Sommario
L’ “arte di (non) insegnare”
come modalità del prendersi cura di una co-costruzione
di conoscenza autoorganizzata – Un esempio di
conduzione di una conversazione scientifica e di una rielaborazione critica
nel contesto della formazione dei formatori – La costruzione del contesto –
Spiazzamento e dimensione critica come elementi di cura - La pertinenza
della dimensione epistemologica - L’idea di dispositivo formativo.
Parole
Chiave
Ascolto, autoorganizzazione, autopoiesi, conoscenza, conversazione,
dispositivo, formazione dei formatori, “giochi linguistici”, perturbazione, setting, spiazzamento, ricerca-azione.
Quando uso il termine “ascolto”, riferendomi alla professionalità
dell’insegnante, spesso l’interlocutrice/tore lo
recepisce come se stessi parlando di un atteggiamento essenzialmente
relazionale; in questo senso il termine viene accostato ad “accoglienza”.
Personalmente ritengo che faccia parte dell’accogliere una persona che
viene “da fuori” l’offrire riposo, ristoro, benevolenza, sicurezza... tanto
quanto esplicitare le “regole del gioco” in cui entra, regole di convivenza,
usi, linguaggi, norme..., perché altrettanto necessarie per vivere bene in
quel contesto. C’è dunque un aspetto cognitivo e pratico fondamentale che
non può essere separato da quello relazionale, né ridotto ad esso.
Io penso all’ “ascolto” più come a una tecnica etnografica: cercare di capire l’altro attraverso le sue categorie culturali, che però
posso conoscere solo ascoltando, in una circolarità che richiede specifiche
competenze. Il riferimento al mestiere dell’antropologo non è per me una metafora:
di solito si pensa che i bambini, finché non si compie il processo di
inculturazione, siano privi di cultura: io invece mi sono convinto che sono
portatori di una cultura altra, diversa dalla mia di adulto e che quindi
solo cercando di comprenderla posso essere per loro un “coltivatore
culturale” e non un “colonizzatore” (queste sì metafore del mestiere
dell’educatore).
“Noi non
sappiamo metterci al posto del fanciullo; anziché penetrare nelle sue idee,
gli attribuiamo le nostre e, per seguire il filo dei nostri ragionamenti, mediante
concatenazioni di verità gli riempiamo la testa di stravaganze ed errori.” (Jean Jacques Rousseau, 1997, pag. 216)
Ricordando che in greco arte si dice tèchne, l’aspetto delle
competenze “tecniche” implicate dall’ “ascolto” introduce il primo degli
sfondi teorico-pratici su cui vorrei collocare il mio discorso, quello de
“l’arte di (non) insegnare”.
L’arte di (non) insegnare
La propongo qui come modalità specifica
del prendersi cura in ambito
educativo, ma ho già avuto occasione di scriverne (Sala, 2008), perciò
darò solo dei cenni.
Dall’autopoiesi (Maturana
– Varela, 1980), ovvero dal riconoscere come
proprietà essenziale del vivente quella di conservare la propria identità,
derivo l’idea dell’autoorganizzazione dell’apprendimento, da cui
ricavo ipotesi pedagogiche sulla relazione insegnamento-apprendimento
(Sala, 2007 a).
Se, in termini di autopoiesi,
la perturbazione che proviene
dall’esterno innesca ma non determina il cambiamento
di un organismo, allora, nel
contesto educativo, il contenuto dell'apprendimento non sta
nell'insegnamento, ma nell'esito del processo di ristrutturazione del
soggetto che esso può mettere in moto: la forma e l’esito del processo dipendono
dall'identità (storia) del soggetto.
Se l’accoppiamento
strutturale è la
possibilità di essere reciprocamente fonte di perturbazioni che
innescano cambiamenti, allora, nel contesto educativo,
l'insegnante e i suoi allievi sono fonti di perturbazioni reciproche che
provocano quelle ristrutturazioni che chiamiamo apprendimenti (questa relazione,
tuttavia, non è simmetrica, perché l’insegnante è responsabile delle
condizioni di questo processo).
Se la forma del cambiamento
appare nella descrizione di un osservatore che fa parte del sistema,
allora, nel contesto educativo, l’osservatore interno è l’educatore che modifica
“strategicamente” il proprio intervento in base alle forme, ai significati
che ricava dall'osservazione.
Utilizzo
questa “mappa pedagogica” per leggere quelle situazioni in cui si manifesta
l’autoorganizzazione dei bambini: il gioco, ma
anche le conversazioni scientifiche in ambito scolastico.
Il termine “autoorganizzazione”
si riferisce al fatto che la forma che prende la conversazione non è
determinata da un’intenzione, da una direzione impressa dall’esterno, ma risulta
dalle interazioni locali tra i partecipanti, nel loro flusso temporale e
nello spazio delle relazioni.
La mossa iniziale, la regola del
gioco, la condizione che istituisce quel “gioco linguistico” (Wittgenstein,
1953) e non un altro, è il silenzio dell’insegnare: l’insegnante accetta di non dire la sua in merito
all’argomento e di non esprimere giudizi “giusto/sbagliato” su quanto
dicono i bambini; salva questa regola, può fare quanto ritiene opportuno
per favorire la conversazione attorno a un argomento, che nasce da una
domanda-problema, e in questo consiste il suo prendersi cura della
conversazione.
Che fa dunque
l’insegnante quando “(non) insegna”?
In primo luogo rende
possibile ai bambini fare esperienze, dal momento che esse costituiscono
uno dei materiali con cui i bambini co-costruiscono
conoscenza (il più importante nel caso delle scienze).
In secondo luogo
garantisce le condizioni della comunicazione, contesto sociale nel quale il gruppo dei bambini co-costruisce conoscenza.
Poi “ascolta”, ovvero
cerca di cogliere i significati che i bambini co-costruiscono
nel loro gioco tra le cose e le parole, cercando di non farsi ingannare
dall’equivoco del linguaggio condiviso: una parola detta dai bambini in una
conversazione ha un significato locale
che può non essere quello “standard” che assume nella cultura degli adulti
e che richiede di essere compreso e rispettato (Vygotskij, 1990).
È da questo tentativo di comprensione che nascono quelle modalità di
intervento dell’adulto che possono avere funzione di facilitare il processo
dei bambini (Pontecorvo, 1991).
Ma,
ancora, è il (non)insegnante che può perturbare
i sistemi cognitivi degli allievi per innescare apprendimenti
attraverso quella mossa epistemologica fondamentale che è lo “spiazzamento”, ovvero
l’introduzione di contesti in cui ciò che già si sa si dimostra inadeguato
e si è così mossi a cambiare le proprie idee costruendone di più adeguate.
E sta a lui/lei
ricostruire i percorsi effettivamente fatti dall’apprendere autoorganizzato dei bambini attraverso narrazioni
adeguate, che sono allo stesso tempo
letture critiche.
Ho parlato di sfondi
teorico-pratici, ma fin qui ho sviluppato il discorso più che altro in
termini di idee, anche se ricavate dall’esperienza formativa. Per avvalorare
l’aspetto pratico vorrei provare a contestualizzarle in quello che si può
considerare un esempio, tratto dal repertorio di conversazioni a tema
scientifico registrate in classi di bambini.
Un
esempio di che cosa?
Scelgo questo esempio certamente perché questo tipo di situazioni
costituiscono l’ambito della mia ricerca epistemologica e della mia
professione di formatore di formatori, ma anche perché mi sembra
significativo, in qualche modo “provocatorio”, osservare il prendersi cura
dell’insegnante in un contesto di “normalità professionale”, in cui il che
cosa insegna e come lo insegna (o non
lo insegna), è al centro dell’attenzione; in contrapposizione, per
intenderci, a quelle situazioni in cui queste dimensioni epistemologiche
passano in secondo piano perché il prendersi cura educativo assomiglia
molto all’assistenza alla persona, o addirittura alla terapia in risposta a
patologie della relazione, a malesseri esistenziali, fenomeni con i quali
del resto un educatore scolastico ha continuamente a che fare.
In discussione è un’idea
della relazione tra competenze specificamente educative (metodologiche,
epistemologiche, disciplinari...) e competenze “di cura” (o specificamente
relazionali) nel contesto della professione educativa (sono distinte o
separate?) In particolare è in discussione se le prime, una volta riconosciuto che non sono sufficienti, siano, come io penso,
ancora necessarie.
Presentando la
trascrizione di una registrazione sono ovviamente consapevole che questo
tipo di oggetto comunicativo rende opachi certi elementi di contesto,
relativi soprattutto alla pragmatica della comunicazione, ma quanto meno
nulla è stato cancellato o filtrato.
Non è comunque questa la difficoltà che mi preoccupa: il limite
grave, quasi una contraddizione, nasce dal fatto che non mi è possibile
riportare qui la conversazione per intero e questo impedisce di avere un
esempio di... conversazione. Rimando alla bibliografia (Sala, 2004; Sala,
2007 b) e alla consultazione del sito wwww.marcellosala.it
(sezione “l’ascolto”) la possibilità per il lettore di accedere a
conversazioni “ascoltate” nelle loro interezza; qui provo a utilizzare
spezzoni che mi sembrano significativi come esempi relativi alla tèchne del
prendersi cura dell’educatore.
La fonte è una tesi di
laurea in Scienze dell’educazione (Mazzocchi, 2009) in cui l’autrice dedica
uno dei capitoli a “Le dinamiche di interazione con l’adulto in rapporto
alla costruzione di conoscenza da parte dei bambini”. La tesi è costruita a
partire da una conversazione svoltasi in una classe 5a
elementare.
In realtà ciò che sto
sottoponendo all’attenzione del lettore è un materiale che si colloca su
due livelli del prendersi cura della formazione: il primo riguarda il modo
con cui l’adulto conduce la conversazione, ovvero come l’insegnante cura il
processo di co-costruzione di conoscenza; il
secondo livello è l’interpretazione che dà la ricercatrice di quanto accade
nel primo livello e riguarda dunque il modo di prendersi cura della formazione
degli insegnanti. L’integrazione dei due livelli è una forma di ricerca-azione professionalmente
necessaria. Nella generalità e normalità della professione, tuttavia,
l’insegnante è solo di fronte ai soggetti che gli sono affidati e questo
costituisce una difficoltà per la ricerca-azione (osservare se stessi per
riflettere criticamente sull’esperienza è più difficile che confrontarsi
con un “amico critico”). La strategia è allora quella di praticare, nella
formazione degli insegnanti, questo dispositivo di ricerca-azione in una
dimensione sociale di relazione tra persone in ruoli diversi (su questo tornerò
più avanti) nella prospettiva di una sua interiorizzazione, fidando che quella dinamica che Vygotskij coglie nell’apprendimento dei bambini
funzioni anche nella formazione professionale degli insegnanti:
“Le funzioni prima si
formano nel collettivo, nella forma di relazioni tra bambini e così diventano
funzioni mentali per l’individuo”. (Vygotskij, 1990, pag. 92)
Da notare che in un percorso di ricerca-azione per insegnanti, è il
formatore, come tutor, a rivestire
il ruolo di osservatore mentre l’insegnante opererebbe nel suo ruolo
istituzionale; in questo caso invece è lo stesso tutor che svolge anche il ruolo di “insegnante”, nei confronti
dei bambini; così facendo sta mettendo a disposizione della studentessa non
certo un modello, ma un esempio vivente da osservare e discutere.
Questa situazione può creare qualche problema, qualora non sia chiaro il
sistema di relazioni e ruoli, ma ha due vantaggi: permette alla studentessa
di osservare il processo senza essere gravata da responsabilità formative
che probabilmente sposterebbero la sua attenzione verso il piano della gestione della situazione con i bambini;
inoltre permette al tutor di
essere a sua volta osservato e di disporre di un “amico critico”: se il suo
ruolo di tutor implica una sua
competenza qualificata in quelle attività che sono oggetto del percorso di
formazione che è chiamato a sostenere, ciò non significa che esse siano acquisite
una volta per tutte e che non abbia anch’egli il bisogno professionale di
forme di ricerca-azione.
Lascerò dunque alle
parole della tesi il compito di esemplificare le modalità del prendersi
cura della conversazione (il primo dei due livelli cui ho fatto riferimento).
Il
setting
Il primo brano che
riporto descrive la situazione iniziale e dà un’idea di quali elementi
siano stati oggetto di attenzione e scelte specifiche nella fase di
progettazione:
“La conversazione si è
tenuta in un aula diversa da quella in cui la classe segue abitualmente le
lezioni. L’aula era stata preparata mettendo le sedie in modo circolare: la
scelta è significativa perché permette a tutti i componenti del gruppo di
guardarsi reciprocamente e, allo stesso tempo, a ogni bambino di avere attenzione
e ‘importanza’ nello spazio di interazione. All’interno del cerchio era
posto un cestino di vimini con
l’apparecchio per l’audio-registrazione.
[...]
Prima di realizzare
questa ricerca in classe è stata discussa la scelta di come strutturare (o non
strutturare) l’intervento e di quali tematiche (pertinenti alla teoria
dell’evoluzione) affrontare. La scelta è stata quella di seguire gli
sviluppi della conversazione senza imporre una linea guida e senza forzare
gli alunni verso specifiche tematiche: questo per aiutare i bambini a co-costruire una conoscenza sulla teoria
dell’evoluzione nella ‘zona di sviluppo prossimale’ (Vygotskij,
1990) restando in un contesto di ricerca e non in uno di ‘lezione
didattica’ o di ‘interrogazione’.”
Si progettano strategie
complessive in base a opzioni pedagogiche di fondo, condizioni favorevoli a
un certo tipo di comunicazione, e anche dettagli (come la scelta del luogo)
che devono essere coerenti con il ruolo di “esperto”, e non di
“insegnante”, del conduttore.
Il brano seguente è
collocato all’inizio della conversazione (i diversi bambini sono indicati
con numeri):
“ CONDUTTORE: «Quello che vorrei fare con
voi è una conversazione su temi scientifici. Prima però le regole del
gioco: parla soltanto chi ha in mano il ‘bastone della parola’ che è questo
[mostra un piccolo ramo di legno levigato]; seconda regola: il bastone
della parola gira, quindi, lui lo passa a lui… quando lo avete in mano
potete parlare o non parlare, però poi lo dovete passare e, per parlare, dovete
aspettare che ritorni; quindi pensateci prima a quello che volete dire.
L’argomento che volevo proporvi è quello dell’evoluzione...»
7: «Quale evoluzione?
dell’uomo?»
CONDUTTORE: «Ah,
aspetta, direi prima una cosa importante: io non sono un insegnante, quindi
non mi interessa assolutamente se rispondete giusto o no alle domande; a me
interessa sapere cosa pensate, quindi ognuno è libero di dire quello che
pensa. Vi accorgerete dalle domande che non è un quiz: non vincete niente
se rispondete giusto, semplicemente perché non c’è una risposta giusta… è
una specie di intervista che vi faccio, per capire cosa ne sapete di certe
cose, ma anche cosa ne pensate; io non so cosa sapete già e cosa invece vi
mettete a pensare adesso, quindi boh…
Va bene, allora l’argomento
è l’evoluzione, quindi la prima domanda è: ne sapete qualcosa? Ognuno di
voi adesso dice che cosa sa sull’evoluzione, se ha un idea, se ne ha sentito
parlare, cosa pensa che sia…»
Fondamentale in queste
conversazioni è costruire una cornice di senso condivisa, ovvero
esplicitare regole specifiche di un certo contesto sociale di interazione,
definire i ruoli dell’adulto o dell’esperto, indirizzare il comportamento
verbale degli interlocutori, fornire uno sfondo comune.
Con la sua presentazione
il conduttore ha determinato uno specifico contesto d’interazione basato
sulla ricerca, che si differenzia da quello di una quotidiana lezione
didattica. L’esperto ha condotto la conversazione stando spesso all’interno
del gruppo, talvolta in piedi, talvolta accosciato.
All’inizio della
conversazione ha dato le ‘regole del gioco’; la
scelta di queste ultime intendeva facilitare la comunicazione all’interno
del gruppo e lasciare la possibilità a ognuno di esprimere il suo punto di
vista: dopo che un bambino ha parlato deve aspettare un intero giro prima
che il ‘bastone della parola’ torni nelle sue mani e che quindi possa
esprimere nuovamente la sua opinione; questo può portare a due conseguenze,
una positiva e una negativa, per lo sviluppo della conversazione: il bambino
non dice la prima cosa che gli viene in mente, ma prepara il suo intervento
per l’intera durata del giro; tuttavia questo può indurlo a mantenersi
concentrato su quello che sta pensando e a disinteressarsi di quanto dicono
gli altri.”
I
“giochi linguistici”
Il prossimo brano si
riferisce ancora all’inizio della conversazione ed è interessante per evidenziare
come il contesto sociale in cui i bambini percepiscono di trovarsi, e al
quale quindi tentano di adeguarsi, sia diverso da quello che gli adulti
intendono praticare e hanno tentato di costruire:
“L’ambiente iniziale è molto freddo, c’è
una parvenza di disinteressamento, c’è un clima di tensione, o anche solo
di attesa, di sospensione, probabilmente dovuta anche al contesto
didattico, a un ‘gioco linguistico’, nel senso che al termine dà Wittgenstein,
non ancora chiarito.
7: «L’evoluzione
dell’uomo! Nasce… cresce… e poi muore.»
Da subito si confonde
evoluzione di specie con sviluppo individuale: uno dei nodi epistemologici
fondamentali nella comprensione della teoria dell’evoluzione.
8:
«Io in storia ho sentito parlare dei dinosauri… che prima c’erano i
dinosauri poi le scimmie e poi sono diventate uomini…»
CONDUTTORE:
«In storia?»
8:
«Sì »
CONDUTTORE:
«Non in scienze?»
10:
«Io ho sentito parlare dell’evoluzione dell’uomo in storia… l’uomo nasce,
cresce e poi… muore.»
11:
«Noi in storia abbiamo fatto l’evoluzione dell’uomo, ma anche l’evoluzione
del mondo e… va beh: che l’uomo nasce, cresce…»
Il riferimento alle
‘materie’ sembra confermare l’ipotesi che i bambini si percepiscano in un
contesto scolastico, immersi nel ‘gioco linguistico’ dell’interrogazione.
12: «Io ho sentito parlare dell’evoluzione
dell’uomo, che nasce scimmia e poi diviene
uomo
primitivo e infine uomo di adesso.»
14:
«Anch’io ho sentito parlare dell’evoluzione dell’uomo, che secondo me è
scimmia, uomo primitivo, uomo moderno e ha sviluppato le capacità utensili,
ha iniziato a fare i templi…»
Cerca di fornirne
informazioni ancora più specifiche e corrette. Anche qui emergono le fonti
scolastiche.
17:
«Io ho sentito parlare anche dell’evoluzione del bruco, che prima era un
bruco e poi una larva e alla fine diventa farfalla.»
Un primo esempio (anche
se scorretto rispetto all’evoluzione) legato a un’esperienza verificabile
con l’osservazione.
19:
«Io ho sentito anche in storia l’evoluzione dell’uomo e poi anche in storia
l’evoluzione della posizione della Terra nel mondo... poi…»
Prosegue in questi
interventi quella che pare essere un’esibizione da parte dei bambini di tutto
ciò che hanno imparato a scuola...”
Verso
una conversazione “autoorganizzata”
Anche se permane
l’ancoraggio alle conoscenze scolastiche, sembra comunque che i bambini
abbiano cominciato a entrare nel merito della questione e l’azione del
conduttore si modifica:
“ CONDUTTORE: «No: non ho capito… ’la
posizione della Terra nel mondo’ in che
senso?»
19:
«Che prima era tutta attaccata e poi si è iniziata a staccare…»
CONDUTTORE:
«Allora le due cose che hanno detto loro sono diverse: in un caso ha detto
che l’evoluzione dell’uomo è ‘nasce, cresce, muore’; invece per
l’evoluzione della Terra avete tirato in ballo altre cose, lei [11] diceva
che prima c’erano le piante… lui [19] si è ricordato che l’evoluzione della
Terra è il fatto che le terre, i continenti prima erano attaccati, poi si
sono staccati… è una cosa diversa…»
Qui il conduttore
interviene ‘rispecchiando’ e riformulando un atto linguistico oscuro, al
fine di chiarirlo. Questo, come afferma Pontecorvo (Pontecorvo, 1991), ha
un effetto positivo nel favorire la partecipazione e nel rendere più
utilizzabile l’intervento. Questa strategia è ricorrente in questa
conversazione.”
I
nodi epistemologici
Se i bambini entrano nel
merito, ovvero cominciano a discutere di un argomento scientifico, anche
gli interventi dell’adulto, e poi le osservazioni e i commenti, integrano
questo piano epistemologico e scientifico del discorso, perché “ascoltare”
i bambini significa prendere seriamente in considerazione nel merito ciò
che dicono, individualmente e collettivamente; per cercare di “capirlo” lo
si mette in relazione al sapere scientifico sull’argomento:
“ 21: «Eh sì... e l’evoluzione penso sia
che prima erano delle normali scimmie
e poi si
sono evolute per adattarsi
all’ambiente…»
L’idea è che evoluzione
delle scimmie ancestrali (verso l’uomo) inizia da una diversità: effettivamente,
sul piano scientifico, la selezione naturale ha agito sulla variazione, e
quindi su scimmie che differivano dalla norma.
Compare questa nuova
parola ‘adattamento’ che entra nel lessico del gruppo e verrà utilizzata
successivamente più volte.
CONDUTTORE:
«Questa è una parola nuova… A questo punto la domanda è: di quale delle
quattro cose che abbiamo detto parliamo? Al di là che le cose si chiamino
‘evoluzione’, ‘adattamento’ ecc., di quale vogliamo parlare? La cosa che mi
interessa di più capire di quello che avete detto è… la faccenda dell’uomo,
la scimmia… quando voi dite che cambia… ditemi bene come avete detto... chi
l’ha detto?»
10:
«Nasce, cresce, muore?»
CONDUTTORE:
«No… com’è che hai detto esattamente?»
8:
«Che c’erano i dinosauri, poi c’erano le scimmie che poi sono diventate
uomini.»
Il conduttore
problematizza una definizione, cercando di comprendere e far comprendere realmente
cosa possa significare tale parola: questo è fondamentale giacché le
categorie di pensiero attraverso le quali impariamo a descrivere il mondo
sono quelle del linguaggio che impariamo a usare; tali rappresentazioni
influenzano a loro volta la comprensione.
CONDUTTORE:
«Bene, fermo lì! quando lui [8] dice che sono diventati uomini, cosa sta
dicendo veramente?... Preciso la domanda: ‘c’era una scimmia, e quella
scimmia lì si è trasformata in uomo’: è questo che noi stiamo dicendo?»
Ritorna il nodo
epistemologico della differenza tra evoluzione di specie e crescita
dell’individuo.
...
CONDUTTORE:
«Il punto importante della domanda è se quell’animale lì prima era una
scimmia e poi si è trasformato in uomo, quindi non c’è più la scimmia ma
c’è l’uomo… Vorrei capire come pensate che succede che una scimmia diventa
uomo… io non ho mai visto una scimmia diventare uomo… può darsi che non
l’abbia vista io…»
Il conduttore cerca a
sua volta di spostare il discorso in un ambito più esperienziale; ora
l’obiettivo è partire da un caso particolare che sia significativo di
qualcosa di generale.
1: «Sì, ma perché
mangiano cose diverse!»
Sembra ipotizzare che
diverse tendenze alimentari possano essere la base per l’origine di diverse
specie. Se si tratta di tendenze ereditarie è un’idea corretta per la
teoria evolutiva-genetica classica. Oggi
addirittura ci sono evidenze scientifiche che le abitudini alimentari
possano essere ereditate con meccanismi epigenetici, cioè in qualche modo lamarckiani.”
Co-costruzione
di conoscenza
Se l’adulto che conduce è
sufficientemente efficace nel “prendersi cura” del processo, la conversazione
“autoorganizzata” dei bambini produce conoscenza
nuova; è un percorso che ha la sua storia locale, con le sue svolte e le
sue accelerazioni:
“ 7: «La scimmia ha imparato delle cose
nuove, è diventata più intelligente, poi magari
ha fatto i figli che sono nati
come lei… e così man mano…»
CONDUTTORE:
«Aspetta, perché riguardo questa cosa… Vi siete accorti cos’ha detto 7 di
diverso dagli altri?»
Il conduttore rimarca ciò che
è stato detto al fine di far cogliere l’importanza di questa nuova idea
emersa.
12:
«Sì.»
M:
«Cosa?»
12:
«Ha detto che la scimmia quando si è evoluta ha fatto i figli e perciò si
è…»
[confusione]
8:
«Io penso che non è possibile che da quando nascono a quando muoiono… cioè
che nascono scimmie e muoiono uomini… succede nel corso degli anni, non è
che una nasce scimmia e poi diventa uomo... si sono adattate all’ambiente
nel corso degli anni…»
Da
questo momento, tutti gli interventi che verranno terranno conto di questo
nuovo elemento: l’intervento di 8 mette in discussione la possibilità che
il cambiamento avvenga nella vita di una singola scimmia e sposta il focus della discussione sulla dimensione
temporale dell’evoluzione (quello che manca qui è l’idea del succedersi delle
generazioni che sembrava essere presente nell’intervento di 12). Tuttavia,
benché 8 abbia introdotto nel campo della discussione degli elementi
pertinenti, non è ancora stata formulata un’ipotesi. È interessante notare
come bambini diversi contribuiscano alla costruzione di un pensiero
collettivo partendo da idee diverse, ma tutte necessarie come elementi da
mettere in relazione per costruire conoscenza su questo argomento.
CONDUTTORE:
«Chi parla dopo tenga conto di quello che è stato detto adesso - è importante!
- mentre loro dicevano che questo cambiamento da scimmia a uomo avviene
nell’arco di una vita, cioè praticamente, sentendo quello che dicono loro,
nasce scimmia poi pian piano comincia a camminare a due zampe ecc… e muore
uomo, cioè pian piano diventa uomo, nell’arco di una vita; loro invece
hanno incominciato a tirare in ballo i figli… la domanda a questo punto
diventa: ma questo cambiamento da scimmia a uomo avviene nell’arco della
vita, quindi nasce scimmia... sì alcune, non tutte… alcune nascono scimmie
e muoiono uomini perché nell’arco della loro vita c’è stato questo cambiamento,
oppure cosa centrano i figli... che lui [12] ha cominciato a nominare?… per
cui d’ora in poi tenete conto di questa novità.»
11:
«Secondo me... sono d’accordo con 8, ma non è che... nascono scimmie e
muoiono uomini perché... non tutte sono diventate uomini… non tutte sono
arrivate all’evoluzione.»
Quella che viene espressa da
11 è l’idea che ad evolvere non è l’intera specie, ma solo una parte (ne
aveva parlato in precedenza 21).”
Spiazzamenti reciproci
Nel prossimo brano è
visibile lo “spiazzamento”, mossa che contrasta con un’idea del prendersi
cura educativo come pura accoglienza o come capacità di mettere l’altro a
proprio agio, perché spiazzare significa non accettare tutto ciò che
l’altro dice, significa metterlo in difficoltà (attraverso domande, controesempi, confutazioni, conflitti cognitivi), con
inevitabili conseguenze sul piano emotivo e relazionale; ma il “piano
emotivo e relazionale” non è separabile da quello cognitivo; lo
spiazzamento è indispensabile per mettere in moto l’apprendimento proprio
perché crea difficoltà (perché dovrei cambiare, o anche solo ampliare,
approfondire, articolare, argomentare le idee che già ho, se funzionano?).
Ma se l’arte di (non) insegnare comprende lo spiazzare, comprende anche il
lasciarsi spiazzare, perché è la reciprocità a garantire l’ “accoppiamento
strutturale” dell’autopoiesi
e quindi un co-sviluppo di (non)insegnante e
allievi.
“ 11: «Allora, come avevano detto anche
loro, solo alcuni gruppi di scimmie si evolvono
e, se non sbaglio, sono le
scimmie antropomorfe… cioè, se io ero una scimmia e sono diventata habilis… mio
figlio si evolverà e andrà avanti con lo sviluppo.»
Qui vengono ripresi i
precedenti interventi di 8 e 12 e viene formulata un’ipotesi, cioè che
l’evoluzione sia un cambiamento attraverso le generazioni.
CONDUTTORE: «Ah: ecco allora cosa
possono entrarci i figli! Cioè lei [11] dice: non è nell’arco di una vita
che uno nasce scimmia e diventa uomo, ma, se nasce scimmia può succedere
che comincia a cambiare un po’ e poi il figlio...»
11: «.... porta a termine la…»
CONDUTTORE: «... diciamo:
parte da dove è arrivato il genitore?»
11: «... il padre, sì...»
CONDUTTORE: «... e poi va
avanti. E quindi per avere tutto
il cambiamento?»
11: «... e il nonno e il
bisnonno…»
Il conduttore si fa
“perturbare” dall’intervento della bambina e l’interazione tra i due porta
a una chiarificazione. Qui è presente quell’ ‘accoppiamento strutturale’ di
cui parla la teoria dell’autopoiesi e che può essere attribuito, in chiave
pedagogica, alla possibilità che nel rapporto tra esperto e bambini intercorrano
reciproche perturbazioni che inneschino dei cambiamenti (Sala, 2007).
CONDUTTORE: «Eh! E come si
chiamano queste robe qua?»
11: «Cioè la famiglia, la…»
CONDUTTORE: «La parola che
usano gli scienziati è ‘generazione’…»
Questo nozione fa parte del
sistema cognitivo dei bambini; nei precedenti interventi essi vi si erano
gradualmente avvicinati, tanto da permettere al conduttore l’introduzione
di un nuovo termine che possono assimilare grazie all’aiuto dell’adulto,
che lo introduce come se fosse un’ ‘etichetta’ messa sopra un’idea appena
espressa dai bambini stessi: siamo nella ‘zona di sviluppo prossimale’.
12: «Allora… perché le
scimmie che vedo adesso non si evolvono in uomini? Magari perché le scimmie
antropomorfe non ci sono più… io non lo so questo.»
La perturbazione reciproca
continua finché quasi non s’invertono i ruoli: adesso è 12 che ha una
domanda, delle perplessità, delle spiegazioni da cercare. Questo mostra
come il ‘gioco linguistico’ attuale sia completamente diverso da quello
iniziale: si è infatti passati dall’ ‘interrogazione’ alla ‘ricerca
cooperativa’.
CONDUTTORE: «Cioè lei [12]
dice che, se le cose vanno come dice lei [11], cioè che una scimmia cambia,
poi fa e figli ecc…, le scimmie che ci sono adesso… perché non cambiano?»
Il conduttore opera uno
spiazzamento: da questo suo intervento è evidente che la domanda è
importante e che la risposta più semplice che poteva esserci, quella che dà
12, non è soddisfacente.
14:
«Allora io sono d’accordo con tutti quelli che hanno detto dei figli… di
come si evolve la scimmia… e mi faccio la stessa domanda di 12: perché le
scimmie antropomorfe non si evolvono più? Forse perché il Rift non si fa
più… cioè… il Rift…»
Questo intervento mostra come
i bambini ‘si ascoltano’ nel senso profondo di ‘si comprendono’ e portano
avanti lo stesso processo collettivo di costruzione di conoscenza. 14
riprende la domanda precedente e cerca di dare una risposta più
soddisfacente: lo fa mettendo in relazione cause ambientali con
l’evoluzione: sarà qualcosa che aveva studiato? Se è così, é possibile
vedere come in questo ‘gioco’ della ricerca i bambini rimettono in gioco in
modo pertinente le informazioni ricevute dall’ambiente.”
Errori
La parola appare pesante, ma la uso perché
credo nell’ “apprendimento per tentativi e errori”: esso implica per l’arte
di (non) insegnare innanzitutto che si possano fare tentativi; poi che gli
errori, ovvero i tentativi non adeguati alla soluzione del problema
cognitivo, siano riconosciuti come tali, perdendo il senso esclusivamente
affettivo per assumere quello funzionale al processo. Fin qui le citazioni
della tesi sembrano aver sostenuto un discorso tutto in positivo rispetto
allo sviluppo della conversazione e all’azione del conduttore; perciò
riporto quest’ultimo brano per ribadire che una lettura critica è quella
che cerca di riconoscere significati
in relazione al contesto, e quindi la loro funzionalità al processo
formativo. È senza alcuna connotazione paradossale dunque che ribadisco che l’atteggiamento critico è componente fondamentale
del “prendersi cura” in campo formativo.
“ 3: «Io penso che noi camminiamo su due
piedi perché loro, quando crescevano... le
braccia non arrivavano più a terra e
così hanno dovuto imparare a camminare soltanto con due piedi.»
Ha un’intuizione di un tema
importante nell’evoluzione della teoria dell’evoluzione, ovvero l’idea che
non tutto si spiega come adattamento della forma alla funzione. Il conduttore
però non coglie questo aspetto e sposta il fuoco del discorso su un altro
tema cruciale: il fatto che la variazione precede la selezione e
l’adattamento.
CONDUTTORE:
«Aspetta, perché questa è una cosa nuova! Dimmi se ho capito bene: tu dici
che prima è successo che avevano le braccia più corte e allora a quel punto
si trovano meglio a camminare su due piedi… è così?»
3:
«Sì.»
CONDUTTORE:
«Bene: è importante questa cosa nuova.»
Il conduttore sottolinea
l’importanza di questo nuovo elemento, ma i prossimi interventi sembrano
non coglierla: potrebbe essere una valutazione sbagliata in termini di ‘zona
di sviluppo prossimale’: l’idea che il cambiamento casuale precede un
possibile processo di selezione e che l’adattamento sia la conseguenza di
questo processo è troppo complessa e lontana dalle rappresentazioni
culturali presenti ai bambini.
....
CONDUTTORE:
«Qualcuno ha detto che ‘la scimmia diventa uomo’ non vuol dire che una
scimmia nasce scimmia e muore uomo; quando si dice così si intende dire che
una scimmia, per ragioni ambientali eccetera, cambia un pochino... i figli
di questa scimmia cambiano un altro pochino e i loro figli un altro
pochino... e dai e dai e dai, di generazione in generazione, dopo mille
anni… c’è un bel cambiamento, e dopo 10.000 anni, dopo 20.000, dopo un
milione di anni...; allora anche per diventare uomo si cambia un pezzettino
per volta. La domanda è: se si cambia un pezzettino per volta, ma non si
cambia perché i figli ereditano la coda tagliata, com’è che i figli sono
cambiati? perché i figli sono cambiati?»
Sembra che il conduttore qui
sia ampiamente fuori dalla ‘zona di sviluppo prossimale’; probabilmente si
è fatto trascinare dal fatto che alcuni interventi dei bambini contengono
intuizioni di elementi importanti della teoria dell’evoluzione e
attribuisce a tutto il gruppo questa competenza; finisce così per assumere,
come misura della competenza, la propria. Può anche essere che il
conduttore, che per molti anni è stato docente di scuola media, sia scivolato
nel ‘gioco’ dell’insegnare.”
La
formazione dei formatori e la ricerca-azione
Come ho accennato precedentemente
questo materiale può essere esempio anche di un’altra modalità del
prendersi cura formativo, quella della ricerca-azione, in un altro livello,
quello della formazione dei formatori.
L’autrice della
registrazione, della trascrizione, delle osservazioni e dei commenti ha fatto
questo lavoro nel contesto della sua ricerca di laurea in scienze della
formazione, seguita da un tutor
che si è preso cura di questo processo; l’intervento di quest’ultimo può essere
letto ancora una volta come un (non) insegnare, caratterizzato da alcune
“mosse”:
- mantenendo la
responsabilità dell’intervento educativo nei confronti dei bambini (era lui
a condurre la conversazione), il tutor
ha coinvolto la studentessa nella progettazione minuta del setting:
disposizione dei corpi nello spazio, previsione di tempi e ritmi
dell’interazione, assegnazione di ruoli (compreso quello da proporre
all’insegnante della classe, fondamentale anche se non coinvolto nella
gestione dei contenuti scientifici), rituali di ingresso, definizione molto
rigorosa delle formulazioni verbali iniziali “di innesco”, messa a punto
del canovaccio con una individuazione delle linee di gestione, dei focus cui ricondurre il discorso,
dei limiti da porre all’improvvisazione...
- il tutor ha assegnato alla studentessa
un ruolo di osservatrice/ascoltatrice che ammetteva anche, quando lei lo
avesse ritenuto opportuno, interventi nei confronti dei bambini all’interno
del gioco della conversazione; in questo modo la sua osservazione era “partecipante”
e responsabile; e lei stessa poteva mettersi alla prova, misurando la
propria capacità di ascolto anche attraverso delle azioni, delle
interazioni con i bambini, che a loro volta sarebbero state oggetto di
ascolto da parte del tutor e
comunque di esame critico nella successiva fase di rielaborazione
dell’esperienza a partire dalla registrazione
- il tutor ha dato alla studentessa il
compito di una lettura personale della registrazione; lettura senza alcuna
griglia, che rilevasse in primo luogo qualsiasi cosa attirasse la sua
attenzione, e solo in un secondo momento cercasse di scoprire proprio
perché quel qualcosa avesse attirato la sua
attenzione: si trattava cioè non di pretendere di annullare un punto di
vista soggettivo, ma al contrario di relativizzare le osservazioni a un
punto di vista biograficamente e culturalmente
caratterizzato
- le osservazioni e i
commenti sono divenuti oggetto di una rilettura critica, in un dialogo tra
autrice e tutor, in cui si è
ricostruito il rapporto tra le ipotesi epistemologiche e pedagogiche che
avevano prodotto quel setting, quel “dispositivo “sperimentale”, e le
osservazioni fatte, per comprendere quanto queste ultime confermassero o
meno quelle, o come le modificassero sulla base di nuove evidenze emerse
dalla realtà della conversazione.
Il “dispositivo pedagogico”
Ho proposto questa conversazione come esempio di quella che ho
chiamato “arte di (non) insegnare”, ma c’è un secondo sfondo
teorico-pratico su cui vorrei proiettare la specificità del prendersi cura
in ambito educativo ed è il “dispositivo pedagogico” proposto da Riccardo
Massa, il pedagogista organizzatore della Facoltà di Scienze
dell’educazione di Milano Bicocca, scomparso nel 1999 (vedi: Rezzara, 2008).
Massa parte dalla convinzione che è il fare esperienza che dà forma
ai soggetti e che perciò su questa il formatore costruisce il proprio
sapere e potere, ovvero le proprie competenze professionali (teoriche e
pratiche): sull’intera esperienza educativa, non solo sulla relazione,
perché l’educazione è una struttura complessa. Riconosciuto il potere
formativo delle pratiche, si tratta per l’educatore di conoscerle e
imparare a gestirle.
Il contesto educativo (un mondo II) si
configura come una esperienza di vita, tuttavia diversa da quella della
vita diffusa (mondo I), perché intenzionata da finalità educative,
funzionale cioè a costruire competenze per il mondo I: ciò comporta una
specificità nell’allestimento e nella gestione di spazi e oggetti, nella
scansione di tempi, nella pratica del corpo (gestualità), nella istituzione
di riti e nella realizzazione di eventi, nella definizione e attivazione di
regole, nella articolazione di attività, nella predisposizione di materiali,
nell’uso di linguaggi che fanno emergere significati...
L’educatore dunque non si limita a trasmettere contenuti culturali,
a dare spazio alla spontaneità dei vissuti e delle relazioni, ma produce un
campo simbolico e materiale, attivando prassi educanti attraverso
l’organizzazione e gestione del dispositivo,
che è una struttura di spazi,
tempi, corpi, soggetti, oggetti, attività, regole, riti, simboli,
linguaggi.
Questo mondo II è un campo di esperienza e
di interpretazione in cui viene data la possibilità di esplorare e
rielaborare il mondo I. L’intenzionalità educativa si esprime soprattutto
nel progettare il dispositivo.
Anche la dimensione
della formazione dei formatori ha trovato nella ricerca di Riccardo Massa
sviluppi di grande interesse professionale e culturale. La “clinica della
formazione” (Massa, 1993) è a sua volta un dispositivo formativo complesso,
cui non pretendo certo di ascrivere l’esempio su riportato; mi limito a
riconoscere con gratitudine a Riccardo Massa la fecondità che, in modi
sicuramente inadeguati e per certi versi anche eterodossi, le sue idee
hanno avuto nello sviluppo della mia professionalità.
Quando propongo una
discussione critica su esperienze locali e contestualizzate, storie di formazione,
assumendole come esempi di qualche cosa di più generale, penso alla sua
idea di rendere presente il corpo
della formazione, un oggetto del tutto astratto, attraverso le esperienze
vive dei corpi dei formatori, su cui non si tratta di mettere in campo
libere interpretazioni soggettive, ma di praticare un rigoroso dispositivo
di rielaborazione collettiva.
La denominazione
“clinica della formazione” chiaramente rimanda al mondo della cura, e così
Massa ne scrive con riferimento all’etimologia (klinomai =
chinarsi su): “... questo chinarsi
con intento conoscitivo verso qualcosa che, per malattia o per contratto, o
anche per mera contingenza, sta nudo e disteso, ma non per questo meno
nascosto davanti a noi...” (Massa, 1993, pag 23).
Bibliografia
Massa
Riccardo, a cura di, La clinica della formazione, Franco Angeli,
Milano 1993
Mazzocchi
Francesca, Come i bambini costruiscono le conoscenze sull’evoluzione a
scuola: un’esperienza in classe, tesi di laurea in Scienze
dell’Educazione, Facoltà di Scienze della Formazione, Università di Milano
Bicocca, a.a. 2008-2009.
Maturana Humberto – Varela Francisco (1980), Autopoiesis
and cognition, Reidel,
Dordrecht; ed. it. Autopoiesi e cognizione, Marsilio,
Venezia 1985.
Pontecorvo Clotilde e al., Discutendo si impara, La Nuova
Italia Scientifica, Roma 1991.
Rezzara
Anna, L’educazione come dispositivo,
PGreco, Milano 2008.
Rosseau
Jean Jacques, (1762), Emilio o dell’educazione, ed. it. Mondadori, Milano 1997
Sala Marcello, Il volo di Perseo, Junior, Azzano S.
Paolo 2004.
Sala Marcello, L’arte di (non) insegnare, Change,
Torino 2007.
Sala Marcello, Evoluzione a scuola, Change, Torino
2007.
Sala Marcello, Incertezza e arte di (non) insegnare, in Riflessioni
sistemiche, n. 1/2009.
Vygotskij
Lev, (1934), Pensiero e linguaggio. Ricerche
psicologiche, ed. it. Laterza, Roma-Bari,1990
Wittgenstein
L., (1953), Philosophische Untersuchungen,
G.E.M. Anscombe
& R. Rhees, Oxford; ed. it. Ricerche filosofiche, Einaudi,
Torino 1999.
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