PERCHé siamo come siamo Indubitabilmente
da una parte come essere umano sono in gado di imparare dal contesto in cui
vivo e dall’altra assomiglio ai miei genitori (a cominciare dal fatto che
siamo della stessa specie) e quindi eredito da loro alcune caratteristiche. é a partire da queste due diverse
evidenze che mi pongo la domanda: perché sono come sono? Questa
domanda ha alimentato un dibattito eterno che si è posto in vari modi: la nostra
natura è biologica o culturale? le nostre facoltà sono innate o apprese? ...
A parte le diverse sottolineature della dicotomia, della complementarietà o
della continuità tra le due istanze, il dibattito è sempre stato abbastanza
caricato di presupposti ideologici e al massimo affrontato con gli strumenti
della psicologia. Per
un biologo però la domanda può essere interpretata in due modi: se ci si
riferisce alla specie, stiamo parlando dei cambiamenti che hanno fatto sì che
da “primati vegetariani”, o ancora più indietro da “pesci con le zampe” si
sia arrivati, attraverso migliaia o milioni di generazioni, alla specie Homo sapiens nelle sue forme attuali.
La domanda successiva può essere: perché? E qui la parola italiana è molto
ambigua perché può significare “a quale scopo” e allora il contesto del
discorso si pone al di fuori dell’ambito scientifico e in particolare
evolutivo, oppure può significare “come effetto di quale processo” e allora
la teoria evolutiva fornisce una risposta articolando la domanda: “avere come
carattere ereditario gli occhi frontali, oppure una camminata bipede, quale
vantaggio riproduttivo, o quale vantaggio di sopravvivenza, può avere dato in
quale contesto ambientale?”. Come si vede si tratta di ricostruire una
storia. La
domanda però può essere riferita a ciascun singolo individuo della specie Homo sapiens e allora significa “com’è
che a partire da uno zigote poco distinguibile da quello di qualsiasi altra
specie animale si è arrivati alla forma umana tipica dell’adulto?” Qui il
contesto è quello dei processi di sviluppo embrionale. Charles
Darwin ha dedicato tutta la sua vita di scienziato alla domanda intesa nel primo
senso, ma non ha affatto trascurato la seconda, che considerava collegata
alla prima. I
DUBBI DEL GIOVANE DARWIN Fin
dal novembre del 1838 (Taccuino E pag. 58) Darwin era arrivato a una solida
fondazione della “sua teoria” su tre principi: l’ereditarietà, la variazione,
la competizione per le risorse. Ma egli neppure nella maturità conosceva le
leggi della variazione né dell’ereditarietà, se non quelle empiriche che gli
venivano dalla pratica degli allevatori e dalla sua stessa attività di
osservazione e sperimentazione. Nei
suoi primi lavori Darwin non ha usato la parola evoluzione perché ai suoi
tempi si soleva riferirla allo sviluppo dell’individuo. Ancor oggi la
comunicazione relativa all’evoluzione fa ampiamente uso di un linguaggio che
assume la metafora dello sviluppo dell’organismo individuale per parlare
dell’evoluzione, che invece riguarda le specie e avviene attraverso
innumerevoli generazioni. Sinceramente ho forti dubbi che i “divulgatori” di
vario tipo siano consapevoli che si tratta di una metafora, ma anche se lo fossero,
dal momento che per statuto si rivolgono a non esperti, fanno un enorme danno
occultando la dinamica specifica dell’evoluzione dietro un linguaggio che
parla dello sviluppo. Il
paradosso è che per divulgare l’idea di Darwin, spesso contrapposta a quella
di Lamarck, si usa un linguaggio lamarckiano (es. «Tiktaalik, il pesce che imparò a camminare»). Ma
già Darwin aveva individuato nello sviluppo embrionale un oggetto
privilegiato di ricerca, a partire dall’osservazione che gli animali
appartenenti a phyla
molto diversi, dai pesci ai rettili, dagli uccelli ai primati, solo una volta
sviluppatisi nell’adulto acquisiscono le differenti forme tipiche, mentre i
loro embrioni sono difficilmente distinguibili, e che questa similitudine non
può essere messa in relazione con condizioni ambientali, che sono molto
diverse (utero, uovo covato, uovo nell’acqua...). Darwin
ne L’origine delle specie, a
proposito dei problemi posti dallo sviluppo embrionale scrive, «A mio vedere tutti questi fatti possono
essere spiegati in base alla teoria della discendenza con modificazioni». Reciprocamente, quei fatti possono essere prove dell’evoluzione,
nel senso che «... la
comunanza di struttura embrionale rivela la comunanza di discendenza». In
fondo lo sviluppo è il modo con cui l’ereditarietà si concretizza, il modo in
cui un essere vivente diventa ciò che, per eredità, è: più simile ai genitori
per i caratteri di specie, meno simile per caratteri che rientrano nel campo
della variabilità intraspecifica, magari simile più al nonno che ai genitori.
Se si pensa che la ricoperta dei lavori di Mendel,
a 35 anni di distanza dalla loro pubblicazione ignorata, ha cominciato a dare
basi scientifiche all’ereditarietà all’inizio del ‘900
ci si stupisce che non ne abbia ricevuto grande impulso l’embriologia. Stava
divenendo possibile rispondere alla domanda su come l’informazione ereditaria dà luogo, nell’organizzazione
materiale dell’organismo, ai processi di costruzione della forma, nella sua
struttura e nelle sue interazioni con l’ambiente; e invece ci si è chiesti
quasi esclusivamente come è fatto e come funziona il supporto materiale
dell’informazione. Insomma è come se, sbarcando all’aeroporto di Tokio e
vedendo per la prima volta una scritta in giapponese, ci si domandasse come sono
fatte le macchine da stampa giapponesi (domanda di grande interesse per un
tipografo o uno studioso di tecnologia) e non anche, soprattutto e prima di
tutto, che cosa c’è scritto, che significa, che cosa mi ingiunge di fare o
non fare. In
effetti la biologia del Novecento ha appiattito la ricerca sull’ereditarietà
su un oggetto che in realtà è un modello e che è divenuto un feticcio: il
DNA. Del
resto la metafora deresponsabilizzante del DNA (“ce l’ho nel DNA... che ci posso fare?”) sulla bocca di persone
che non hanno la minima idea di cosa sia DeoxiriboNucleic Acid non può che essere arrivata dal
mondo della scienza. CE
L’ABBIAMO NEL DNA Questa
impostazione meccanicistica ha portato all’idea che tutto, dall’essere obesi
al tradire il coniuge, dall’essere omosessuali al saper ballare, sta
“scritto” nei geni. L’idea è che una caratteristica dell’aspetto, del
funzionamento, del comportamento dell’organismo è l’espressione di una
funzione organica, alla base della quale c’è un enzima, dotato di una specifica
struttura proteica determinata dalla trascrizione di una specifica sequenza
di basi del RNA, a sua volta traduzione di una determinata sequenza di basi
del DNA, di un gene appunto. Questa
prospettiva è quella che sta dietro al pensiero evoluzionistico della
“Sintesi moderna” della prima metà del Novecento. Se ereditarietà di un carattere (i figli assomigliano ai
genitori) è la condizione necessaria perché una variazione si trasmetta
attraverso le generazioni, è la variazione (i fratelli non sono uguali tra
loro) a permettere una sopravvivenza differenziale in un determinato
ambiente. Differenze a livello genetico determinano differenze
tra individui e queste sono responsabili della fitness,
ovvero del grado di adattamento all’ambiente. La diversa fitness garantisce una sopravvivenza e soprattutto una
riproduzione differenziale. Così, se i caratteri responsabili della diversità
di fitness sono ereditari, la
generazione seguente avrà una composizione diversa, in cui il carattere favorevole
sarà maggiormente rappresentato nella popolazione. è questo il motore della “evoluzione per selezione naturale”. Oggi però nessun biologo sosterrebbe più l’idea un gene - un enzima - un carattere:
ormai sappiamo che la massima parte dei caratteri, anche semplici come il colore
degli occhi, sono determinati dall’espressione di più geni, che un gene può
influenzare più caratteri, che ci sono geni che regolano l’espressione di altri geni, che solo una piccola parte
del DNA è costituito di geni, che non è vero che esseri viventi di più
complessa organizzazione abbiano molti più geni di esseri più semplici, che
ci sono molte più proteine che geni... Questo significa che le differenze di
fenotipi individuali, responsabili della diversità di fitness, non sono determinate semplicemente da differenze
genetiche. La metafora dell’ “informazione contenuta nei geni” nasconde più
problemi di quanti ci si illuda che faccia comprendere. L’immagine della
costruzione di un edificio in base a un progetto non ci dice che cosa
sarebbero, fuor di metafora, ovvero in un sistema di processi biochimici come
è l’organismo in costruzione, i “materiali da costruzione”, gli “attrezzi” e
le “macchine”, gli “operai”, il “capomastro” e l’ “architetto”; ma
soprattutto: come lo stesso
progetto darebbe luogo a “operazioni compiute dagli operai”. I geni si esprimono come elementi di un sistema a rete
complessa, estremamente sensibile alle condizioni ambientali (temperatura,
composizione chimica e organizzazione biochimica dell’ambiente citoplasmatico
ecc.) che sono variabili. La storia delle interazioni che in tale contesto si
sviluppano è contingente e non linearmente prevedibile nella sua interezza e
nei dettagli: si può prevedere che l’organismo non potrà allontanarsi dal
piano organizzativo della specie perché rischierebbe di non sopravvivere;
tuttavia da una stessa configurazione genetica si può arrivare, attraverso il
processo di sviluppo, a fenotipi diversi che possono avere diversa fitness rispetto all’ambiente e quindi
diversi esiti nella sopravvivenza e nella riproduzione. Tutto ciò cambia la prospettiva dell’evoluzione, che è un processo di secondo grado
rispetto a quello dello sviluppo: è una modificazione, attraverso il tempo
lungo del succedersi delle generazioni, del processo morfogenetico di modificazione
dell’organismo nel tempo della vita individuale. In
realtà ciò che viene ereditato è una configurazione di informazioni non sui caratteri del fenotipo finale, ma
sulla organizzazione dello sviluppo
di quei caratteri e su come questa organizzazione può reagire all’ambiente in
cui si sviluppa. Si
vede come i due piani, quello dello sviluppo dell’organismo e quello
dell’evoluzione della specie, che vengono confusi e sovrapposti nella
comunicazione sociale, siano distinti ma intimamente legati. Di
questo si occupa l’evo-devo. UN
LABORATORIO Ma
perché dell’evo-devo dovrebbe
occuparsi un formatore? In un ambiente culturale che, nel migliore dei casi,
semplicemente ignora l’evoluzione all’interno della più vasta ignoranza
scientifica, un ambiente che da una parte attacca l’evoluzione a suon di menzogne
per ragioni che non hanno a che fare con le dispute della scienza, bensì con
l’ideologia e la politica, dall’altra, per “divulgare”, semplifica e
spettacolarizza, senza preoccuparsi se il linguaggio usato veicola idee
scientificamente scorrette o comunque radicalmente diverse da quelle che si
dichiara di voler far conoscere, che senso ha voler affrontare una scienza
così “difficile”? La
mia risposta è che si tratta di un tentativo di rispondere a quella domanda
che un essere umano (se non guarda la TV di Berlusconi) prima o poi si pone: come e perché siamo, anzi diventiamo
quello che siamo? La
seconda risposta, più interna alla comunità dei formatori scientifici, è che,
anche se è nato molto tardi nella famiglia darwiniana, l’evo-devo può essere uno dei bandoli della matassa, uno degli
ingressi nella rete delle idee evoluzionistiche. L’evo-devo è importante perché, prima ancora di tentare di
rispondervi, pone una domanda trascurata per quasi un secolo nell’ambito
della biologia (e dell’ evoluzionismo). La
terza risposta è che, come formatore, mi piacciono le sfide educative: è
possibile costruire conoscenza su fenomeni così complessi partendo dal non
saperne niente e attraverso percorsi di tipo laboratoriale? Fare
un laboratorio significa evitare la logica della lezione, ovvero chi sa
“spiega” a chi non sa, ma si prova a riprodurre il paradigma della scienza,
in cui chi non sa cerca ipotesi di risposta a domande (lo scienziato è uno
che di mestiere non sa: infatti scopre
o inventa ciò che prima non era
conosciuto). E
allora nel caso dell’evo-devo buone
domande per cominciare ce ne sono in abbondanza: perché certi insetti hanno
le corna solo nello stadio di larva? come si sono formati gli ‘occhi’ sulle
ali delle farfalle? perché le tre specie diverse di zebra hanno le strisce di
diversa larghezza? perché alcuni insetti mutanti hanno le zampe al posto
delle antenne o 4 ali invece che 2? qual è il primo dito di una mano? perché
(questa è del giovane Darwin) i maschi hanno i capezzoli? la vescica
natatoria è l’antenata del polmone? gli uccelli sono dinosauri volanti?
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