Marcello Sala

IL PRENDERSI CURA

NEL DISPOSITIVO FORMATIVO

-pubblicato in-

RIFLESSIONI SISTEMICHE

n. 7 / 2012

AIEMS

Sommario

L’ “arte di (non) insegnare” come modalità del prendersi cura di una co-costruzione di conoscenza autoorganizzata – Un esempio di conduzione di una conversazione scientifica e di una rielaborazione critica nel contesto della formazione dei formatori – La costruzione del contesto – Spiazzamento e dimensione critica come elementi di cura - La pertinenza della dimensione epistemologica - L’idea di dispositivo formativo.

Parole Chiave

Ascolto, autoorganizzazione, autopoiesi, conoscenza, conversazione, dispositivo, formazione dei formatori, “giochi linguistici”, perturbazione, setting, spiazzamento, ricerca-azione.

 

Quando uso il termine “ascolto”, riferendomi alla professionalità dell’insegnante, spesso l’interlocutrice/tore lo recepisce come se stessi parlando di un atteggiamento essenzialmente relazionale; in questo senso il termine viene accostato ad “accoglienza”. Personalmente ritengo che faccia parte dell’accogliere una persona che viene “da fuori” l’offrire riposo, ristoro, benevolenza, sicurezza... tanto quanto esplicitare le “regole del gioco” in cui entra, regole di convivenza, usi, linguaggi, norme..., perché altrettanto necessarie per vivere bene in quel contesto. C’è dunque un aspetto cognitivo e pratico fondamentale che non può essere separato da quello relazionale, né ridotto ad esso.

Io penso all’ “ascolto” più come a una tecnica etnografica: cercare di capire l’altro attraverso le sue categorie culturali, che però posso conoscere solo ascoltando, in una circolarità che richiede specifiche competenze. Il riferimento al mestiere dell’antropologo non è per me una metafora: di solito si pensa che i bambini, finché non si compie il processo di inculturazione, siano privi di cultura: io invece mi sono convinto che sono portatori di una cultura altra, diversa dalla mia di adulto e che quindi solo cercando di comprenderla posso essere per loro un “coltivatore culturale” e non un “colonizzatore” (queste sì metafore del mestiere dell’educatore).

“Noi non sappiamo metterci al posto del fanciullo; anziché penetrare nelle sue idee, gli attribuiamo le nostre e, per seguire il filo dei nostri ragionamenti, mediante concatenazioni di verità gli riempiamo la testa di stravaganze ed errori.” (Jean Jacques Rousseau, 1997, pag. 216)

Ricordando che in greco arte si dice tèchne, l’aspetto delle competenze “tecniche” implicate dall’ “ascolto”  introduce il primo degli sfondi teorico-pratici su cui vorrei collocare il mio discorso, quello de “l’arte di (non) insegnare”.

L’arte di (non) insegnare

La propongo qui come modalità specifica del prendersi cura in ambito educativo, ma ho già avuto occasione di scriverne (Sala, 2008), perciò darò solo dei cenni.

Dall’autopoiesi (MaturanaVarela, 1980), ovvero dal riconoscere come proprietà essenziale del vivente quella di conservare la propria identità, derivo l’idea dellautoorganizzazione dell’apprendimento, da cui ricavo ipotesi pedagogiche sulla relazione insegnamento-apprendimento (Sala, 2007 a).

Se, in termini di autopoiesi, la perturbazione che proviene dall’esterno innesca ma non determina il cambiamento di un organismo, allora, nel contesto educativo, il contenuto dell'apprendimento non sta nell'insegnamento, ma nell'esito del processo di ristrutturazione del soggetto che esso può mettere in moto: la forma e l’esito del processo dipendono dall'identità (storia) del soggetto.

Se l’accoppiamento strutturale è la possibilità di essere reciprocamente fonte di perturbazioni che innescano cambiamenti, allora, nel contesto educativo, l'insegnante e i suoi allievi sono fonti di perturbazioni reciproche che provocano quelle ristrutturazioni che chiamiamo apprendimenti (questa relazione, tuttavia, non è simmetrica, perché l’insegnante è responsabile delle condizioni di questo processo).

Se la forma del cambiamento appare nella descrizione di un osservatore che fa parte del sistema, allora, nel contesto educativo, l’osservatore interno è l’educatore che modifica “strategicamente” il proprio intervento in base alle forme, ai significati che ricava dall'osservazione.

Utilizzo questa “mappa pedagogica” per leggere quelle situazioni in cui si manifesta l’autoorganizzazione dei bambini: il gioco, ma anche le conversazioni scientifiche in ambito scolastico.

Il termine “autoorganizzazione” si riferisce al fatto che la forma che prende la conversazione non è determinata da un’intenzione, da una direzione impressa dall’esterno, ma risulta dalle interazioni locali tra i partecipanti, nel loro flusso temporale e nello spazio delle relazioni.

La mossa iniziale, la regola del gioco, la condizione che istituisce quel “gioco linguistico” (Wittgenstein, 1953) e non un altro, è il silenzio dell’insegnare: l’insegnante accetta di non dire la sua in merito all’argomento e di non esprimere giudizi “giusto/sbagliato” su quanto dicono i bambini; salva questa regola, può fare quanto ritiene opportuno per favorire la conversazione attorno a un argomento, che nasce da una domanda-problema, e in questo consiste il suo prendersi cura della conversazione.

Che fa dunque l’insegnante quando “(non) insegna”?

In primo luogo rende possibile ai bambini fare esperienze, dal momento che esse costituiscono uno dei materiali con cui i bambini co-costruiscono conoscenza (il più importante nel caso delle scienze).

In secondo luogo garantisce le condizioni della comunicazione, contesto sociale nel quale il gruppo dei bambini co-costruisce conoscenza.  

Poi “ascolta”, ovvero cerca di cogliere i significati che i bambini co-costruiscono nel loro gioco tra le cose e le parole, cercando di non farsi ingannare dall’equivoco del linguaggio condiviso: una parola detta dai bambini in una conversazione ha un significato locale che può non essere quello “standard” che assume nella cultura degli adulti e che richiede di essere compreso e rispettato (Vygotskij, 1990). È da questo tentativo di comprensione che nascono quelle modalità di intervento dell’adulto che possono avere funzione di facilitare il processo dei bambini (Pontecorvo, 1991).

Ma, ancora, è il (non)insegnante che può perturbare i sistemi cognitivi degli allievi per innescare apprendimenti attraverso quella mossa epistemologica fondamentale che è lo “spiazzamento”, ovvero l’introduzione di contesti in cui ciò che già si sa si dimostra inadeguato e si è così mossi a cambiare le proprie idee costruendone di più adeguate.

E sta a lui/lei ricostruire i percorsi effettivamente fatti dall’apprendere autoorganizzato dei bambini attraverso narrazioni adeguate, che sono allo stesso tempo letture critiche.

Ho parlato di sfondi teorico-pratici, ma fin qui ho sviluppato il discorso più che altro in termini di idee, anche se ricavate dall’esperienza formativa. Per avvalorare l’aspetto pratico vorrei provare a contestualizzarle in quello che si può considerare un esempio, tratto dal repertorio di conversazioni a tema scientifico registrate in classi di bambini.

Un esempio di che cosa?

Scelgo questo esempio certamente perché questo tipo di situazioni costituiscono l’ambito della mia ricerca epistemologica e della mia professione di formatore di formatori, ma anche perché mi sembra significativo, in qualche modo “provocatorio”, osservare il prendersi cura dell’insegnante in un contesto di “normalità professionale”, in cui il che cosa insegna e come lo insegna (o non lo insegna), è al centro dell’attenzione; in contrapposizione, per intenderci, a quelle situazioni in cui queste dimensioni epistemologiche passano in secondo piano perché il prendersi cura educativo assomiglia molto all’assistenza alla persona, o addirittura alla terapia in risposta a patologie della relazione, a malesseri esistenziali, fenomeni con i quali del resto un educatore scolastico ha continuamente a che fare.

In discussione è un’idea della relazione tra competenze specificamente educative (metodologiche, epistemologiche, disciplinari...) e competenze “di cura” (o specificamente relazionali) nel contesto della professione educativa (sono distinte o separate?) In particolare è in discussione se le prime, una volta  riconosciuto che non sono sufficienti, siano, come io penso, ancora necessarie.  

Presentando la trascrizione di una registrazione sono ovviamente consapevole che questo tipo di oggetto comunicativo rende opachi certi elementi di contesto, relativi soprattutto alla pragmatica della comunicazione, ma quanto meno nulla è stato cancellato o filtrato.  Non è comunque questa la difficoltà che mi preoccupa: il limite grave, quasi una contraddizione, nasce dal fatto che non mi è possibile riportare qui la conversazione per intero e questo impedisce di avere un esempio di... conversazione. Rimando alla bibliografia (Sala, 2004; Sala, 2007 b) e alla consultazione del sito wwww.marcellosala.it (sezione “l’ascolto”) la possibilità per il lettore di accedere a conversazioni “ascoltate” nelle loro interezza; qui provo a utilizzare spezzoni che mi sembrano significativi come esempi relativi alla tèchne del prendersi cura dell’educatore.

La fonte è una tesi di laurea in Scienze dell’educazione (Mazzocchi, 2009) in cui l’autrice dedica uno dei capitoli a “Le dinamiche di interazione con l’adulto in rapporto alla costruzione di conoscenza da parte dei bambini”. La tesi è costruita a partire da una conversazione svoltasi in una classe 5a elementare.

In realtà ciò che sto sottoponendo all’attenzione del lettore è un materiale che si colloca su due livelli del prendersi cura della formazione: il primo riguarda il modo con cui l’adulto conduce la conversazione, ovvero come l’insegnante cura il processo di co-costruzione di conoscenza; il secondo livello è l’interpretazione che dà la ricercatrice di quanto accade nel primo livello e riguarda dunque il modo di prendersi cura della formazione degli insegnanti. L’integrazione dei due livelli è una forma di ricerca-azione professionalmente necessaria. Nella generalità e normalità della professione, tuttavia, l’insegnante è solo di fronte ai soggetti che gli sono affidati e questo costituisce una difficoltà per la ricerca-azione (osservare se stessi per riflettere criticamente sull’esperienza è più difficile che confrontarsi con un “amico critico”). La strategia è allora quella di praticare, nella formazione degli insegnanti, questo dispositivo di ricerca-azione in una dimensione sociale di relazione tra persone in ruoli diversi (su questo tornerò più avanti) nella prospettiva di una sua interiorizzazione, fidando che quella dinamica che Vygotskij coglie nell’apprendimento dei bambini funzioni anche nella formazione professionale degli insegnanti:

“Le funzioni prima si formano nel collettivo, nella forma di relazioni tra bambini e così diventano funzioni mentali per l’individuo”. (Vygotskij, 1990, pag. 92)

Da notare che in un percorso di ricerca-azione per insegnanti, è il formatore, come tutor, a rivestire il ruolo di osservatore mentre l’insegnante opererebbe nel suo ruolo istituzionale; in questo caso invece è lo stesso tutor che svolge anche il ruolo di “insegnante”, nei confronti dei bambini; così facendo sta mettendo a disposizione della studentessa non certo un modello, ma un esempio vivente da osservare e discutere. Questa situazione può creare qualche problema, qualora non sia chiaro il sistema di relazioni e ruoli, ma ha due vantaggi: permette alla studentessa di osservare il processo senza essere gravata da responsabilità formative che probabilmente sposterebbero la sua attenzione verso il piano della gestione della situazione con i bambini; inoltre permette al tutor di essere a sua volta osservato e di disporre di un “amico critico”: se il suo ruolo di tutor implica una sua competenza qualificata in quelle attività che sono oggetto del percorso di formazione che è chiamato a sostenere, ciò non significa che esse siano acquisite una volta per tutte e che non abbia anch’egli il bisogno professionale di forme di ricerca-azione.

Lascerò dunque alle parole della tesi il compito di esemplificare le modalità del prendersi cura della conversazione (il primo dei due livelli cui ho fatto riferimento).

Il setting

Il primo brano che riporto descrive la situazione iniziale e dà un’idea di quali elementi siano stati oggetto di attenzione e scelte specifiche nella fase di progettazione:

“La conversazione si è tenuta in un aula diversa da quella in cui la classe segue abitualmente le lezioni. L’aula era stata preparata mettendo le sedie in modo circolare: la scelta è significativa perché permette a tutti i componenti del gruppo di guardarsi reciprocamente e, allo stesso tempo, a ogni bambino di avere attenzione e ‘importanza’ nello spazio di interazione. All’interno del cerchio era posto un cestino di vimini con  l’apparecchio per l’audio-registrazione.

[...]

Prima di realizzare questa ricerca in classe è stata discussa la scelta di come strutturare (o non strutturare) l’intervento e di quali tematiche (pertinenti alla teoria dell’evoluzione) affrontare. La scelta è stata quella di seguire gli sviluppi della conversazione senza imporre una linea guida e senza forzare gli alunni verso specifiche tematiche: questo per aiutare i bambini a co-costruire una conoscenza sulla teoria dell’evoluzione nella ‘zona di sviluppo prossimale’ (Vygotskij, 1990) restando in un contesto di ricerca e non in uno di ‘lezione didattica’ o di ‘interrogazione’.”

Si progettano strategie complessive in base a opzioni pedagogiche di fondo, condizioni favorevoli a un certo tipo di comunicazione, e anche dettagli (come la scelta del luogo) che devono essere coerenti con il ruolo di “esperto”, e non di “insegnante”, del conduttore.

Il brano seguente è collocato all’inizio della conversazione (i diversi bambini sono indicati con numeri):

   CONDUTTORE: «Quello che vorrei fare con voi è una conversazione su temi scientifici. Prima però le regole del gioco: parla soltanto chi ha in mano il ‘bastone della parola’ che è questo [mostra un piccolo ramo di legno levigato]; seconda regola: il bastone della parola gira, quindi, lui lo passa a lui… quando lo avete in mano potete parlare o non parlare, però poi lo dovete passare e, per parlare, dovete aspettare che ritorni; quindi pensateci prima a quello che volete dire. L’argomento che volevo proporvi è quello dell’evoluzione...»

7: «Quale evoluzione? dell’uomo?»

CONDUTTORE: «Ah, aspetta, direi prima una cosa importante: io non sono un insegnante, quindi non mi interessa assolutamente se rispondete giusto o no alle domande; a me interessa sapere cosa pensate, quindi ognuno è libero di dire quello che pensa. Vi accorgerete dalle domande che non è un quiz: non vincete niente se rispondete giusto, semplicemente perché non c’è una risposta giusta… è una specie di intervista che vi faccio, per capire cosa ne sapete di certe cose, ma anche cosa ne pensate; io non so cosa sapete già e cosa invece vi mettete a pensare adesso, quindi boh…

Va bene, allora l’argomento è l’evoluzione, quindi la prima domanda è: ne sapete qualcosa? Ognuno di voi adesso dice che cosa sa sull’evoluzione, se ha un idea, se ne ha sentito parlare, cosa pensa che sia…»

Fondamentale in queste conversazioni è costruire una cornice di senso condivisa, ovvero esplicitare regole specifiche di un certo contesto sociale di interazione, definire i ruoli dell’adulto o dell’esperto, indirizzare il comportamento verbale degli interlocutori, fornire uno sfondo comune.

Con la sua presentazione il conduttore ha determinato uno specifico contesto d’interazione basato sulla ricerca, che si differenzia da quello di una quotidiana lezione didattica. L’esperto ha condotto la conversazione stando spesso all’interno del gruppo, talvolta in piedi, talvolta accosciato.

All’inizio della conversazione ha dato le ‘regole del gioco’; la scelta di queste ultime intendeva facilitare la comunicazione all’interno del gruppo e lasciare la possibilità a ognuno di esprimere il suo punto di vista: dopo che un bambino ha parlato deve aspettare un intero giro prima che il ‘bastone della parola’ torni nelle sue mani e che quindi possa esprimere nuovamente la sua opinione; questo può portare a due conseguenze, una positiva e una negativa, per lo sviluppo della conversazione: il bambino non dice la prima cosa che gli viene in mente, ma prepara il suo intervento per l’intera durata del giro; tuttavia questo può indurlo a mantenersi concentrato su quello che sta pensando e a disinteressarsi di quanto dicono gli altri.”

I “giochi linguistici”

Il prossimo brano si riferisce ancora all’inizio della conversazione ed è interessante per evidenziare come il contesto sociale in cui i bambini percepiscono di trovarsi, e al quale quindi tentano di adeguarsi, sia diverso da quello che gli adulti intendono praticare e hanno tentato di costruire:

L’ambiente iniziale è molto freddo, c’è una parvenza di disinteressamento, c’è un clima di tensione, o anche solo di attesa, di sospensione, probabilmente dovuta anche al contesto didattico, a un ‘gioco linguistico’, nel senso che al termine dà Wittgenstein, non ancora chiarito.

7: «L’evoluzione dell’uomo! Nasce… cresce… e poi muore.»

Da subito si confonde evoluzione di specie con sviluppo individuale: uno dei nodi epistemologici fondamentali nella comprensione della teoria dell’evoluzione.

8: «Io in storia ho sentito parlare dei dinosauri… che prima c’erano i dinosauri poi le scimmie e poi sono diventate uomini…»

CONDUTTORE: «In storia?»

8: «Sì »

CONDUTTORE: «Non in scienze?»

10: «Io ho sentito parlare dell’evoluzione dell’uomo in storia… l’uomo nasce, cresce e poi… muore.»

11: «Noi in storia abbiamo fatto l’evoluzione dell’uomo, ma anche l’evoluzione del mondo e… va beh: che l’uomo nasce, cresce…»

Il riferimento alle ‘materie’ sembra confermare l’ipotesi che i bambini si percepiscano in un contesto scolastico, immersi nel ‘gioco linguistico’ dell’interrogazione.

 12: «Io ho sentito parlare dell’evoluzione dell’uomo, che nasce scimmia e poi diviene  

uomo primitivo e infine uomo di adesso.»

14: «Anch’io ho sentito parlare dell’evoluzione dell’uomo, che secondo me è scimmia, uomo primitivo, uomo moderno e ha sviluppato le capacità utensili, ha iniziato a fare i templi…»

Cerca di fornirne informazioni ancora più specifiche e corrette. Anche qui emergono le fonti scolastiche.

17: «Io ho sentito parlare anche dell’evoluzione del bruco, che prima era un bruco e poi una larva e alla fine diventa farfalla.»

Un primo esempio (anche se scorretto rispetto all’evoluzione) legato a un’esperienza verificabile con l’osservazione.

19: «Io ho sentito anche in storia l’evoluzione dell’uomo e poi anche in storia l’evoluzione della posizione della Terra nel mondo... poi…»

Prosegue in questi interventi quella che pare essere un’esibizione da parte dei bambini di tutto ciò che hanno imparato a scuola...”

Verso una conversazione “autoorganizzata

Anche se permane l’ancoraggio alle conoscenze scolastiche, sembra comunque che i bambini abbiano cominciato a entrare nel merito della questione e l’azione del conduttore si modifica:

    CONDUTTORE: «No: non ho capito… ’la posizione della Terra nel mondo’ in che

            senso?»

19: «Che prima era tutta attaccata e poi si è iniziata a staccare…»

CONDUTTORE: «Allora le due cose che hanno detto loro sono diverse: in un caso ha detto che l’evoluzione dell’uomo è ‘nasce, cresce, muore’; invece per l’evoluzione della Terra avete tirato in ballo altre cose, lei [11] diceva che prima c’erano le piante… lui [19] si è ricordato che l’evoluzione della Terra è il fatto che le terre, i continenti prima erano attaccati, poi si sono staccati… è una cosa diversa…»

Qui il conduttore interviene ‘rispecchiando’ e riformulando un atto linguistico oscuro, al fine di chiarirlo. Questo, come afferma Pontecorvo (Pontecorvo, 1991), ha un effetto positivo nel favorire la partecipazione e nel rendere più utilizzabile l’intervento. Questa strategia è ricorrente in questa conversazione.”

I nodi epistemologici

Se i bambini entrano nel merito, ovvero cominciano a discutere di un argomento scientifico, anche gli interventi dell’adulto, e poi le osservazioni e i commenti, integrano questo piano epistemologico e scientifico del discorso, perché “ascoltare” i bambini significa prendere seriamente in considerazione nel merito ciò che dicono, individualmente e collettivamente; per cercare di “capirlo” lo si mette in relazione al sapere scientifico sull’argomento:

   21: «Eh sì... e l’evoluzione penso sia che prima erano delle normali scimmie e poi si

           sono evolute per adattarsi all’ambiente…»

L’idea è che evoluzione delle scimmie ancestrali (verso l’uomo) inizia da una diversità: effettivamente, sul piano scientifico, la selezione naturale ha agito sulla variazione, e quindi su scimmie che differivano dalla norma.

Compare questa nuova parola ‘adattamento’ che entra nel lessico del gruppo e verrà utilizzata successivamente più volte.

CONDUTTORE: «Questa è una parola nuova… A questo punto la domanda è: di quale delle quattro cose che abbiamo detto parliamo? Al di là che le cose si chiamino ‘evoluzione’, ‘adattamento’ ecc., di quale vogliamo parlare? La cosa che mi interessa di più capire di quello che avete detto è… la faccenda dell’uomo, la scimmia… quando voi dite che cambia… ditemi bene come avete detto... chi l’ha detto?»

10: «Nasce, cresce, muore?»

CONDUTTORE: «No… com’è che hai detto esattamente?»

8: «Che c’erano i dinosauri, poi c’erano le scimmie che poi sono diventate uomini.»

Il conduttore problematizza una definizione, cercando di comprendere e far comprendere realmente cosa possa significare tale parola: questo è fondamentale giacché le categorie di pensiero attraverso le quali impariamo a descrivere il mondo sono quelle del linguaggio che impariamo a usare; tali rappresentazioni influenzano a loro volta la comprensione.

CONDUTTORE: «Bene, fermo lì! quando lui [8] dice che sono diventati uomini, cosa sta dicendo veramente?... Preciso la domanda: ‘c’era una scimmia, e quella scimmia lì si è trasformata in uomo’: è questo che noi stiamo dicendo?»

Ritorna il nodo epistemologico della differenza tra evoluzione di specie e crescita dell’individuo.

...

CONDUTTORE: «Il punto importante della domanda è se quell’animale lì prima era una scimmia e poi si è trasformato in uomo, quindi non c’è più la scimmia ma c’è l’uomo… Vorrei capire come pensate che succede che una scimmia diventa uomo… io non ho mai visto una scimmia diventare uomo… può darsi che non l’abbia vista io…»

Il conduttore cerca a sua volta di spostare il discorso in un ambito più esperienziale; ora l’obiettivo è partire da un caso particolare che sia significativo di qualcosa di generale.

1: «Sì, ma perché mangiano cose diverse!»

Sembra ipotizzare che diverse tendenze alimentari possano essere la base per l’origine di diverse specie. Se si tratta di tendenze ereditarie è un’idea corretta per la teoria evolutiva-genetica classica. Oggi addirittura ci sono evidenze scientifiche che le abitudini alimentari possano essere ereditate con meccanismi epigenetici, cioè in qualche modo lamarckiani.”

Co-costruzione di conoscenza

Se l’adulto che conduce è sufficientemente efficace nel “prendersi cura” del processo, la conversazione “autoorganizzata” dei bambini produce conoscenza nuova; è un percorso che ha la sua storia locale, con le sue svolte e le sue accelerazioni:

   7: «La scimmia ha imparato delle cose nuove, è diventata più intelligente, poi magari  

          ha fatto i figli che sono nati come lei… e così man mano…»

CONDUTTORE: «Aspetta, perché riguardo questa cosa… Vi siete accorti cos’ha detto 7 di diverso dagli altri?»

Il conduttore rimarca ciò che è stato detto al fine di far cogliere l’importanza di questa nuova idea emersa.

12: «Sì.»

M: «Cosa?»

12: «Ha detto che la scimmia quando si è evoluta ha fatto i figli e perciò si è…»

[confusione]

8: «Io penso che non è possibile che da quando nascono a quando muoiono… cioè che nascono scimmie e muoiono uomini… succede nel corso degli anni, non è che una nasce scimmia e poi diventa uomo... si sono adattate all’ambiente nel corso degli anni…»

Da questo momento, tutti gli interventi che verranno terranno conto di questo nuovo elemento: l’intervento di 8 mette in discussione la possibilità che il cambiamento avvenga nella vita di una singola scimmia e sposta il focus della discussione sulla dimensione temporale dell’evoluzione (quello che manca qui è l’idea del succedersi delle generazioni che sembrava essere presente nell’intervento di 12). Tuttavia, benché 8 abbia introdotto nel campo della discussione degli elementi pertinenti, non è ancora stata formulata un’ipotesi. È interessante notare come bambini diversi contribuiscano alla costruzione di un pensiero collettivo partendo da idee diverse, ma tutte necessarie come elementi da mettere in relazione per costruire conoscenza su questo argomento.

CONDUTTORE: «Chi parla dopo tenga conto di quello che è stato detto adesso - è importante! - mentre loro dicevano che questo cambiamento da scimmia a uomo avviene nell’arco di una vita, cioè praticamente, sentendo quello che dicono loro, nasce scimmia poi pian piano comincia a camminare a due zampe ecc… e muore uomo, cioè pian piano diventa uomo, nell’arco di una vita; loro invece hanno incominciato a tirare in ballo i figli… la domanda a questo punto diventa: ma questo cambiamento da scimmia a uomo avviene nell’arco della vita, quindi nasce scimmia... sì alcune, non tutte… alcune nascono scimmie e muoiono uomini perché nell’arco della loro vita c’è stato questo cambiamento, oppure cosa centrano i figli... che lui [12] ha cominciato a nominare?… per cui d’ora in poi tenete conto di questa novità.»

11: «Secondo me... sono d’accordo con 8, ma non è che... nascono scimmie e muoiono uomini perché... non tutte sono diventate uomini… non tutte sono arrivate all’evoluzione.»

Quella che viene espressa da 11 è l’idea che ad evolvere non è l’intera specie, ma solo una parte (ne aveva parlato in precedenza 21).”

Spiazzamenti reciproci

Nel prossimo brano è visibile lo “spiazzamento”, mossa che contrasta con un’idea del prendersi cura educativo come pura accoglienza o come capacità di mettere l’altro a proprio agio, perché spiazzare significa non accettare tutto ciò che l’altro dice, significa metterlo in difficoltà (attraverso domande, controesempi, confutazioni, conflitti cognitivi), con inevitabili conseguenze sul piano emotivo e relazionale; ma il “piano emotivo e relazionale” non è separabile da quello cognitivo; lo spiazzamento è indispensabile per mettere in moto l’apprendimento proprio perché crea difficoltà (perché dovrei cambiare, o anche solo ampliare, approfondire, articolare, argomentare le idee che già ho, se funzionano?). Ma se l’arte di (non) insegnare comprende lo spiazzare, comprende anche il lasciarsi spiazzare, perché è la reciprocità a garantire l’ “accoppiamento strutturale” dell’autopoiesi e quindi un co-sviluppo di (non)insegnante e allievi.

    11: «Allora, come avevano detto anche loro, solo alcuni gruppi di scimmie si evolvono

e, se non sbaglio, sono le scimmie antropomorfe… cioè, se io ero una scimmia e sono diventata habilismio figlio si evolverà e andrà avanti con lo sviluppo.»

Qui vengono ripresi i precedenti interventi di 8 e 12 e viene formulata un’ipotesi, cioè che l’evoluzione sia un cambiamento attraverso le generazioni.

CONDUTTORE: «Ah: ecco allora cosa possono entrarci i figli! Cioè lei [11] dice: non è nell’arco di una vita che uno nasce scimmia e diventa uomo, ma, se nasce scimmia può succedere che comincia a cambiare un po’ e poi il figlio...»

11: «.... porta a termine la…»

CONDUTTORE: «... diciamo: parte da dove è arrivato il genitore?»

11: «... il padre, sì...»

CONDUTTORE: «... e poi va avanti. E quindi per avere tutto il cambiamento?»

11: «... e il nonno e il bisnonno…»

Il conduttore si fa “perturbare” dall’intervento della bambina e l’interazione tra i due porta a una chiarificazione. Qui è presente quell’ ‘accoppiamento strutturale’ di cui parla la teoria dell’autopoiesi e che può essere attribuito, in chiave pedagogica, alla possibilità che nel rapporto tra esperto e bambini intercorrano reciproche perturbazioni che inneschino dei cambiamenti (Sala, 2007).

CONDUTTORE: «Eh! E come si chiamano queste robe qua?»

11: «Cioè la famiglia, la…»

CONDUTTORE: «La parola che usano gli scienziati è ‘generazione’…»

Questo nozione fa parte del sistema cognitivo dei bambini; nei precedenti interventi essi vi si erano gradualmente avvicinati, tanto da permettere al conduttore l’introduzione di un nuovo termine che possono assimilare grazie all’aiuto dell’adulto, che lo introduce come se fosse un’ ‘etichetta’ messa sopra un’idea appena espressa dai bambini stessi: siamo nella ‘zona di sviluppo prossimale’.

12: «Allora… perché le scimmie che vedo adesso non si evolvono in uomini? Magari perché le scimmie antropomorfe non ci sono più… io non lo so questo.»

La perturbazione reciproca continua finché quasi non s’invertono i ruoli: adesso è 12 che ha una domanda, delle perplessità, delle spiegazioni da cercare. Questo mostra come il ‘gioco linguistico’ attuale sia completamente diverso da quello iniziale: si è infatti passati dall’ ‘interrogazione’ alla ‘ricerca cooperativa’.

CONDUTTORE: «Cioè lei [12] dice che, se le cose vanno come dice lei [11], cioè che una scimmia cambia, poi fa e figli ecc…, le scimmie che ci sono adesso… perché non cambiano?»

Il conduttore opera uno spiazzamento: da questo suo intervento è evidente che la domanda è importante e che la risposta più semplice che poteva esserci, quella che dà 12, non è soddisfacente.

14: «Allora io sono d’accordo con tutti quelli che hanno detto dei figli… di come si evolve la scimmia… e mi faccio la stessa domanda di 12: perché le scimmie antropomorfe non si evolvono più? Forse perché il Rift  non si fa più… cioè… il Rift»

Questo intervento mostra come i bambini ‘si ascoltano’ nel senso profondo di ‘si comprendono’ e portano avanti lo stesso processo collettivo di costruzione di conoscenza. 14 riprende la domanda precedente e cerca di dare una risposta più soddisfacente: lo fa mettendo in relazione cause ambientali con l’evoluzione: sarà qualcosa che aveva studiato? Se è così, é possibile vedere come in questo ‘gioco’ della ricerca i bambini rimettono in gioco in modo pertinente le informazioni ricevute dall’ambiente.”

Errori

La parola appare pesante, ma la uso perché credo nell’ “apprendimento per tentativi e errori”: esso implica per l’arte di (non) insegnare innanzitutto che si possano fare tentativi; poi che gli errori, ovvero i tentativi non adeguati alla soluzione del problema cognitivo, siano riconosciuti come tali, perdendo il senso esclusivamente affettivo per assumere quello funzionale al processo. Fin qui le citazioni della tesi sembrano aver sostenuto un discorso tutto in positivo rispetto allo sviluppo della conversazione e all’azione del conduttore; perciò riporto quest’ultimo brano per ribadire che una lettura critica è quella che cerca di riconoscere significati in relazione al contesto, e quindi la loro funzionalità al processo formativo. È senza alcuna connotazione paradossale dunque che  ribadisco che l’atteggiamento critico è componente fondamentale del “prendersi cura” in campo formativo.

    3: «Io penso che noi camminiamo su due piedi perché loro, quando crescevano... le

     braccia non arrivavano più a terra e così hanno dovuto imparare a camminare soltanto con due piedi.»

Ha un’intuizione di un tema importante nell’evoluzione della teoria dell’evoluzione, ovvero l’idea che non tutto si spiega come adattamento della forma alla funzione. Il conduttore però non coglie questo aspetto e sposta il fuoco del discorso su un altro tema cruciale: il fatto che la variazione precede la selezione e l’adattamento.

CONDUTTORE: «Aspetta, perché questa è una cosa nuova! Dimmi se ho capito bene: tu dici che prima è successo che avevano le braccia più corte e allora a quel punto si trovano meglio a camminare su due piedi… è così?»

3: «Sì.»

CONDUTTORE: «Bene: è importante questa cosa nuova.»

Il conduttore sottolinea l’importanza di questo nuovo elemento, ma i prossimi interventi sembrano non coglierla: potrebbe essere una valutazione sbagliata in termini di ‘zona di sviluppo prossimale’: l’idea che il cambiamento casuale precede un possibile processo di selezione e che l’adattamento sia la conseguenza di questo processo è troppo complessa e lontana dalle rappresentazioni culturali presenti ai bambini.

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CONDUTTORE: «Qualcuno ha detto che ‘la scimmia diventa uomo’ non vuol dire che una scimmia nasce scimmia e muore uomo; quando si dice così si intende dire che una scimmia, per ragioni ambientali eccetera, cambia un pochino... i figli di questa scimmia cambiano un altro pochino e i loro figli un altro pochino... e dai e dai e dai, di generazione in generazione, dopo mille anni… c’è un bel cambiamento, e dopo 10.000 anni, dopo 20.000, dopo un milione di anni...; allora anche per diventare uomo si cambia un pezzettino per volta. La domanda è: se si cambia un pezzettino per volta, ma non si cambia perché i figli ereditano la coda tagliata, com’è che i figli sono cambiati? perché i figli sono cambiati?»

Sembra che il conduttore qui sia ampiamente fuori dalla ‘zona di sviluppo prossimale’; probabilmente si è fatto trascinare dal fatto che alcuni interventi dei bambini contengono intuizioni di elementi importanti della teoria dell’evoluzione e attribuisce a tutto il gruppo questa competenza; finisce così per assumere, come misura della competenza, la propria. Può anche essere che il conduttore, che per molti anni è stato docente di scuola media, sia scivolato nel ‘gioco’ dell’insegnare.”

La formazione dei formatori e la ricerca-azione

Come ho accennato precedentemente questo materiale può essere esempio anche di un’altra modalità del prendersi cura formativo, quella della ricerca-azione, in un altro livello, quello della formazione dei formatori.

L’autrice della registrazione, della trascrizione, delle osservazioni e dei commenti ha fatto questo lavoro nel contesto della sua ricerca di laurea in scienze della formazione, seguita da un tutor che si è preso cura di questo processo; l’intervento di quest’ultimo può essere letto ancora una volta come un (non) insegnare, caratterizzato da alcune “mosse”:

- mantenendo la responsabilità dell’intervento educativo nei confronti dei bambini (era lui a condurre la conversazione), il tutor ha coinvolto la studentessa nella progettazione minuta del setting: disposizione dei corpi nello spazio, previsione di tempi e ritmi dell’interazione, assegnazione di ruoli (compreso quello da proporre all’insegnante della classe, fondamentale anche se non coinvolto nella gestione dei contenuti scientifici), rituali di ingresso, definizione molto rigorosa delle formulazioni verbali iniziali “di innesco”, messa a punto del canovaccio con una individuazione delle linee di gestione, dei focus cui ricondurre il discorso, dei limiti da porre all’improvvisazione...

- il tutor ha assegnato alla studentessa un ruolo di osservatrice/ascoltatrice che ammetteva anche, quando lei lo avesse ritenuto opportuno, interventi nei confronti dei bambini all’interno del gioco della conversazione; in questo modo la sua osservazione era “partecipante” e responsabile; e lei stessa poteva mettersi alla prova, misurando la propria capacità di ascolto anche attraverso delle azioni, delle interazioni con i bambini, che a loro volta sarebbero state oggetto di ascolto da parte del tutor e comunque di esame critico nella successiva fase di rielaborazione dell’esperienza a partire dalla registrazione

- il tutor ha dato alla studentessa il compito di una lettura personale della registrazione; lettura senza alcuna griglia, che rilevasse in primo luogo qualsiasi cosa attirasse la sua attenzione, e solo in un secondo momento cercasse di scoprire proprio perché quel qualcosa avesse attirato la sua attenzione: si trattava cioè non di pretendere di annullare un punto di vista soggettivo, ma al contrario di relativizzare le osservazioni a un punto di vista biograficamente e culturalmente caratterizzato

- le osservazioni e i commenti sono divenuti oggetto di una rilettura critica, in un dialogo tra autrice e tutor, in cui si è ricostruito il rapporto tra le ipotesi epistemologiche e pedagogiche che avevano prodotto quel setting,  quel “dispositivo “sperimentale”, e le osservazioni fatte, per comprendere quanto queste ultime confermassero o meno quelle, o come le modificassero sulla base di nuove evidenze emerse dalla realtà della conversazione.

Il “dispositivo pedagogico”

Ho proposto questa conversazione come esempio di quella che ho chiamato “arte di (non) insegnare”, ma c’è un secondo sfondo teorico-pratico su cui vorrei proiettare la specificità del prendersi cura in ambito educativo ed è il “dispositivo pedagogico” proposto da Riccardo Massa, il pedagogista organizzatore della Facoltà di Scienze dell’educazione di Milano Bicocca, scomparso nel 1999 (vedi: Rezzara, 2008).

Massa parte dalla convinzione che è il fare esperienza che dà forma ai soggetti e che perciò su questa il formatore costruisce il proprio sapere e potere, ovvero le proprie competenze professionali (teoriche e pratiche): sull’intera esperienza educativa, non solo sulla relazione, perché l’educazione è una struttura complessa. Riconosciuto il potere formativo delle pratiche, si tratta per l’educatore di conoscerle e imparare a gestirle.

Il contesto educativo (un mondo II) si configura come una esperienza di vita, tuttavia diversa da quella della vita diffusa (mondo I), perché intenzionata da finalità educative, funzionale cioè a costruire competenze per il mondo I: ciò comporta una specificità nell’allestimento e nella gestione di spazi e oggetti, nella scansione di tempi, nella pratica del corpo (gestualità), nella istituzione di riti e nella realizzazione di eventi, nella definizione e attivazione di regole, nella articolazione di attività, nella predisposizione di materiali, nell’uso di linguaggi che fanno emergere significati...

L’educatore dunque non si limita a trasmettere contenuti culturali, a dare spazio alla spontaneità dei vissuti e delle relazioni, ma produce un campo simbolico e materiale, attivando prassi educanti attraverso l’organizzazione e gestione del dispositivo, che è una struttura di spazi, tempi, corpi, soggetti, oggetti, attività, regole, riti, simboli, linguaggi.

Questo mondo II è un campo di esperienza e di interpretazione in cui viene data la possibilità di esplorare e rielaborare il mondo I. L’intenzionalità educativa si esprime soprattutto nel progettare il dispositivo.

Anche la dimensione della formazione dei formatori ha trovato nella ricerca di Riccardo Massa sviluppi di grande interesse professionale e culturale. La “clinica della formazione” (Massa, 1993) è a sua volta un dispositivo formativo complesso, cui non pretendo certo di ascrivere l’esempio su riportato; mi limito a riconoscere con gratitudine a Riccardo Massa la fecondità che, in modi sicuramente inadeguati e per certi versi anche eterodossi, le sue idee hanno avuto nello sviluppo della mia professionalità.

Quando propongo una discussione critica su esperienze locali e contestualizzate, storie di formazione, assumendole come esempi di qualche cosa di più generale, penso alla sua idea di rendere presente il corpo della formazione, un oggetto del tutto astratto, attraverso le esperienze vive dei corpi dei formatori, su cui non si tratta di mettere in campo libere interpretazioni soggettive, ma di praticare un rigoroso dispositivo di rielaborazione collettiva. 

La denominazione “clinica della formazione” chiaramente rimanda al mondo della cura, e così Massa ne scrive con riferimento all’etimologia  (klinomai = chinarsi su): “... questo chinarsi con intento conoscitivo verso qualcosa che, per malattia o per contratto, o anche per mera contingenza, sta nudo e disteso, ma non per questo meno nascosto davanti a noi...” (Massa, 1993, pag 23).

 

 

Bibliografia

Massa Riccardo, a cura di, La clinica della formazione, Franco Angeli, Milano 1993

Mazzocchi Francesca, Come i bambini costruiscono le conoscenze sull’evoluzione a scuola: un’esperienza in classe, tesi di laurea in Scienze dell’Educazione, Facoltà di Scienze della Formazione, Università di Milano Bicocca, a.a. 2008-2009.

Maturana HumbertoVarela Francisco (1980), Autopoiesis and cognition, Reidel, Dordrecht; ed. it. Autopoiesi e cognizione, Marsilio, Venezia 1985.

Pontecorvo Clotilde e al., Discutendo si impara, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1991.

Rezzara Anna, L’educazione come dispositivo, PGreco, Milano 2008.

Rosseau Jean Jacques, (1762), Emilio o dell’educazione, ed. it. Mondadori, Milano 1997

Sala Marcello, Il volo di Perseo, Junior, Azzano S. Paolo 2004.

Sala Marcello, L’arte di (non) insegnare, Change, Torino 2007.

Sala Marcello, Evoluzione a scuola, Change, Torino 2007.

Sala Marcello, Incertezza e arte di (non) insegnare, in Riflessioni sistemiche, n. 1/2009.

Vygotskij Lev, (1934), Pensiero e linguaggio. Ricerche psicologiche, ed. it. Laterza, Roma-Bari,1990

Wittgenstein L., (1953), Philosophische Untersuchungen, G.E.M. Anscombe & R. Rhees, Oxford; ed. it. Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1999.