Circolo Bateson - Seminario del 10-11 gennaio 2004 Roma “Il mondo dei viventi e l'etica dell'agire umano” SIAMO
RESPONSABILI DELL’EVOLUZIONE? intervento
di Marcello Sala Avendo una formazione di
tipo scientifico, sono abituato a pensare (ovvero ho come premessa
epistemologica) che il “territorio” precede la “mappa”. Come batesoniano so che fa
differenza se il territorio in questione è il mondo della materia e delle
forze piuttosto che quello dei viventi, ma so anche che, se nel mondo fisico
non valgono leggi di organizzazione (come quelle legate all’informazione)
tipiche del mondo biologico, non è vero l’inverso: nel mondo biologico
continuano a valere le leggi del mondo fisico (anche gli animali pesano e
muovendosi aumentano l’entropia). Forse questo vuol dire che
sono materialista: posso pensare a modificazioni di processi biologici
o fisici, ma esse si realizzano soltanto attraverso azioni di corpi,
flussi e trasformazioni di materia ed energia. Prendiamo i mostri: per
molto tempo sono stati il caso emblematico per un dibattito filosofico: il
fatto che io possa immaginare delle chimere non significa che esse esistano
(almeno allo stesso modo in cui esistono mio cugino o il suo cane). Per la biologia i mostri,
quelli che ogni tanto si scoprono esistere nella realtà, possono acquisire un
altro significato (anche essere “pieni di speranza”). S.J. Gould diceva che
per ricostruire la storia dell’evoluzione sono molto più utili le
“mostruosità” che gli adattamenti perfetti. Ciò significa che i mostri
esistenti si possono spiegare con le leggi della biologia, anzi che la
formulazione delle leggi deve essere modificata per rendere conto
dell’esistenza dei mostri. Il “mostro” nasce “fuori dalla natura” e muore ai
bordi di una curva a campana, all’estremo confine di distribuzione statistica
di una fenomenologia naturale; ma questo spostamento avviene nella mappa, nel
territorio il mostro era già lì. E se invece il mostro
comincia a esistere nel territorio solo dopo che è stato progettato nella
mappa? Certo, se le azioni che
materialmente lo fanno esistere possono essere agìte, significa che non
esulano dalle possibilità della natura biologica e fisica, ma c’è una
evidente salto di qualità (di livello logico). Questo salto si è reso
possibile dopo che la storia dell’evoluzione ha portato alla comparsa nella
specie umana di quelle facoltà di organizzazione della vita che noi chiamiamo
“pensiero”, “immaginazione”, linguaggio” ecc. La cultura esiste nella
realtà, dove aggiunge il suo livello di organizzazione a quello fisico
e biologico; il problema allora non è se la cultura faccia parte o no
dell’evoluzione della vita, quanto piuttosto se la tecnologia abbia superato
una soglia nel momento in cui può modificare non le leggi della natura, ma la
forma e la collocazione delle distribuzioni statistiche dei suoi fenomeni:
qualcosa, che per evoluzione sarebbe improbabile tanto da non essersi mai
verificato nei tempi della storia naturale, diventa riproducibile a volontà. Man mano che l’evoluzione
culturale accorciava di diversi ordini di grandezza i suoi tempi rispetto a
quelli biologici, la specie umana tentava di riparare a questa discrepanza
dei ritmi costruendo un mondo di artefatti e tendendo a confinarlo rispetto a
quello degli altri esseri viventi, teorizzando perfino che il mondo dell’Uomo
fosse altro dalla natura. Ma qui l’artefatto culturale è un
mutamento biologico, anche della biologia umana. Oltretutto certi
artefatti, come la clonazione, o la partenogenesi, o lo sviluppo
extracorporeo, riguardano realtà biologiche che sono alla base delle
strutture psicologiche e antropologiche come la genitorialità o l’identità. È
evidente che tutto questo crea un cortocircuito tra livelli diversi di
organizzazione della vita (culturale e biologico). La comparsa nella specie
umana delle facoltà tecnologiche avviene contestualmente a quella della
“consapevolezza” ed è questo che introduce la dimensione della
responsabilità. Per la prima volta una specie è dotata della possibilità
(potere) di interferire con la tecnologia nella biologia, e quindi la domanda
può diventare: “come intendiamo agire in merito al nostro potere di
modificare la vita?”. Ognuno
ha i suoi luoghi dove cercare risposte alle domande filosofico-esistenziali.
Quello che io frequento con maggiore assiduità e attenzione è quello dei
bambini e delle loro conversazioni. Una di esse, tra bambini di una terza
elementare, l’ho già presentata in un altro seminario Bateson; questa volta
utilizzerò solo alcune citazioni e questo mi induce a una premessa. Nel
decontestualizzare pezzi di un discorso si corre il rischio di
strumentalizzare nell’interpretare; a maggior ragione se si tratta di una
conversazione a più voci. Mi autorizzo a farlo perché le citazioni dei
bambini sono stimoli per riflessioni di cui mi assumo la responsabilità, e lo
faccio solo dopo avere cercato di “ascoltare” questa conversazione,
leggendola decine di volte, cercando di coglierne i dettagli, l’insieme, gli
intrecci testuali, gli sfondi, anche con l’insegnante della classe, Stefania
Cornacchia. Mi dispiace quando le espressioni dei bambini vengono
usate in modo folcloristico. È il vecchio “dizionario
delle castronerie” di
cui esiste una versione “pedagogically
correct”: la teoria dei “misconcetti”; teoria che può
essermi utile in un contesto di verifica scolastica di tipo disciplinare,
dove si vuole valutare la conformità dell’enunciato dell’alunno a una forma
codificata, e che ha come presupposto una formalizzazione disciplinare: quel
concetto non può essere espresso in altra forma; il che è forse vero in
talune discipline e approssimativamente corretto in altre. Ma se il discorso
assume un punto di vista genetico, la teoria del “misconcetto” non è adeguata
perché non coglie, in modo “etnografico”, il senso che una espressione ha
relativamente alla epistemologia (con la “e” minuscola), alla cultura del
soggetto, al contesto. Io
sento nella teoria del misconcetto il sapore di un’arroganza tipica degli
adulti, che tendono a considerare le idee espresse dai bambini divertenti
stupidaggini o approssimative intuizioni, a volte sorprendenti, dove la
sorpresa presuppone un giudizio di incompetenza nei confronti dei bambini in
rapporto alla competenza degli adulti. Io sostengo che questo è un bluff,
a volte piuttosto volgare, e vado a “vederlo” proprio nel campo del
sapere di cui ci stiamo occupando: la teoria dell’evoluzione. Il
quotidiano “la Repubblica” del 24 dicembre 2003 utilizza ancora una volta,
per illustrare un articolo sull’evoluzione del cervello umano, e
accompagnandola con la didascalia “la scala evolutiva della specie”,
l’immagine della “marcia del progresso”, quella che vede rappresentati in
fila da sinistra a destra una scimmia in quadupedia, una scimmia in piedi che
brandisce un osso, vari ominidi sempre più alti eretti glabri e “dal volto
umano”, fino al tipico uomo, un po’ primitivo ma sicuramente “sapiens”.
Chi conosce S. J. Gould sa quanto
egli abbia strenuamente lottato con le armi dell’intelligenza e della
competenza contro questa rappresentazione, falsa dal punto di vista
scientifico, fuorviante e fortemente ideologica; una lotta perdente se è
vero, come lui stesso racconta, che persino quattro edizioni di suoi libri la
portano in copertina per scelta degli editori. Ed ecco che cosa dicono i bambini: Giulia M – Perché, per esempio, la
scimmia si è evoluta nell’australopiteco. Leonardo, Filippo, Marco e Akira - No! Marco - Perché abbiamo visto
sull’albero genealogico che andavano così [indica due direzioni diverse
con le mani]: qui la scimmia e qui l’uomo. Ilaria - La scimmia si è evoluta
nell’uomo. Celeste – No, si è evoluta in una
scimmietta. E
ancora: […]
l’australopiteco è diventato l’habilis. Marco – No: l’australopiteco e l’habilis vivevano contemporaneamente;
forse l’habilis e l’erectus Dove si vede anche che alcuni bambini sbagliano, ma
comunque ne discutono: ciò significa che questi bambini, intesi come soggetto
collettivo, almeno “sanno di non sapere”. Ci sono altre questioni su cui gli adulti, scolarizzati
tanto da scrivere articoli sulle pagine scientifiche del “Corriere della
Sera” [1],
non sembrano avere le idee chiare: “Negli ultimi vent’anni l’obesità si è
diffusa come un’epidemia, al punto da aver modificato sensibilmente le
fattezze del corpo umano”; dove, a parte la sensazione di avere a che
fare con qualcosa che assomiglia ad un “principio dormitivo”, non si
capisce come il “corpo” di cui si parla, dal momento che non è quello di un
uomo (“nei secoli il corpo ha cambiato forma” ), ma piuttosto un’idea
di “corporeità”, possa essere modificata da cause materiali come
l’alimentazione (uno dei “fattori che concorrono a determinare le forme
del corpo”). C’è evidentemente un problema di “tipi logici” nella
attribuzione di certi fenomeni a certi soggetti: se fosse vero che “l’altezza
cresce di 1 cm ogni decennio”
anche per i piccoletti come me ci sarebbe la speranza, nella
vecchiaia, di guardare dall’alto in basso i più giovani. Neppure i bambini sanno esattamente che cos’è (anzi che
tipo di cosa è) una specie, né che cosa è una media e che
contributo possa dare nell’affrontare l’impresa, che appare paradossale, di
misurare fisicamente una entità astratta, tanto è vero che dopo questa
conversazione la classe svilupperà una ricerca sulla teoria dell’evoluzione e
in particolare sui concetti di media e di specie; ma almeno su alcuni punti i
bambini mostrano di avere già le idee chiare: Leonardo -
Filippo ha ragione: da bambino diventi adulto e cresci, quando ti evolvi
cambi specie, cambia la specie degli uomini, come l’australopiteco e poi il sapiens,
la specie uomo. […] Marco - Crescita ed evoluzione
sono due cose diverse; se no, perché hanno inventato due parole se fossero la
stessa cosa? e poi quando cresci - va beh - diventi più alto - che ne so?-
però il nome non lo cambi e dopo muori ed è una cosa tua, invece l’evoluzione
riguarda tutti gli esseri viventi. Tutto questo non risponde alla domanda del titolo, ma a
me suggerisce qualcosa in merito alla scelta degli interlocutori a cui porla:
ce ne sono di seri e altri meno. Nella conversazione i bambini non rispondono alla domanda
(anche perché non viene loro rivolta), ma è possibile cogliere alcune loro
idee che potrebbero costituire le premesse per una risposta. Nelle battute
iniziali della conversazione: Nicolò - Secondo me la Terra è
stata creata per far vivere gli uomini e far diventare tante cose più
adeguate. Nei
bambini di sete-otto anni è presente un pensiero teleologico, che del resto
ha illustri predecessori se è vero che anche Kant pensava che la vita
organica ha una organizzazione come se avesse un fine. L’idea di un fine è scientificamente inadeguata,
soprattutto nel contesto della teoria dell’evoluzione, ma i bambini non
distinguono i contesti con la consapevolezza e anche l’insensatezza degli
adulti, e allora l’idea di fine può essere interpretata in chiave etica,
perché contiene le premesse di una assunzione di responsabilità; ovvero: che
cosa comporta pensare la vita come se avesse un fine. Ancora i bambini: Akira - Noi siamo una specie
evoluta, una specie umana, come ha detto Marco… se non si era evoluta la
Terra, non c’eravamo noi: da quand’era incandescente si è dovuta evolvere e
siamo arrivati noi. C’è qui l’idea di una continuità tra storia della Terra e
storia umana e della fondamentale unità della vita; non è affatto poco per
chi nasce in una cultura che si è fondata sullo sfruttamento della natura
(Bacone: “Il fine vero e proprio della filosofia naturale è il dominio
sulle cose naturali”), reso possibile a livello etico da un cambio di
paradigma simbolico, dalla “madre natura” alla “macchina” di Cartesio. Ma c’è di più: alla hybris dell’uomo tecnologico
si contrappone qui da parte dei bambini la consapevolezza della contingenza
della storia e della stessa presenza della specie umana: Leo - Io non sono d’accordo con Nicolò: la
Terra forse si è freddata per un caso. INSEGNANTE - Tu dici che
nell’evoluzione c’entra il caso? Akira - Io sono d’accordo con Leo: è
un caso; poteva raffreddarsi in altri modi, quando c’è stato il terremoto che
ha fatto raffreddare tutto era un evento, cioè per caso. Si noti bene che il “caso” qui non è affatto
identificabile con un trascendente magico o mitico, perché si colloca entro i
limiti descritti dalle “leggi della natura”, come il II principio della
termodinamica: Filippo - Non è per caso, perché la
sfera incandescente era di fuoco, allora lo spazio è freddo e la sfera ci sta
dentro e si doveva raffreddare per forza. Il riferimento al caso significa possibilità e
imprevedibilità: Leo -
Potevamo evolverci in una maniera tale che potevamo vivere nel fuoco. Leonardo - Può darsi che ci evolviamo
ancora, in certi casi ci evolviamo. Akira - Non è che c’è una specie
di uomo e poi è finita la vita dell’uomo: per adesso dal primo essere vivente
c’è stata la vita fino a qui, adesso possiamo diventare - che ne so?-
elettronici, robot… però quello ancora non è successo; allora per evolversi
tocca aspettare del tempo. L’apparente
paradosso del termine “diventare”
riferito a quelli che ci sembrano pur sempre artefatti, come i robot,
rende bene l’idea di una tecnologia che ormai non è più uno strumento
dell’uomo ma un contesto in cui si sviluppa la vita, e comunque l’idea
che l’evoluzione dell’uomo non è più soltanto biologica ma anche e
soprattutto culturale (e quindi artificiale). E
anche qui l’imprevedibilità non è qualcosa che rimanda alla magia, un
affidarsi a qualcosa d’Altro, ma ha invece un ancoraggio molto “scientifico”: Marco - Embeh?! Certo dura tanto;
gli animali ce l’hanno l’evoluzione: è solo che non riusciamo a vederla, dura
più di mille anni; chi ce la fa a vederla?! In questa conversazione i bambini incontrano il paradosso
del cambiamento (il fiume di Eraclito in versione evoluzionistica): il
soggetto di un cambiamento, proprio nel momento in cui diventa tale,
cesserebbe di essere quel soggetto, di esistere nella sua identità.
L'espressione "diventare un altro" è paradossale sia riferita
all’individuo sia alla specie (“… quando ti evolvi diventi sempre altre
cose”, “… nell’evoluzione diventa un’altra persona, non è sempre… non
ha lo stesso nome, cambia, con l’evoluzione non è la stessa persona”,
“L’evoluzione è così: una specie diventa un’altra…”). Come affrontano questo
paradosso i bambini? Intanto, diversamente dai redattori scientifici del “Corriere
della Sera”, lo riconoscono come tale e affrontano il conflitto
cognitivo che ne nasce (“Ma un rinoceronte non si può evolvere in un
pappagallo!”, “No: ti evolvi in una cosa che non esiste ancora”). È su questo percorso che i
bambini incontrano la morte come elemento chiave dell’evoluzione (e quindi
della vita). Al di là di qualsiasi enfasi romantica o pseudomisticismo
orientaleggiante, che non appartengono loro, i bambini arrivano a comprendere il ruolo della morte degli
individui per la vita delle specie (“Un giorno moriremo
noi e nascerà un’altra cosa”) e a
ri-formulare una descrizione del fenomeno (“… la crescita è che
cresci, evoluzione è che cambi di persona, muore uno e quello che rinasce è
un po’ diverso”) che permette di uscire dal paradosso: l'evoluzione è un cambiamento che si sviluppa tra una generazione e la successiva di individui viventi. Io non so se sia corretto
salire di un “livello logico” e parlare del ruolo che la morte di una
specie può avere nella vita del pianeta Terra, né attribuirò questo
pensiero ai bambini, ma sento che questo c’entra con la domanda del titolo o
con l’altra sul potere. Ma allora forse posso
concludere con un’ultima domanda che riguarda il senso del cambiamento
evolutivo. Forse i bambini non sono consapevoli dello spessore filosofico
delle proprie parole, o forse sono io a proiettarvi significati più grandi
dei loro pensieri, ma preferisco provare ancora una volta ad ascoltare ciò
che dicono (a cominciare dalle parole che usano): Leonardo - Nicolò ha detto che se
non c’era l’evoluzione l’uomo rimaneva sempre australopiteco; e allora: a che
serve? tanto vivi lo stesso e poi muori; se non c’era l’evoluzione e sei
australopiteco, muori, perché… allora l’evoluzione che ci sta a fa’? Nicolò - …
per fare cose più intelligenti. |