Marcello Sala

I NIPOTINI DI DARWIN CRESCONO:

LA NUOVA SCIENZA DELL’EVO-DEVO

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formazioneambiente 

n. 59 / 2009

Legambiente onlus

 

PERCHé siamo come siamo

Indubitabilmente da una parte come essere umano sono in gado di imparare dal contesto in cui vivo e dall’altra assomiglio ai miei genitori (a cominciare dal fatto che siamo della stessa specie) e quindi eredito da loro alcune caratteristiche. é a partire da queste due diverse evidenze che mi pongo la domanda: perché sono come sono?

Questa domanda ha alimentato un dibattito eterno che si è posto in vari modi: la nostra natura è biologica o culturale? le nostre facoltà sono innate o apprese? ... A parte le diverse sottolineature della dicotomia, della complementarietà o della continuità tra le due istanze, il dibattito è sempre stato abbastanza caricato di presupposti ideologici e al massimo affrontato con gli strumenti della psicologia.

Per un biologo però la domanda può essere interpretata in due modi: se ci si riferisce alla specie, stiamo parlando dei cambiamenti che hanno fatto sì che da “primati vegetariani”, o ancora più indietro da “pesci con le zampe” si sia arrivati, attraverso migliaia o milioni di generazioni, alla specie Homo sapiens nelle sue forme attuali. La domanda successiva può essere: perché? E qui la parola italiana è molto ambigua perché può significare “a quale scopo” e allora il contesto del discorso si pone al di fuori dell’ambito scientifico e in particolare evolutivo, oppure può significare “come effetto di quale processo” e allora la teoria evolutiva fornisce una risposta articolando la domanda: “avere come carattere ereditario gli occhi frontali, oppure una camminata bipede, quale vantaggio riproduttivo, o quale vantaggio di sopravvivenza, può avere dato in quale contesto ambientale?”. Come si vede si tratta di ricostruire una storia.

La domanda però può essere riferita a ciascun singolo individuo della specie Homo sapiens e allora significa “com’è che a partire da uno zigote poco distinguibile da quello di qualsiasi altra specie animale si è arrivati alla forma umana tipica dell’adulto?” Qui il contesto è quello dei processi di sviluppo embrionale.

Charles Darwin ha dedicato tutta la sua vita di scienziato alla domanda intesa nel primo senso, ma non ha affatto trascurato la seconda, che considerava collegata alla prima.

I DUBBI DEL GIOVANE DARWIN

Fin dal novembre del 1838 (Taccuino E pag. 58) Darwin era arrivato a una solida fondazione della “sua teoria” su tre principi: l’ereditarietà, la variazione, la competizione per le risorse. Ma egli neppure nella maturità conosceva le leggi della variazione né dell’ereditarietà, se non quelle empiriche che gli venivano dalla pratica degli allevatori e dalla sua stessa attività di osservazione e sperimentazione.

Nei suoi primi lavori Darwin non ha usato la parola evoluzione perché ai suoi tempi si soleva riferirla allo sviluppo dell’individuo. Ancor oggi la comunicazione relativa all’evoluzione fa ampiamente uso di un linguaggio che assume la metafora dello sviluppo dell’organismo individuale per parlare dell’evoluzione, che invece riguarda le specie e avviene attraverso innumerevoli generazioni. Sinceramente ho forti dubbi che i “divulgatori” di vario tipo siano consapevoli che si tratta di una metafora, ma anche se lo fossero, dal momento che per statuto si rivolgono a non esperti, fanno un enorme danno occultando la dinamica specifica dell’evoluzione dietro un linguaggio che parla dello sviluppo.

Il paradosso è che per divulgare l’idea di Darwin, spesso contrapposta a quella di Lamarck, si usa un linguaggio lamarckiano (es. «Tiktaalik, il pesce che imparò a camminare»).

Ma già Darwin aveva individuato nello sviluppo embrionale un oggetto privilegiato di ricerca, a partire dall’osservazione che gli animali appartenenti a phyla molto diversi, dai pesci ai rettili, dagli uccelli ai primati, solo una volta sviluppatisi nell’adulto acquisiscono le differenti forme tipiche, mentre i loro embrioni sono difficilmente distinguibili, e che questa similitudine non può essere messa in relazione con condizioni ambientali, che sono molto diverse (utero, uovo covato, uovo nell’acqua...).

Darwin ne L’origine delle specie, a proposito dei problemi posti dallo sviluppo embrionale scrive, «A mio vedere tutti questi fatti possono essere spiegati in base alla teoria della discendenza con modificazioni». Reciprocamente, quei fatti possono essere prove dell’evoluzione, nel senso che «... la comunanza di struttura embrionale rivela la comunanza di discendenza».

In fondo lo sviluppo è il modo con cui l’ereditarietà si concretizza, il modo in cui un essere vivente diventa ciò che, per eredità, è: più simile ai genitori per i caratteri di specie, meno simile per caratteri che rientrano nel campo della variabilità intraspecifica, magari simile più al nonno che ai genitori. Se si pensa che la ricoperta dei lavori di Mendel, a 35 anni di distanza dalla loro pubblicazione ignorata, ha cominciato a dare basi scientifiche all’ereditarietà all’inizio del ‘900 ci si stupisce che non ne abbia ricevuto grande impulso l’embriologia.

Stava divenendo possibile rispondere alla domanda su come l’informazione ereditaria dà luogo, nell’organizzazione materiale dell’organismo, ai processi di costruzione della forma, nella sua struttura e nelle sue interazioni con l’ambiente; e invece ci si è chiesti quasi esclusivamente come è fatto e come funziona il supporto materiale dell’informazione. Insomma è come se, sbarcando all’aeroporto di Tokio e vedendo per la prima volta una scritta in giapponese, ci si domandasse come sono fatte le macchine da stampa giapponesi (domanda di grande interesse per un tipografo o uno studioso di tecnologia) e non anche, soprattutto e prima di tutto, che cosa c’è scritto, che significa, che cosa mi ingiunge di fare o non fare.

In effetti la biologia del Novecento ha appiattito la ricerca sull’ereditarietà su un oggetto che in realtà è un modello e che è divenuto un feticcio: il DNA.

Del resto la metafora deresponsabilizzante del DNA (“ce l’ho nel DNA... che ci posso fare?”) sulla bocca di persone che non hanno la minima idea di cosa sia DeoxiriboNucleic Acid non può che essere arrivata dal mondo della scienza.

CE L’ABBIAMO NEL DNA

Questa impostazione meccanicistica ha portato all’idea che tutto, dall’essere obesi al tradire il coniuge, dall’essere omosessuali al saper ballare, sta “scritto” nei geni. L’idea è che una caratteristica dell’aspetto, del funzionamento, del comportamento dell’organismo è l’espressione di una funzione organica, alla base della quale c’è un enzima, dotato di una specifica struttura proteica determinata dalla trascrizione di una specifica sequenza di basi del RNA, a sua volta traduzione di una determinata sequenza di basi del DNA, di un  gene appunto.

Questa prospettiva è quella che sta dietro al pensiero evoluzionistico della “Sintesi moderna” della prima metà del Novecento.

Se ereditarietà di un carattere (i figli assomigliano ai genitori) è la condizione necessaria perché una variazione si trasmetta attraverso le generazioni, è la variazione (i fratelli non sono uguali tra loro) a permettere una sopravvivenza differenziale in un determinato ambiente. Differenze a livello genetico determinano differenze tra individui e queste sono responsabili della fitness, ovvero del grado di adattamento all’ambiente. La diversa fitness garantisce una sopravvivenza e soprattutto una riproduzione differenziale. Così, se i caratteri responsabili della diversità di fitness sono ereditari, la generazione seguente avrà una composizione diversa, in cui il carattere favorevole sarà maggiormente rappresentato nella popolazione. è questo il motore della “evoluzione per selezione naturale”.

Oggi però nessun biologo sosterrebbe più l’idea un gene - un enzima - un carattere: ormai sappiamo che la massima parte dei caratteri, anche semplici come il colore degli occhi, sono determinati dall’espressione di più geni, che un gene può influenzare più caratteri, che ci sono geni che regolano l’espressione di altri geni, che solo una piccola parte del DNA è costituito di geni, che non è vero che esseri viventi di più complessa organizzazione abbiano molti più geni di esseri più semplici, che ci sono molte più proteine che geni... Questo significa che le differenze di fenotipi individuali, responsabili della diversità di fitness, non sono determinate semplicemente da differenze genetiche.

La metafora dell’ “informazione contenuta nei geni” nasconde più problemi di quanti ci si illuda che faccia comprendere. L’immagine della costruzione di un edificio in base a un progetto non ci dice che cosa sarebbero, fuor di metafora, ovvero in un sistema di processi biochimici come è l’organismo in costruzione, i “materiali da costruzione”, gli “attrezzi” e le “macchine”, gli “operai”, il “capomastro” e l’ “architetto”; ma soprattutto: come lo stesso progetto darebbe luogo a “operazioni compiute dagli operai”.

I geni si esprimono come elementi di un sistema a rete complessa, estremamente sensibile alle condizioni ambientali (temperatura, composizione chimica e organizzazione biochimica dell’ambiente citoplasmatico ecc.) che sono variabili. La storia delle interazioni che in tale contesto si sviluppano è contingente e non linearmente prevedibile nella sua interezza e nei dettagli: si può prevedere che l’organismo non potrà allontanarsi dal piano organizzativo della specie perché rischierebbe di non sopravvivere; tuttavia da una stessa configurazione genetica si può arrivare, attraverso il processo di sviluppo, a fenotipi diversi che possono avere diversa fitness rispetto all’ambiente e quindi diversi esiti nella sopravvivenza e nella riproduzione.

Tutto ciò cambia la prospettiva dell’evoluzione, che è un processo di secondo grado rispetto a quello dello sviluppo: è una modificazione, attraverso il tempo lungo del succedersi delle generazioni, del processo morfogenetico di modificazione dell’organismo nel tempo della vita individuale.

In realtà ciò che viene ereditato è una configurazione di informazioni non sui caratteri del fenotipo finale, ma sulla organizzazione dello sviluppo di quei caratteri e su come questa organizzazione può reagire all’ambiente in cui si sviluppa.

Si vede come i due piani, quello dello sviluppo dell’organismo e quello dell’evoluzione della specie, che vengono confusi e sovrapposti nella comunicazione sociale, siano distinti ma intimamente legati.

Di questo si occupa l’evo-devo.

UN LABORATORIO

Ma perché dell’evo-devo dovrebbe occuparsi un formatore? In un ambiente culturale che, nel migliore dei casi, semplicemente ignora l’evoluzione all’interno della più vasta ignoranza scientifica, un ambiente che da una parte attacca l’evoluzione a suon di menzogne per ragioni che non hanno a che fare con le dispute della scienza, bensì con l’ideologia e la politica, dall’altra, per “divulgare”, semplifica e spettacolarizza, senza preoccuparsi se il linguaggio usato veicola idee scientificamente scorrette o comunque radicalmente diverse da quelle che si dichiara di voler far conoscere, che senso ha voler affrontare una scienza così “difficile”?

La mia risposta è che si tratta di un tentativo di rispondere a quella domanda che un essere umano (se non guarda la TV di Berlusconi) prima o poi si pone: come e perché siamo, anzi diventiamo quello che siamo?

La seconda risposta, più interna alla comunità dei formatori scientifici, è che, anche se è nato molto tardi nella famiglia darwiniana, l’evo-devo può essere uno dei bandoli della matassa, uno degli ingressi nella rete delle idee evoluzionistiche. L’evo-devo è importante perché, prima ancora di tentare di rispondervi, pone una domanda trascurata per quasi un secolo nell’ambito della biologia (e dell’ evoluzionismo).

La terza risposta è che, come formatore, mi piacciono le sfide educative: è possibile costruire conoscenza su fenomeni così complessi partendo dal non saperne niente e attraverso percorsi di tipo laboratoriale?

Fare un laboratorio significa evitare la logica della lezione, ovvero chi sa “spiega” a chi non sa, ma si prova a riprodurre il paradigma della scienza, in cui chi non sa cerca ipotesi di risposta a domande (lo scienziato è uno che di mestiere non sa: infatti scopre o inventa ciò che prima non era conosciuto).

E allora nel caso dell’evo-devo buone domande per cominciare ce ne sono in abbondanza: perché certi insetti hanno le corna solo nello stadio di larva? come si sono formati gli ‘occhi’ sulle ali delle farfalle? perché le tre specie diverse di zebra hanno le strisce di diversa larghezza? perché alcuni insetti mutanti hanno le zampe al posto delle antenne o 4 ali invece che 2? qual è il primo dito di una mano? perché (questa è del giovane Darwin) i maschi hanno i capezzoli? la vescica natatoria è l’antenata del polmone? gli uccelli sono dinosauri volanti? ...