside quando mi convocò per discutere su quali segni utilizzare per distinguere le assenze di due ore da quelle di un’ora sola? Ma quando Anna è mancata da scuola per più di un mese che cosa abbiamo fatto, io e Lei?

   I registri, come le relazioni, fanno parte solo della Sua scuola. Via, Preside, non si costringa a credere alle menzogne del Suo stesso ruolo: gli "strumenti del proprio lavoro", quale artigiano si scorderebbe di usarli?! Quest’anno, a dissipare i residui dubbi che ci possa essere un nesso tra queste operazioni e l'educare o anche solo col riflettere sull’educare, i colleghi "modernisti" ci hanno fatto adottare un modello di registro a "griglie" predisposte: il mio porta tra gli "obbiettivi specifici" della matematica "incertezza nell’esecuzione delle operazioni" "lavora se guidato" "ha molta difficoltà di memorizzare" "ricorda in modo frammentario e con incertezza".

   Ma non è il fatto di essere un Suo strumento di controllo che mi fa dire che il registro appartiene alla Sua scuola: se Lei attraverso il registro controllasse la qualità del nostro lavoro sicuramente saremmo coinvolti, rimessi in gioco, magari costretti a costruirci una bravura da contrapporre ai Suoi modelli, ma quello che Lei controlla e se il registro è compilato bene, e ciò che di noi è coinvolta è l'abilità di capire come si compila "bene" il registro. È questo che Lei, come un buon padre severo per il bene dei figli, ha spiegato a un "giovane" collega che dopo cinque anni di insegnamento si sottoponeva all’ "anno di prova" e che, facendo buon viso a cattivo gioco, credeva di dovere in qualche modo dimostrare di essere un buon insegnante. No, ciò che doveva temere in caso di "ispezione" (il fantasma che turba le notti dei dipendenti P.I. a causa del loro scarso senso dell’umorismo) era la possibilità che i registri venissero trovati non "in ordine".

   Non possiamo più fingere di stupirci allo scandalo dei ragazzi che si sforzano di trovare non la risposta "giusta" ma quella che ha più probabilità di piacere al prof. Uccidere la sincerità è un delitto e noi ne siamo colpevoli, con l'aggravante del nostro ruolo educativo. All’esame di terza media un collega si opponeva all’attribuzione dell’ "ottimo" (la farsa dei voti mascherati) a una ragazza non perché disconoscesse la sua "preparazione" o le sue "doti di rielaborazione personale", ma perché "non aveva affrontato seriamente l'esame", dimostrando "un atteggiamento aggressivo e strafottente". In sostanza ciò che ci proponeva era di dare alla ragazza, che nella sua maturità aveva colto pienamente la contraddizione tra educare e valutare e si ribellava al tradimento soprattutto di chi dopo aver percorso un cammino con lei si schierava dietro il tavolo dei giudici, un segnale punitivo nei confronti della sua sincerità: dovevamo insegnarle che è bene fingere di accettare la finzione degli altri, fino a diventarne, come loro, inconsapevoli.

   Io per conto mio, di fronte alle "burocarte", so qual'è il nemico principale: l'ansia di chi si sente colto in fallo, e ho imparato a combatterlo; conosco le leggi, pratico il linguaggio burocratico, e dispongo, con l'aiuto del computer, di un catalogo di relazioni già pronte per tutte le stagioni. Ma, un po’ per non correre il rischio di "incartarmi" con le mie stesse mani e... un po’ per non morire, sono più disposto a coltivare l'insofferenza per l'inutilità coatta, giocando alle provocazioni. E no, Preside, non bari con me: se le comunicazioni scritte che mi richiede, con la pretesa non solo dell’obbedienza ma anche della convinzione, avessero in Lei non dico un interlocutore ma soltanto un lettore, si sarebbe certamente accorto che tra i miei "parametri di valutazione" figura "l'alesaggio" mentre diversi miei alunni dimostrano di avere "problemi di lubrificazione" o necessitano di una "regolazione delle punterie".

   Perché sotterrare nella spazzatura il talento della scrittura! Usiamolo piuttosto per aiutarci a ricostruire i percorsi nella ragnatela, a catturare la complessità, per costringerci a non dimenticare ciò che ogni giorno sta lì a ricordarci che la vita è irripetibile e chiede testimoni e custodi più che insegnanti. E poi, questi scritti veri, invece di conservarli per l'incendio, leggiamoli, leggiamoceli in faccia!

   Brucerebbero i libri di testo, Suoi questi per il diritto della sofferenza, dopo che per loro ha rischiato ciò che preziosamente si era costruito, giorno dopo giorno, con zelo e cattiveria: la stima dei suoi "superiori", seccati di rischiare per causa Sua le rimostranze di qualche potente mercante, non disposto a veder mettere in discussione un privilegio garantito.

   Quei libri che sono l'essenza stessa della cultura scolastica, scelti da un insegnante perché un altro sia costretto a usarli, scritti per i docenti e comprati dai genitori, per la cui adozione perfino la valutazione finale sarebbe passata in secondo piano nella scala delle priorità; così ci disse, Preside, quando, ribelli e soprattutto irrispettosi della Sua pace, tentammo per una volta di toglierci dal posto più scomodo, quello di chi non ha più nessuno sotto di sé su cui scaricare le contraddizioni.

   In quella seduta del Collegio dei docenti perseguitai Lei e i colleghi amanti della pax imperialis costringendo la Sua pignola fedeltà alla normative a sciorinare impietosamente sotto gli occhi di tutti le contraddizioni, le storture, le assurdità di quella operazione che avreste voluto compiere, come le piccole porcherie inconfessabili, nel massimo di velocità e silenzio. Anche la Sua resistenza ha un limite e, quando Le chiesi di ammettere esplicitamente la poca serietà di tutto ciò, mi chiese sbottando perché volevo questo da Lei e che cosa ci avrei guadagnato; <<la mia stima nei suoi confronti>> risposi, ma Lei, che forse aveva sfiorato l'orlo della sincerità,  se ne ritrasse come da un abisso scuro.

   Forse fu allora che scelse, inconsapevolmente perché non Le sarebbe bastato il coraggio, tra il farsi oppresso con gli oppressi o potente con i potenti, definitivamente. Solo più tardi avrebbe scoperto come il Potere tratta i suoi valletti. Io non so se Lei fosse di quelli che in buona fede credono che il Potere serva la legge; certamente quello che successe dopo, quando il Potere, ancora una volta ma con minore pudore, ebbe calpestato le leggi e i fedeli difensori del Potere della legge si trovarono a difendere la legge del Potere, concede la buona fede solo agli ottusi. Posso immaginare come Lei, abbandonato in prima linea con la pistola puntata alle spalle da quella scelta ormai compiuta, abbia dovuto accumulare la cattiveria necessaria per sopravvivere.

   Solo una dolorosa cattiveria poteva aiutarLa a tacere su una faccenda scottante come quello della bandiera fino al momento in cui due dei protagonisti Le dovettero ricomparire davanti soli e in condizioni di inferiorità, come "insegnanti in prova" il cui vergognoso stato di precariato attendeva conclusione da un'ultima cerimonia di "valutazione" e dalla Sua autorità. Nell’episodio della bandiera il sopruso stava tutto nel Suo atto di strappare un cartello che proponeva una pacata riflessione critica sulla cerimonia di consegna del vessillo nazionale alla scuola da parte di una associazione militare, e non evidentemente nell’averlo appeso, tanto è vero che la faccenda si era conclusa con la riaffissione del cartello. Ma ai colleghi "in prova" ricordò con una lunga, troppo lunga, paternale come solo alla Sua bontà dovevano la salvezza dalle conseguenze perniciose del loro gesto di "insubordinazione".

   L'infantilità della menzogna non La salverebbe da una giusta indignazione per la meschinità della rivalsa: a restituirLe quel diritto alla compassione che non si nega neppure agli assassini è solo il dolore della sconfitta e l'angoscia che prova Don Abbondio quando si scopre "vaso di coccio tra vasi di ferro" e capisce che la sua vita è stata irrimediabilmente decisa da un inganno.

   Non posso dimenticare la crudeltà con cui era stato colpito, proprio alle fondamenta della Sua dignità. Istintivamente presago dei pericoli insiti in una abolizione anche parziale degli spazi e dei luoghi della scuola, aveva tentato di allontanare la minaccia in nome dell’ "ordine". Ma l'immagine della democrazia e della collaborazione L’aveva costretta a concedere al comitato dei genitori la tradizionale "festa" di fine anno. E ora si era visto chiamare in causa come responsabile proprio da quei genitori per una palese violazione di quell’ordine, e neppure da parte di ragazzini, sottoposti al controllo di altri, ma da parte di sottoposti al Suo controllo. Che importanza poteva avere ciò che stava scritto sulla carta di quel cartellone di fronte alla perdita dell’onore, che poteva essere recuperato solo con la violenza e pubblicità del gesto riparatore. È la carta che segna il Suo destino, destino di carta.

   Non posso rimproverarLa di non avere visto l'audiovisivo della 2a F perché fu presentato proprio durante quella festa. Era intitolato "Ma questa È scuola?" e vi si poteva vedere, tra diapositive su gite finite nelle nuvole e incontri con strani personaggi, una serie di immagini in cui è protagonista la carta.

   Le prime foto testimoniano di barchette, cappelli e vestiti di carta e di visi di ragazzi intenti in solitudine o a coppie a un dignitoso lavoro di costruzione, poi nelle foto compaiono impacchettamenti di compagni più o meno consenzienti, poi furibonde battaglie a colpi di carta, mentre nell’ultima diapositiva, tutto il gruppo è più o meno immerso in un unico mucchio di frammenti di carta di ormai piccole dimensioni: i corpi scomposti si toccano, i visi arrossati e arruffati dalle risa e dall’affanno. Si tratta solo della documentazione di una pratica psicomotoria, frutto di reminiscenze dell’insegnante, in cui semplicemente si consegna a ciascun ragazzo un foglio di carta da pacco e lo si lascia libero di farne ciò che vuole. Quando organizzammo quel gioco non conoscevamo ancora la Sue circolari anti-incendio: il pericolo che più temevamo allora era quello di essere scoperti da Lei a occupare abusivamente la scuola fuori dall’orario scolastico. Coperti nella nostra clandestinità dalla Sua incapacità a distinguere i ragazzi della 2a F da quelli delle due prime a "tempo prolungato" e dalla complicità di quei bidelli, che senz’altro Lei avrebbe chiamato in causa per giustificare la non concessione del permesso di trattenerci il pomeriggio del mercoledì, noi quel permesso non glielo chiedemmo mai, forse non tanto per il gusto della complicità nella trasgressione quanto per il rischio reale di compromettere la possibilità di quell’esperienza in nome di quella irreprensibilità che pure tante volte ci ha difeso.

  È stato nella clandestinità di questo doppio volontariato, degli insegnanti e dei ragazzi, che abbiamo visto insieme Gli anni in tasca e Il ragazzo selvaggio e abbiamo discusso della contraddizione tra educazione e libertà con i più irriducibili dei nostri ragazzini, quelli che al mattino non vogliono "essere educati". Nascosti abbiamo giocato con le ombre dei nostri corpi e di nascosto quei ragazzi che non farebbero mai un compito a casa hanno passato ore al computer costruendo poligoni e complesse simmetrie. Di nascosto sono stati intervistati in spagnolo e hanno sentito il viaggiatore raccontare immagini di paesi lontani, hanno costruito la loro fantasia con le cannucce da bibite, hanno raccontato la propria musica e hanno intitolato il loro audiovisivo "ma questa È scuola?".

   Ma questa è scuola? La scuola che non brucia è allora quella che non c'è, che nasconde le sue tracce visibili, che tutti negheranno essere mai esistita, una scuola che esiste solo perché l'Istituzione se ne dimentica, come quella di Tella[1], sperduta sulle colline abruzzesi, scuola "fuoriluogo" di cui insegnante e bambini hanno le chiavi, chiavi della porta di una edificio che non è una scuola, chiavi del tempo e dello spazio?

 



[1]  Stefania Cornacchia, "Tempo di scuola, tempo di vita", sul n. 4/87 di CooperazioneEducativa.