Marcello Sala

DISCENDIAMO DAVVERO

DALLE SCIMMIE?

-pubblicato in- 

IL CALENDARIO DEL POPOLO

n. 741  maggio 2009

Teti Milano

 

 

“La scienza va dritta e veloce per la sua strada; ma le rappresentazioni collettive non stanno al passo, sono arretrate di secoli, mantenute stagnanti nell'errore dal potere, dalla grande stampa e dai valori d'ordine” 

(Roland Barthes, Miti d’oggi, 1957)

Se sostituiamo TV a “grande stampa” temo che le  parole di Barthes siano di grande e tragica attualità.

Nel caso di Darwin di secolo ne è passato uno e mezzo e le rappresentazioni collettive dell’evoluzione sono davvero ferme a prima della rivoluzione darwiniana e la parola rivoluzione, con l’aiuto di Barthes, forse ci aiuta a capire perché.

Da un certo punto di vista attribuire uno spirito rivoluzionario a un benpensante conservatore come Sir Charles Darwin può essere paradossale, ma non si può negare che Darwin ha proposto nuove rappresentazioni che sovvertivano i principi dell’ordine sociale del suo tempo (come avevano sicuramente sovvertito i suoi).

LA RIVOLUZIONE DARWINIANA

Dire che l’adattamento era l’effetto e non la causa, “causa finale” la chiamava Aristotele, del cambiamento delle specie è un ribaltamento di 180 gradi di prospettiva, in questo senso una rivoluzione Una causa finale, un fine, inevitabilmente richiede un soggetto che, per quel fine, opera dei cambiamenti. Se a cambiare è il mondo naturale, questo soggetto non può che essere una divinità che alla natura è sovraordinata in quanto potenza creatrice; perciò l’eliminazione del fine porta a due possibili soluzioni: o la natura si identifica con la divinità (il Dio immanente di Spinoza) o la natura è retta da leggi di funzionamento e non da fini che presuppongono una mente trascendente.

L’abbandono del finalismo è già presente nei Taccuini segreti che Darwin scrive appena tornato dal suo viaggio attorno al mondo nel 1838. A ciò è legata una critica “tecnica” del creazionismo, che all’epoca era una idea di sfondo condivisa dagli scienziati naturali tanto che nessuno poneva il dubbio se fosse o no “scientifica”:

“Quando uno vede i capezzoli sul petto di un uomo, non dice che abbiamo un qualche uso... Se si trattasse di una semplice creazione, di certo sarebbero nati senza” (Taccuino B)

La critica di Darwin consiste nel “falsificare” sulla base di osservazioni il creazionismo come spiegazione della natura. Ma è da un punto di vista epistemologico che Darwin è insoddisfatto di quella che gli appare come una non spiegazione:

In passato gli astronomi avrebbero potuto affermare che Dio dispose affinché ciascun pianeta si muovesse seguendo il proprio particolare destino – allo stesso modo Dio dispone che ciascun animale sia creato con una certa forma in una certa regione. Ma quanto più semplice e sublime sarebbe una forza per cui, agendo l’attrazione secondo certe leggi, tali siano le inevitabili conseguenze, essendo creato l’animale, tali saranno i suoi successori secondo le leggi prefissate della generazione!” (Taccuino B).

L’affermazione che le cose sono così perché così Dio le ha create non dice nulla a uno scienziato, ovvero a chi per mestiere si domanda come e perché: quelle che a Darwin interessano sono le “cause intermedie”.

Indipendentemente dalla “verità” dell’esistenza di Dio, qualsiasi discorso umano su Dio, per esempio l’attribuirgli la qualità di “creatore”, è una rappresentazione culturale della divinità. Eccone alcune:

“Dio ha creato l’uomo subito dopo gli animali... l’ha fatto un po’ peloso perché così poteva essere amico degli animali… dopo un po’ Dio ha tolto il primitivo e ha creato quello normale...  era brutto, gli piaceva poco, era anche un po’ storto! [1]

“Dio… avrà pensato che... quegli animali lì erano un po’ troppo pochi, e per farli diventare di più, ha messo in moto l’evoluzione”.

Quest’ultima, di un bambino di 8 anni, condivide con Darwin un’immagine di Dio che non corre dietro alle sue creature momento per momento,  ma “mette in moto”, una volta per tutte, un meccanismo, una dinamica di cambiamento che ha le sue leggi.

Nel 1838 Darwin è credente e la sua contestazione scientifica del creazionismo è un modo per non dare di Dio una rappresentazione volgare:

“Il Creatore ha continuato a creare animali con la stessa struttura generale dai tempi delle formazioni del Cambriano? Concezione miserevole e limitata” (Taccuino B).

Vent’anni dopo ne L’Origine delle specie prevarranno (sicuramente dal punto di vista quantitativo) le confutazioni “tecniche” della creazione, forse perché Darwin è ormai oltre la svolta della sua vita personale, quando l’osservazione della natura e soprattutto la morte della piccola figlia Anna, più della lettura di Malthus, non gli permettono più di credere a una natura che testimonia la benevolenza del Creatore.

Della portata rivoluzionaria del suo naturalismo Darwin è ben consapevole, se è vero che nel 1844 scrive all’amico Joseph Hooker che rendere nota la propria idea sarebbe “come confessare un delitto”.

UN GIOCO SPORCO

E infatti, quando lo fa nel 1859, le reazioni sono violente. Da subito il gioco si fa sporco, attraverso la deformazione delle idee evoluzioniste; e si gioca sul terreno delle rappresentazioni.

La teoria di Darwin ha nelle sue radici l’idea dell’antenato comune come spiegazione delle omologie profonde nell’organizzazione dei viventi; ma gli oppositori di Darwin la rappresentano con “l’uomo discende dalla scimmia”. è un modo sicuro per rendere inaccettabili le idee evoluzioniste al pubblico vittoriano, che del progresso umano, preordinato dal Creatore, cui per questo si manifesta devoto, e culminante nell’ “Homo britannicus imperialis” fa il proprio paradigma culturale [2].

La frase “l’uomo discende dalla scimmia” è diventato un luogo comune, vale a dire una di quelle “verità” che sono tali non perché frutto di una esperienza accessibile e condivisa, o documentate in modo inoppugnabile, o filtrate da un processo critico, ma solo perché fanno parte della cultura che un gruppo sociale condivide e che quindi ogni nuovo membro della comunità “assorbe” inconsapevolmente e finisce per ritenere appartenenti alla “natura umana”.

Questa rappresentazione linguistica ha anche un corrispettivo a livello di immagine in quella che Stephen J. Gould chiama “la marcia del progresso”. Si vedono uno dietro l’altro da sinistra a destra, una scimmia sulle quattro zampe, uno scimmione bipede ma curvo e poi via via ominidi sempre più alti ed eretti, sempre meno pelosi, sempre più somiglianti all’uomo attuale, fino all’ultimo a destra, che è sempre rigorosamente maschio e bianco. A volte il penultimo a destra, capellone tozzo e decisamente brutto d’aspetto, è l’uomo di Neanderthal.

ominidi-6Dal punto di vista scientifico l’ipotesi di una evoluzione lineare è defunta negli anni ’60 del Novecento con i successivi ritrovamenti in Africa: la presenza contemporanea di più specie di Ominidi o addirittura di Homo in strati fossili documenta che l’evoluzione umana, come quella di qualsiasi altro gruppo di viventi, ha una struttura ramificata e non lineare.

L’idea di un progresso dell’umanità è profondamente radicata [3]. In un articolo di presentazione di un libro fortemente antidarwiniano la difesa del darwinismo scientifico è affidata a un insegnante liceale di latino e greco, specialista di mitologia greca e di cinema [4], collocazione professionale che non garantisce la sua competenza scientifica, ma che ben rappresenta la cultura italiana. La sua “difesa” si basa sull’idea che nulla è positivo quanto il sentimento del passo avanti, del migliorare”. L’idea è rispettabile in sé, una "iconografia della speranza" come la definisce Gould, verso la quale si può essere umanamente indulgenti, ma, se il contesto è quello di un discorso scientifico, occorre anche chiarire quale rapporto (non) ci sia tra progresso ed evoluzione:

“... molte delle nostre immagini sono incarnazioni di concetti mascherate come descrizioni neutre della natura. [...]. Suggerimenti per l’organizzazione del pensiero vengono trasformati in regolarità stabilite in natura. Congetture e supposizioni diventano cose. Le iconografie dell’evoluzione tendono tutte - a volte rozzamente, altre volte in modo più sottile - a rafforzare un’immagine confortevole dell’inevitabilità e superiorità umana. La versione più forte – quella della catena dell’essere o della scala del progresso lineare – ha una storia antica, pre-evoluzionistica. [...] La marcia del progresso è la rappresentazione canonica dell’evoluzione: l’unica immagine che venga afferrata immediatamente e compresa visceralmente da tutti.” (S.J.Gould, La vita meravigliosa,).

Darwin vive in un ambiente culturale dominato dal paradigma del progresso:

“Il progresso, quindi, non è un accidente, ma una necessità. La civiltà non è un prodotto dell'arte, ma è parte della natura...” (H. Spencer, Social Statics, 1851)

Ma sul progresso Darwin la pensa molto diversamente da Spencer:

“La selezione naturale, o sopravvivenza del più adatto, non comporta necessariamente uno sviluppo progressivo – essa si limita a trarre vantaggio da quelle variazioni che si manifestano spontaneamente e risultano vantaggiose per ciascun vivente nei suoi complessi rapporti con l’ambiente” (L’origine delle specie, 1872).

Un pensatore in controtendenza, solo contro tutti? Darwin è uno scienziato naturale e qui sta esercitando la sua professione che, pur essendo immersa nell’ambiente culturale della società, costituisce anche un contesto specifico.

"In parte eliminando i meno sviluppati e in parte sottoponendo i sopravvissuti all'incessante disciplina dell'esperienza, la natura assicura lo sviluppo a una razza che sia in grado di comprendere le condizioni di esistenza e insieme di agire su di esse."

Sono parole di Spencer e non di Darwin e risalgono al 1851, prima de L’origine delle specie: è bene tenerlo presente.

ANCORA E SEMPRE IL NONNO SCIMMIA

A pag. 26 de Il Giornale di Lunedì 3 dicembre 2007, la presentazione del libro della moglie di Alberoni [5] Il Dio di Michelangelo e la barba di Darwin inizia così: “Discendiamo davvero dalle scimmie?”. Come risulta chiaro dal testo dell’articolo, si tratta di una domanda retorica che serve ad attribuire ai “cattivi maestri della ‘darwinolatria’ ”  l’idea che “I nostri progenitori erano scimpanzè”.

La teoria dell’evoluzione ci dice che le scimmie, nel senso degli animali che noi attualmente conosciamo, in particolare i primati come gli scimpanzè, non sono gli antenati dell’uomo, ma suoi “cugini”, ovvero animali che hanno con gli uomini antenati comuni. Ma l’uomo ha antenati comuni anche con i topi e le banane, come si deduce dal fatto che condivide con il topo l’85% e con la banana il 40% della sequenza nucleotidica del DNA. Tutto sta nel determinare quanto questi antenati comuni siano lontani nella successione delle generazioni e quindi nella genealogia dei viventi: oggi sappiamo che quelli con le scimmie antropomorfe sono vissuti 7 milioni di anni, 200-300 mila generazioni, fa.

Sono passati 150 anni, ma la prima mossa retorica contro Darwin e l’evoluzionismo è sempre la stessa: deformarne le rappresentazioni. E anche la seconda è come da copione; l’articolo citato infatti così prosegue:“La selezione naturale secondo la legge dell’evoluzione va applicata anche per sopprimere i più deboli, i meno fortunati, gli handicappati, magari prima che nascano?”, dove si tracciano legami arbitrari tra selezione naturale - selezione eugenetica – aborto, per rendere le presunte teorie evoluzioniste inaccettabili; l’evidente evocazione del nazismo viene esplicitata poco più avanti nell’articolo dalla Alberoni: “non è un caso che il darwinismo abbia prodotto aberrazioni come il razzismo, il classismo, l’eugenetica, il peggior capitalismo, la discriminazione biologica”.

Per l’evoluzionismo darwiniano tutti gli uomini hanno un antenato comune con le scimmie e tutti gli uomini hanno una comune origine africana.

Negli stadi di calcio uno degli insulti razzisti più usuali rivolti a giocatori di colore consiste nell’imitare atteggiamenti scimmieschi.

 



[1]  Questa citazione di un bambino di 7 anni e la seguente sono tratte dalla tesi di dottorato di Laura Toneatti (Università degli studi di Padova, indirizzo di “Psicologia dello sviluppo e dei processi di socializzazione”). 2008.

[2]  é dell’arcivescovo Wilberforce, nella leggendaria disputa del 1860 a Oxford con Thomas Huxley, la sarcastica battuta “discende da una scimmia per parte di suo nonno o di sua nonna?”.

[3] L’immagine della “marcia del progresso” è utilizzata come illustrazione dell’evoluzione perfino nella sezione ad essa dedicata nella Città della Scienza di Napoli, uno dei “poli scientifici di eccellenza” in Italia.

[4]  Ezio Savino.

[5]  Non è un rigurgito di sciovinismo maschilista da parte mia: è la signora Rosa Giannetta che per la pubblicazione dei suoi libri usa il solo cognome del celebre marito.