Lettera aperta a un Preside Ill.mo
Sig. Preside, la decisione, anzi il bisogno, di
scriverLe questa lettera ha una data precisa. Quel lunedì mattina i marosi
della 2a F si infransero fragorosamente nell’aula come ogni
giorno, ma nell’onda di risacca che rifluì, alleggerita di borse e zaini,
verso la porta una frase galleggiava rotolando e rimbalzando sulla spuma di
voci <<Il Preside non vuole che raccogliamo la carta in
classe>>. "La carta" erano i pacchi di giornali
scompostamente ammassati in fondo all’aula che i ragazzi avevano cominciato a
portare come loro contributo diretto al finanziamento del progetto di
campo-scuola per l'anno seguente. Era lunedì mattina, ma non uno qualsiasi
per me: mentre ancora distrattamente assistevo dalla porta dell’aula al rito
quotidiano dell’entrata a scuola, tentavo, come chi ancora una volta
controlla lo splendere delle proprie gioie nello scrigno, di ritrovare dentro
di me intatta l'emozione dell’incontro dei giorni precedenti. Per
un'insegnante come me, cui Lei concede come "piacere personale" i
cinque giorni previsti dalla normativa, passare il fine settimana in
"attività di aggiornamento", con un viaggio di 500 Km e a proprie
spese, è normale, non è invece "normale" incontrare un grande
Maestro. Paul Le Bohec è una di quelle persone che
sconvolgono perché nella loro persona e nel loro lavoro, che ci si aprono
davanti in tutta la quotidianità di una realtà riconoscibile, è presente
qualcosa di più grande, che chiama irresistibilmente ciò che di grande, di
importante c'è anche in noi. E quando questo qualcosa, impaurito o
disconosciuto, dimenticato o schiacciato, emerge alla coscienza, si rimane
commossi e sconvolti. Il "metodo naturale" di Paul e di sua moglie
Jannette ripropone l'essenza del nostro essere insegnanti (e già la parola
tradisce) nel rapporto educativo tra l'adulto e la vita del bambino che
cresce. È stato il contrasto a far scattare la
soglia della reazione quel lunedì mattina, il senso di attraversare un
confine, che non è una linea ma la percezione netta di una inconciliabile
diversità. <<Ve l'ha detto il Preside in persona?>>
<<No, ce l'ha riferito la prof.>>. Dalla grandezza di Paul,
tutta intrisa della presenza eroica di Freinet, alla piccolezza di un
"capo" che teme di guardare in faccia quei ragazzi cui sa di dovere
delle spiegazioni o degli ordini. Sui "perché" che si condensarono
nella mia mente pesò senza dubbio quello che era successo poche sere prima in
Consiglio di Istituto alla mia presentazione del progetto per il
campo-scuola. Il puntuale verificarsi di ciò che avevo previsto non aveva
fatto che esasperarmi maggiormente. Nessuna critica, nessuna richiesta di
capire, solo l'ipocrita aria di compatimento con cui si anticipavano le
difficoltà, che non loro certamente, ma altri, l'Amministrazione Comunale, il
Provveditorato, il Ministro, avrebbero purtroppo sollevato come
insormontabile e fatale barriera alle velleità di un piccolo insegnante
presuntuoso. Per un attimo avevo sperato che la
meticolosità con cui Lei, unico fra tutti, leggeva il progetto, fosse un
segno di attenzione. La scrittura di quel progetto, all’inizio dettata solo
dall’esigenza organizzativa di predisporre in tempo utile certe condizioni
indispensabili, mi aveva ben presto coinvolto. Mi accorgevo, mano a mano che
tentavo di tradurre lo spirito dell’esperienza della Casa-laboratorio di
Cenci in un qualcosa che potesse coinvolgere l'Assessore alla PI di un Comune
dell’hinterland milanese, di quanto fosse importante da un punto di
vista educativo ciò che stavo cercando di rendere possibile. Ma anche mi dava
il senso di volare alto, sopra il ciarpame della scuola e del nostro fare
scuola di ogni giorno. Pensare in grande un rapporto tra scuola ed Ente
Locale in cui questo diventi interlocutore e committente di una ricerca e in
cui i ragazzi siano chiamati a una funzione vera nel tessuto sociale
della città come protagonisti di una comunicazione: sì, era la grandezza di
ciò di cui ero portatore che caricava di una tensione antica il mio sguardo a
incontrare il Suo, quando ebbe finito di percorrere quei fogli E la Sua sentenza era piombata con la
definitività del tonfo del timbro tondo della Repubblica sulla carta bollata
di un tribunale: non era regolare che il progetto fosse firmato come
Consiglio di Classe; l'argomento avrebbe dovuto essere messo all’ordine del
giorno di una riunione e risultare dai verbali. La durezza della mia
reazione, del mio attacco a Lei, aveva molto a che fare con quella tensione
interna e poco col clima della seduta: lo sconcerto dei presenti era
evidente. Così confesso che quel lunedì mattina fui
ingeneroso nei Suoi confronti: il Suo vendicarsi attraverso il boicottaggio
del progetto era solo un fantasma della mia rabbia. Mi fu chiaro quando i
ragazzi mi riferirono ciò che era stato riferito loro come Sua spiegazione:
era per ragioni di sicurezza, per il pericolo di incendi, che non si poteva
raccogliere carta a scuola. Fu soprattutto il fatto che "c'è una
circolare in proposito" ad aprirmi gli occhi. Più che rabbia era una grande desolata
tristezza quella che mi bruciava dentro quando scoppiai a ridere, una risata
recitata in cui misi tutte le mie esperienze di animazione teatrale e la mia
professionalità di animale di scuola. La perplessità dei ragazzi, già
incrinata da qualche risata empatica e incosciente, si sgretolò in lazzi sguaiati
quando nella mia evidente difficoltà a trovare fiato per le parole <<...
e voi ci credete?... ci siete cascati un’altra volta... la prof. di
lettere... quella burlona...>> emersero più eloquenti i gesti che
indicavano inequivocabili, incombenti, straripanti presenze cartacee: cartine
in mostra ai muri e in disarmo sull’armadio, dalla cui porta sgangherata si
mostravano libri e vocabolari precipitanti in valanghe sui sottostanti
ripiani inzeppati di mazzi di vecchi compiti in classe, borse rigonfie di
testi e quaderni, registri vomitanti fogli stampati, cassetti rigurgitanti
foglietti di giustificazione e pagine di dizionario, in un'orgia di
cellulosa. Ma qualcuno non rideva, preoccupato, <<Ma
allora è vero o no?>>. La recita aveva avuto successo, l'esca aveva
funzionato; <<C'è un modo sicuro per saperlo: andate a chiederlo al
Preside>>. Non ci voleva altro per far scattare la pattuglia
d'assalto con le capopopolo e l'intellettuale organico della classe. Fu così
che quella che per interposta autorità era stata una proibizione a
raccogliere la carta a scuola, nel confronto diretto con Lei divenne una
raccomandazione a non accumulare troppa carta, imballandola e portandola via
con sollecitudine. Fu la mia collega poi a raccontarmi che,
quando Lei l'aveva convocata per parlarle della faccenda, era stato il
"genitore illuminato" del Consiglio di Istituto, presente al
colloquio, ad aggiungere che del resto non valeva la pena darsi tanto da fare
con la carta per così poca resa: sarebbe stato molto più semplice raccogliere
2 o 3.000 lire a testa... Un’invidiabile saggio equilibrio governa l'azione
educativa della scuola, tra le difficoltà che temprano e gli interventi
paterni o materni che semplificano. Ma perché le difficoltà, anziché quelle
così abbondanti, varie e a buon mercato che offre la realtà, devono essere
inverosimili, artificiali, pericolose per il corretto sviluppo del pensiero
logico dei bambini e scandalose per il loro senso di giustizia? E perché le
semplificazioni devono spazzare via i passaggi intermedi, quelli che possono
fare la differenza tra un apprendimento naturale e un dizionario sconnesso di
associazioni pavloviane, o possono trasformare un progetto degli adulti per
i ragazzi in un’iniziativa dei ragazzi, vissuta in prima persona, dove
la possibilità di divenire, forse per la prima volta, artefici di un piccolo
pezzo del proprio futuro è affidato a qualcosa di effimero come la carta di
giornale?
E d'improvviso mi ero ritrovato quel pensiero nella mente... e se
davvero, in spudorato spregio alle Sue circolari, la cicca di sigaretta mal
spenta da un insegnante troppo bruscamente richiamato in classe dalla
campanella e dal dovere, superando la soglia dei 451 gradi Farhenheit,
appiccasse il fuoco a un qualsiasi pezzo di carta, clandestino o regolare,
dando il via a un incendio... che ne sarebbe di questa scuola? Di una cosa sentii subito di essere
sicuro: se bruciasse la scuola, i ragazzi si salverebbero. Loro si salvano
sempre, perché hanno gli "anni in tasca": da poco avevo visto il
film di Truffaut insieme con i ragazzi e anche nei loro commenti era
risuonata questa sicurezza. Anche degli insegnanti non mi preoccuperei più di
tanto. A scappare da questa scuola sarebbero i più pronti: è tanto che
aspettano il momento. E se c'è qualche cosa della scuola cui tengono
nonostante tutto, è qualcosa che possono portare con sé o che ritroverebbero
là fuori in mezzo ai loro ragazzi, con i quali finalmente intreccerebbero le
mani in un girotondo attorno al falò. E ciò che resta della scuola abbandonata
dalle presenze umane è la Sua scuola: a bruciare sarebbe la Sua scuola,
Preside, che è tutta di carta. Brucerebbero le Sue circolari, immense
miniature alla cui stesura dedica l'inaccessibilità del suo tempo, coinvolgendo
a volte insegnanti di passaggio in complessi problemi testuali. Strumenti di
un governo illuminato e severo o prove documentali della competenza e
affidabilità di chi è chiamato a rendere conto della propria promozione,
attraverso di esse Lei oggi impone irrevocabilmente ciò che domani, quando la
solitudine Le sarà insopportabile, troppo tardi chiederà alla nostra
collaborazione (ai rematori dalla schiena segnata dalle frustate non piace
sentirsi dire dal comandante che "siamo nella stessa barca"). Forse è la minuziosa descrizione delle
operazioni che gli insegnanti dovrebbero compiere o delle modalità secondo
cui dovrebbero compierle che Le dà l'illusione di dirigere la scuola. In
realtà la Sua carta non fa che generare altra carta e quello che Lei sta
dirigendo è un nervoso lavorio di scrittura. Se qualcosa Le riesce di
condizionare è solo l'oggetto delle ansie degli insegnanti. Non la
preoccupazione di programmare l'attività didattica per costringersi a
riflettere sui guasti della nostra faciloneria o per abbassare il livello
dell’ansia del giorno dopo, ma redigere la programmazione, magari
ricavandola da qualche manuale; non l'incombenza di verificare il proprio
lavoro per scoprire che i bambini non sono programmabili o che gli insegnanti
non hanno il coraggio di progettare se stessi, ma scrivere una
verifica, magari copiando quella dell’anno precedente con la data cambiata;
non porsi il problema di valutare i ragazzi rivoltandosi fino in fondo nella
contraddizione del giudicare se stessi attraverso gli altri, ma compilare
in duplice copia le schede dibattendosi nell’eterna diatriba se spetta a
quella azzurra o quella marrone il privilegio di essere leggibile. E forse, nel rogo Sue circolari, vampe più
vive si leverebbero da quelle citazioni della normativa con cui Lei timbra
anche la più innocua delle disposizioni: innocenti esibizioni di competenza
da sopportare con annoiata indifferenza, o autorevoli richiami da temere con
pertinente rispetto; forse offerte ai sospettosi come rassicurazioni contro
l'arbitrio e proprio per questo più brucianti quando, annullate dalla
superiore esigenza di reprimere una protesta sindacale, restano come
testimonianze di un potere tanto arrogante da poter smentire se stesso.
E brucerebbero i registri. Forse se non esistessero i registri le
assenze dei ragazzi sarebbero un fatto, invece che un segno
sulla carta. Ricorda Preside quando mi convocò per discutere su quali segni
utilizzare per distinguere le assenze di due ore da quelle di un’ora sola? Ma
quando Anna è mancata da scuola per più di un mese che cosa abbiamo fatto, io
e Lei? I registri, come le relazioni, fanno parte
solo della Sua scuola. Via, Preside, non si costringa a credere alle menzogne
del Suo stesso ruolo: gli "strumenti del proprio lavoro", quale
artigiano si scorderebbe di usarli?! Quest’anno, a dissipare i residui dubbi
che ci possa essere un nesso tra queste operazioni e l'educare o anche solo
col riflettere sull’educare, i colleghi "modernisti" ci hanno fatto
adottare un modello di registro a "griglie" predisposte: il mio
porta tra gli "obbiettivi specifici" della matematica
"incertezza nell’esecuzione delle operazioni" "lavora se
guidato" "ha molta difficoltà di memorizzare" "ricorda in
modo frammentario e con incertezza". Ma non è il fatto di essere un Suo
strumento di controllo che mi fa dire che il registro appartiene alla Sua
scuola: se Lei attraverso il registro controllasse la qualità del nostro
lavoro sicuramente saremmo coinvolti, rimessi in gioco, magari costretti a
costruirci una bravura da contrapporre ai Suoi modelli, ma quello che Lei
controlla e se il registro è compilato bene, e ciò che di noi è coinvolta è
l'abilità di capire come si compila "bene" il registro. È questo
che Lei, come un buon padre severo per il bene dei figli, ha spiegato a un
"giovane" collega che dopo cinque anni di insegnamento si
sottoponeva all’ "anno di prova" e che, facendo buon viso a cattivo
gioco, credeva di dovere in qualche modo dimostrare di essere un buon
insegnante. No, ciò che doveva temere in caso di "ispezione" (il
fantasma che turba le notti dei dipendenti P.I. a causa del loro scarso senso
dell’umorismo) era la possibilità che i registri venissero trovati non
"in ordine". Non possiamo più fingere di stupirci allo
scandalo dei ragazzi che si sforzano di trovare non la risposta
"giusta" ma quella che ha più probabilità di piacere al prof.
Uccidere la sincerità è un delitto e noi ne siamo colpevoli, con l'aggravante
del nostro ruolo educativo. All’esame di terza media un collega si opponeva
all’attribuzione dell’ "ottimo" (la farsa dei voti mascherati) a
una ragazza non perché disconoscesse la sua "preparazione" o le sue
"doti di rielaborazione personale", ma perché "non aveva
affrontato seriamente l'esame", dimostrando "un atteggiamento aggressivo
e strafottente". In sostanza ciò che ci proponeva era di dare alla
ragazza, che nella sua maturità aveva colto pienamente la contraddizione tra
educare e valutare e si ribellava al tradimento soprattutto di chi dopo aver
percorso un cammino con lei si schierava dietro il tavolo dei giudici, un
segnale punitivo nei confronti della sua sincerità: dovevamo insegnarle che è
bene fingere di accettare la finzione degli altri, fino a diventarne, come
loro, inconsapevoli. Io per conto mio, di fronte alle
"burocarte", so qual'è il nemico principale: l'ansia di chi si
sente colto in fallo, e ho imparato a combatterlo; conosco le leggi, pratico
il linguaggio burocratico, e dispongo, con l'aiuto del computer, di un
catalogo di relazioni già pronte per tutte le stagioni. Ma, un po’ per non
correre il rischio di "incartarmi" con le mie stesse mani e... un
po’ per non morire, sono più disposto a coltivare l'insofferenza per
l'inutilità coatta, giocando alle provocazioni. E no, Preside, non bari con
me: se le comunicazioni scritte che mi richiede, con la pretesa non solo
dell’obbedienza ma anche della convinzione, avessero in Lei non dico un
interlocutore ma soltanto un lettore, si sarebbe certamente accorto che tra i
miei "parametri di valutazione" figura "l'alesaggio"
mentre diversi miei alunni dimostrano di avere "problemi di
lubrificazione" o necessitano di una "regolazione delle
punterie". Perché sotterrare nella spazzatura il
talento della scrittura! Usiamolo piuttosto per aiutarci a ricostruire i
percorsi nella ragnatela, a catturare la complessità, per costringerci a non
dimenticare ciò che ogni giorno sta lì a ricordarci che la vita è
irripetibile e chiede testimoni e custodi più che insegnanti. E poi, questi
scritti veri, invece di conservarli per l'incendio, leggiamoli, leggiamoceli
in faccia!
Brucerebbero i libri di testo, Suoi questi per il diritto della
sofferenza, dopo che per loro ha rischiato ciò che preziosamente si era
costruito, giorno dopo giorno, con zelo e cattiveria: la stima dei suoi "superiori",
seccati di rischiare per causa Sua le rimostranze di qualche potente
mercante, non disposto a veder mettere in discussione un privilegio
garantito. Quei libri che sono l'essenza stessa della
cultura scolastica, scelti da un insegnante perché un altro sia costretto a
usarli, scritti per i docenti e comprati dai genitori, per la cui adozione
perfino la valutazione finale sarebbe passata in secondo piano nella scala
delle priorità; così ci disse, Preside, quando, ribelli e soprattutto irrispettosi
della Sua pace, tentammo per una volta di toglierci dal posto più scomodo,
quello di chi non ha più nessuno sotto di sé su cui scaricare le
contraddizioni. In quella seduta del Collegio dei docenti
perseguitai Lei e i colleghi amanti della pax imperialis costringendo
la Sua pignola fedeltà alla normative a sciorinare impietosamente sotto gli
occhi di tutti le contraddizioni, le storture, le assurdità di quella
operazione che avreste voluto compiere, come le piccole porcherie
inconfessabili, nel massimo di velocità e silenzio. Anche la Sua resistenza
ha un limite e, quando Le chiesi di ammettere esplicitamente la poca serietà
di tutto ciò, mi chiese sbottando perché volevo questo da Lei e che cosa ci
avrei guadagnato; <<la mia stima nei suoi confronti>>
risposi, ma Lei, che forse aveva sfiorato l'orlo della sincerità, se ne ritrasse come da un abisso scuro. Forse fu allora che scelse,
inconsapevolmente perché non Le sarebbe bastato il coraggio, tra il farsi
oppresso con gli oppressi o potente con i potenti, definitivamente. Solo più
tardi avrebbe scoperto come il Potere tratta i suoi valletti. Io non so se
Lei fosse di quelli che in buona fede credono che il Potere serva la legge;
certamente quello che successe dopo, quando il Potere, ancora una volta ma
con minore pudore, ebbe calpestato le leggi e i fedeli difensori del Potere
della legge si trovarono a difendere la legge del Potere, concede la buona
fede solo agli ottusi. Posso immaginare come Lei, abbandonato in prima linea
con la pistola puntata alle spalle da quella scelta ormai compiuta, abbia
dovuto accumulare la cattiveria necessaria per sopravvivere. Solo una dolorosa cattiveria poteva
aiutarLa a tacere su una faccenda scottante come quello della bandiera fino
al momento in cui due dei protagonisti Le dovettero ricomparire davanti soli
e in condizioni di inferiorità, come "insegnanti in prova" il cui
vergognoso stato di precariato attendeva conclusione da un'ultima cerimonia
di "valutazione" e dalla Sua autorità. Nell’episodio della bandiera
il sopruso stava tutto nel Suo atto di strappare un cartello che proponeva
una pacata riflessione critica sulla cerimonia di consegna del vessillo
nazionale alla scuola da parte di una associazione militare, e non
evidentemente nell’averlo appeso, tanto è vero che la faccenda si era
conclusa con la riaffissione del cartello. Ma ai colleghi "in
prova" ricordò con una lunga, troppo lunga, paternale come solo alla Sua
bontà dovevano la salvezza dalle conseguenze perniciose del loro gesto di "insubordinazione". L'infantilità della menzogna non La
salverebbe da una giusta indignazione per la meschinità della rivalsa: a
restituirLe quel diritto alla compassione che non si nega neppure agli
assassini è solo il dolore della sconfitta e l'angoscia che prova Don Abbondio
quando si scopre "vaso di coccio tra vasi di ferro" e capisce che
la sua vita è stata irrimediabilmente decisa da un inganno. Non posso dimenticare la crudeltà con cui
era stato colpito, proprio alle fondamenta della Sua dignità. Istintivamente
presago dei pericoli insiti in una abolizione anche parziale degli spazi e
dei luoghi della scuola, aveva tentato di allontanare la minaccia in nome
dell’ "ordine". Ma l'immagine della democrazia e della
collaborazione L’aveva costretta a concedere al comitato dei genitori la
tradizionale "festa" di fine anno. E ora si era visto chiamare in
causa come responsabile proprio da quei genitori per una palese violazione di
quell’ordine, e neppure da parte di ragazzini, sottoposti al controllo di
altri, ma da parte di sottoposti al Suo controllo. Che importanza poteva
avere ciò che stava scritto sulla carta di quel cartellone di fronte alla
perdita dell’onore, che poteva essere recuperato solo con la violenza e
pubblicità del gesto riparatore. È la carta che segna il Suo destino, destino
di carta.
Non posso rimproverarLa di non avere visto l'audiovisivo della 2a
F perché fu presentato proprio durante quella festa. Era intitolato "Ma
questa È scuola?" e vi si poteva vedere, tra diapositive su gite
finite nelle nuvole e incontri con strani personaggi, una serie di immagini
in cui è protagonista la carta. Le prime foto testimoniano di barchette,
cappelli e vestiti di carta e di visi di ragazzi intenti in solitudine o a
coppie a un dignitoso lavoro di costruzione, poi nelle foto compaiono
impacchettamenti di compagni più o meno consenzienti, poi furibonde battaglie
a colpi di carta, mentre nell’ultima diapositiva, tutto il gruppo è più o
meno immerso in un unico mucchio di frammenti di carta di ormai piccole dimensioni:
i corpi scomposti si toccano, i visi arrossati e arruffati dalle risa e
dall’affanno. Si tratta solo della documentazione di una pratica
psicomotoria, frutto di reminiscenze dell’insegnante, in cui semplicemente si
consegna a ciascun ragazzo un foglio di carta da pacco e lo si lascia libero
di farne ciò che vuole. Quando organizzammo quel gioco non conoscevamo ancora
la Sue circolari anti-incendio: il pericolo che più temevamo allora era
quello di essere scoperti da Lei a occupare abusivamente la scuola fuori
dall’orario scolastico. Coperti nella nostra clandestinità dalla Sua
incapacità a distinguere i ragazzi della 2a F da quelli delle due
prime a "tempo prolungato" e dalla complicità di quei bidelli, che
senz’altro Lei avrebbe chiamato in causa per giustificare la non concessione
del permesso di trattenerci il pomeriggio del mercoledì, noi quel permesso
non glielo chiedemmo mai, forse non tanto per il gusto della complicità nella
trasgressione quanto per il rischio reale di compromettere la possibilità di
quell’esperienza in nome di quella irreprensibilità che pure tante volte ci
ha difeso. È
stato nella clandestinità di questo doppio volontariato, degli insegnanti e
dei ragazzi, che abbiamo visto insieme Gli anni in tasca e Il
ragazzo selvaggio e abbiamo discusso della contraddizione tra educazione
e libertà con i più irriducibili dei nostri ragazzini, quelli che al mattino
non vogliono "essere educati". Nascosti abbiamo giocato con le
ombre dei nostri corpi e di nascosto quei ragazzi che non farebbero mai un
compito a casa hanno passato ore al computer costruendo poligoni e complesse
simmetrie. Di nascosto sono stati intervistati in spagnolo e hanno sentito il
viaggiatore raccontare immagini di paesi lontani, hanno costruito la loro
fantasia con le cannucce da bibite, hanno raccontato la propria musica e
hanno intitolato il loro audiovisivo "ma questa È scuola?". Ma questa è scuola? La scuola che non
brucia è allora quella che non c'è, che nasconde le sue tracce visibili, che
tutti negheranno essere mai esistita, una scuola che esiste solo perché
l'Istituzione se ne dimentica, come quella di Tella[1],
sperduta sulle colline abruzzesi, scuola "fuoriluogo" di cui
insegnante e bambini hanno le chiavi, chiavi della porta di una edificio che
non è una scuola, chiavi del tempo e dello spazio? |