Dell'impossibilità di fare geometria in
una giornata di vento Di ritorno da una
silenziosa e attenta camminata su e giù per le colline a ovest di Amelia,
mentre tentano, sotto il portico della Casa-laboratorio
di Cenci, di far riemergere gli stivali dalle zolle di fango da cui sono
stati inghiottiti, A. e C. si scambiano le loro impressioni. A. - Mi sento bene: avevo proprio
bisogno di muovermi un po’ respirando aria pulita. La campagna è il posto
ideale per "rigenerarsi". C. - Io lo trovo il posto ideale per
meditare. A. - E hai bisogno di venire in campagna
per meditare? C. - E dove se no? è qui che è più
facile avere uno sguardo aperto. A. - Sguardo aperto? Semmai per pensare
avrai bisogno di uno sguardo acuto e penetrante come un rasoio. Ma io ne ho abbastanza:
io ho bisogno di sgombrare la mente, di farla riposare. C. - Parliamo di due cose diverse. A. - È probabile; e io non voglio
lasciarmi trascinare in un'altra discussione... Hai visto che cielo? C. - Mai visto tanti cieli nell'arco di
un solo pomeriggio! A. - Ogni pochi passi e ogni pochi
secondi era un paesaggio diverso. Hai visto quella grande massa di nembi neri
che racchiudeva un nucleo di cumuli bianchi? C. - E tu hai visto là quell’azzurro
nuovo al mondo affacciarsi dallo strappo nelle nubi grigie, per nulla
commosse dal suo colore? A. - E quella macchia di bosco confinata
su un rialzo, grigia un attimo prima e poi variegata di bruni fino all’ocra
pallido, al viola, al rosa antico... C. - E la casa solitaria avvampare di
rosso nell’ombra dei lecci bruni davanti al cielo di pioggia, che concede solo
una striscia di luce a segnare il confine tra terra e cielo... A. - E di nuovo giù per il sentiero; una
svolta, e la luce che perde d'improvviso colore: non solo l'orizzonte è
chiuso dal versante in ombra della vicina collina, ma il cielo è ingombro di
nubi basse, più cupe dove il lampo le attraversa... C. - E la rocca di Amelia, bianca di
mura antiche, illuminata da un faro nascosto davanti a una lastra di
piombo... A. - E i campi illuminati di grano nuovo
adagiato sul fondo della valle fino al crinale della collina, e al di là la
grigia minaccia del temporale... C. - E la rocca di Amelia, scura di
vecchie mura consumate nell'ombra, su un fondale giorgionesco
di cirri abbaglianti... A. - E poi ti giri e di nuovo sei
nell'ombra, ma la strada bianca si allunga vicino al vecchio casolare, dove
le pietre hanno la materia dei licheni e le luci non possono più essere dure
e nette, e anche i campi intorno sono meno cupi nell'ombra, come promettono
di essere meno scintillanti nel sole... C. - E la rocca di Amelia, improbabile
parto nebbioso delle limpide colline antistanti, in un terso intervallo di
cielo... A. - E la rocca di Amelia, come un
intarsio di lucidi materiali compositi su uno scenario di cumuli di grigi
lacerati da limpide ventate di azzurri... C. - E non c'è un unico sole a dare al
cielo un unico tono di colore, un'unica sostanza di luce, ma ogni nube, ogni
zolla del cielo, come ogni lembo della terra ha i colori di una sua propria
luce. È il vento il grande regista bambino, che spostando e reimpastando continuamente le nuvole gioca con fondali e
quinte, creando situazioni di luce e colore sempre diverse. A. - Anche noi, camminando, cambiavamo
continuamente direzione: così le posizioni relative della fonte di luce,
degli schermi, e di noi osservatori variavano continuamente, ricombinando la
disposizione degli oggetti in luce e degli oggetti in ombra. C. - Lo spazio visivo è uno spazio
mutevole. A. - Certo: è solo la coordinazione dei
punti di vista, la possibilità di pensarli tutti e quindi di relativizzarli
che crea uno spazio oggettivo, cioè indipendente dall’osservatore. C. - Oggettivo? Hai appena sostenuto che
questo spazio esiste solo se lo vedono in tanti contemporaneamente, se
riescono a comunicarsi le loro percezioni e a farle coincidere, oppure se io
lo vedo tante volte da tanti punti diversi, e quindi in tanti momenti diversi
e se poi riesco far coincidere nel presente del mio pensiero tutti questi
ricordi... una vera orgia di miracoli coincidenti: e tu lo chiami oggettivo! A. - Ci siamo! Se vuoi provocarmi...
Quando tu dici che lo spazio visivo è uno spazio mutevole non ti riferisci
forse all’esperienza del tuo campo visivo che col passare del tempo viene a
contenere oggetti diversi? C. - Sì. A. - E ciò non avviene perché c'è un
movimento relativo tra questi oggetti e te che li osservi? C. - Sì. A. - Il movimento è un mutare di
posizioni, e come sarebbe possibile parlare di un mutare di posizioni se non
assumendo un riferimento immobile? C. - E quale sarebbe questo riferimento?
Perfino la terra, da Galileo in poi, si muove! A. - Se vuoi fare il sofista a tutti i
costi... Quando cammini hai comunque il senso di cose che si muovono
"dentro" un paesaggio che resta fermo. È una sensazione come
dire... originaria, primordiale. C. - Oh, il razionalista che fa appello
alle "sensazioni"! È buffo che sia io a doverti invitare ad essere
meno superficiale, ad andare al di là degli stereotipi della percezione
globale: che cosa esattamente sta fermo in un paesaggio? Non il cielo che pure
ne è la parte più rilevante quantitativamente. Oggi il fenomeno era così clamoroso
per via del vento e delle nuvole, ma potresti ancora sostenere che in mancanza
di nuvole l'aria è ferma? sarebbe come sostenere che lo spazio sopra la terra
è vuoto perché non si vede l'aria. Non sono fermi gli esseri viventi... A. - Già, perché le piante si spostano:
la mattina non trovi più l'orniello perché se n'è andato nel bosco a trovare
i parenti! Se gli uccelli che si spostano ritrovano il nido è proprio perché
ci sono elementi che mantengono inalterate le loro posizioni relative. C. - Io ti invitavo ad essere analitico.
Devi dunque ammettere che, ad esempio, a rimanere inalterata non è la
distanza tra due piante, ma tuttalpiù tra le loro
parti non mobili... A. - Non sarò così ingenuo da cascare
nel tuo tranello: ora mi dirai che però non esistono parti non mobili nelle
piante. C. - Certo, a meno che tu non voglia
ignorare la crescita o la degradazione biologica. E non voglio fare torto
alla tua scienza pensando che tu ritenga quantitativamente trascurabili
questi movimenti, come se esistesse una soglia sotto la quale il movimento
non è più tale. A. - Grazie della fiducia: infatti non
cercherò nella terra altri candidati all’immobilità perché tu mi tireresti in
ballo i movimenti sismici o l'erosione. Ma il punto è un altro: tu stai
sostenendo che tutto si muove rispetto a qualcos’altro, e neghi che esista
uno sfondo fisso, un contenitore immobile; ma devi ammettere che le tue osservazioni
presuppongono un osservatore che è il centro di un sistema rigido di riferimenti...
aspetta: lo so che l'osservatore non può starsene sempre fermo, ma è in grado
di tenere conto dei suoi spostamenti e di operare su di essi col pensiero in
modo da costruire una rappresentazione dello spazio stabile, uno spazio
"assoluto". C. - Vedo che finalmente parli di
"rappresentazione" dello spazio. A. - Non intendevo affatto tenere
nascosta la cosa: per me una rappresentazione dello spazio su cui è possibile
effettuare operazioni con il pensiero è una grande conquista. Il bambino
parte da un vissuto spaziale limitato alla propria azione sugli oggetti o ai
propri campi percettivi e solo grazie a graduali accomodamenti riesce a
decentrarsi relativizzando il proprio punto di vista e a coordinarlo con
altri. Il raggiungimento di una rappresentazione stabile è anche la
condizione perché gli uomini possano comunicare e operare concretamente nello
spazio che li circonda. Senza un progressivo distacco dall’
"oggetto" - spazio saremmo autistici e impotenti. C. - Hai detto bene: separarsi, porsi
"fuori". Se c'era una cosa chiara oggi mentre camminavo con lo
sguardo aperto era che stavo "dentro" lo spazio (e con ciò ho
capito anche a cosa serviva il camminare). La sensazione era forte abbastanza
per capire che anche fermandomi non ne sarei uscito, benché da fermo la testa
più facilmente riprende il sopravvento con i suoi fantasmi. Io sono parte
dello spazio e lo spazio è in me. Non esiste lo spazio senza di me, non
esiste lo spazio "vuoto". Einstein non ha scoperto che gli oggetti
curvano lo spazio, che cioè lo spazio non può essere astratto dagli oggetti
che lo popolano? Sono le cose che costituiscono lo spazio, e le cose sono in
movimento, e lo spazio che costruiscono le cose in movimento è mutevole, e
una svolta del sentiero che percorro muta lo spazio. La comparsa di Venere e Giove, che si
precipitano con incrollabile lentezza verso il loro appuntamento a occidente
sposta la loro attenzione su altre dimensioni dello spazio e del tempo. Ma l'indomani, nell'ampia
biforcazione dell'ornello, che pare essere cresciuta come una provocazione o
un invito perché qualcuno vi si sieda comodo e sicuro, A. e C., con lo
sguardo abbandonato lontano, attraverso la veletta luminosa dei germogli intessuti
nella scorza dei rami, riprendono il loro dialogo. A. - Sto ancora pensando ai cieli di
ieri. Non ho mai rimpianto tanto di non avere la macchina fotografica: è un
peccato non poter fissare quelle immagini, non poterle trattenere al di là
dell’attimo sfuggente. C. - Io invece sono contento di non
averla avuta. A. - Cosa mi tocca di sentire: il
"mirino sinistro di dio" che rinuncia a quelli che sarebbero stati
i più bei cieli della sua collezione fotografica! C. - Sono contento di non aver avuto la
macchina, proprio perché la carne è debole. Fotografare vuol dire ritagliare,
selezionare, cercare le proprie forme, insomma starsene fuori a guardare... e
non vedere. E invece sono contento di avere visto. A. - A proposito di guardare, ieri
camminando pensavo che lo sguardo è il miglior modello della linea retta, del
segmento di retta. Un qualsiasi "percorso" rettilineo da un punto a
un altro punto presuppone un movimento che, per quanto veloce sia, impiega un
tempo, richiede un qualcosa che lo percorre, e che nel momento in cui è lì
non è più qui: in questo modo ciò che è rettilineo è una traccia lasciata dal
percorso e non il percorso. Lo sguardo invece è la retta
contemporaneamente presente in tutti i suoi punti. E poi lo sguardo ha anche
il vantaggio di avvicinarsi all’ente geometrico "segmento" più di
qualsiasi traccia visibile, perché più astratto, privo di qualsiasi
materialità, privo di qualsiasi altra dimensione che non sia la lunghezza e
la direzione. Perfettamente astratto eppure presente al vissuto di chiunque
in qualsiasi momento. C. - Già: vissuto e inesistente. A. - Se ti conosco bene, questo è
l'inizio di un tentativo di cogliermi in fallo, perché lo sguardo non è una
realtà fisica che origina dagli occhi, ma la visione si basa sulla luce che
entra negli occhi. Credo che il mio discorso sui modelli della retta non cambia
se al termine sguardo sostituirò "raggio di luce". C. - Cos'è, fai il rappresentante di
cose che non esistono ed esibisci il campionario? Ti ricordo che qualcosa che
assomiglia al "raggio di luce" esiste solo da pochi anni con il
laser, eppure i fisici non hanno certo aspettato adesso per teorizzarne e per
riempire libri interi di righe nere riflesse e rifratte. A. - Fare la "pars destruens" ti è particolarmente congeniale, e
non ti sarà difficile trovare sempre qualche particolare inesatto in ciò che
dico, ma se cerchi per un attimo di cogliere la sostanza del mio discorso... C. - D'accordo, scusa. Il centro del tuo
discorso era l'esperienza della "rettilineità"
attraverso la visione - no?-. Il fatto è che per me né lo sguardo né la luce
sono rettilinei. A. - Non dirmi che hai imparato a vedere
"curvo"! Pensa ai vantaggi: guidare in montagna, copiare il compito
dal compagno davanti... C. - Incasso il sarcasmo: ora siamo
pari. Io intendevo riferirmi proprio alla mia esperienza, che non è però
quella della curva, bensì dell'onda. A. - Non ti basta una curva: vuoi
addirittura una successione di curve e controcurve!. C. - Ecco di nuovo i tuoi stereotipi da
semplificazione libresca dell’astrazione. Non parlo del disegno di un onda
come appare in un grafico cartesiano tempo-spazio, ma di quella emissione di
energia che origina da una sorgente e si propaga su superfici sferiche. È
questo il modo di diffondersi della luce del sole o no? A. - Si, ma quando si parla dei
"raggi" di sole e dello sguardo... C. - ...i raggi esistono solo quando uno
schermo forato impedisce alla luce solare di espandersi sfericamente; e allo
stesso modo è uno schermo percettivo che può limitare lo sguardo. A. - Non vorrai dirmi che anche lo
sguardo "si espande"; tutti facciamo l'esperienza del fissare lo
sguardo su un oggetto per vederlo. C. - Nella camminata di ieri non era lo
sguardo a definire una direzione; tuttalpiù era il
vento che orientava il mio corpo, che mi dava il senso di un "da" e
di un "verso" che però erano veri solo nel punto e nell’istante in
cui lo percepivo. La mia esperienza dello sguardo è stata invece quella di
una energia che quando è libera si espande in onde concentriche verso l'orizzonte.
E l'orizzonte poi non è che una delle superfici d'onda: che cosa può impedire
una ulteriore espansione? A. - Non posso credere che non esista
una direzionalità tra sguardo e oggetto; tanto è vero che quando l'oggetto è
grande rispetto al campo visivo gli occhi devono compiere dei velocissimi
movimenti per spostare la fissazione dello sguardo da un punto all'altro
dell’oggetto. C. - Pensa alla calamita: l'azione
esercitata dalla calamita su un oggetto di ferro ha fatto teorizzare ai
fisici una forza di attrazione tra la calamita e il ferro che ha la direzione
del segmento congiungente. È stata poi la stessa scienza fisica che a un certo
punto della sua storia ha "scoperto" che al fenomeno andava data la
tridimensionalità di un campo di energia diffuso attorno alla calamita: la
presenza dell’oggetto di ferro in un punto rende solo visibile il campo e il
suo orientamento in quel punto. Mi chiedo come veniva considerato chi prima
osava dire che l'attrazione magnetica non si sviluppava in linea retta. Così
la presenza di un oggetto attira lo sguardo e, rendendo evidente l'interazione
occhio-oggetto, nasconde ai nostri occhi (perdonami il gioco di parole)
l'interezza del "campo dello sguardo". A. - Ma allora quale esperienza ci può
essere della retta, o del punto, o, a questo punto, di qualsiasi ente
geometrico? A darti retta (perdonami il gioco di parole) non vi sarebbe nesso
tra il vissuto dello spazio e la geometria, e ciò significa che essa apparterrebbe
totalmente al dominio dell’astrazione, sarebbe pura matematica, come
sostengono i razionalisti duri alla Hilbert. Per
chi come noi la insegna ai bambini e per di più cerca di essere rispettoso
dello sviluppo naturale della loro intelligenza mi sembra che la conclusione
sia: non si può fare geometria con i bambini. C. -
Non essere tragico: non si può... nelle giornate di vento! |