Darwin e l’evoluzione
della teoria dell’evoluzione Oggi più che mai l’evoluzione ha dei nemici e
non sono certo quelli che confutano parti della teoria sviluppando soluzioni
alternative, perché costoro si collocano all’interno del programma di ricerca
evoluzionistico e del gioco della scienza, rafforzando l’uno e l’altra. I nemici sono coloro che per ragioni
culturali religiose ideologiche sono contrari all’idea di evoluzione, come
oggi i sostenitori del “disegno
intelligente”, che scelgono la strategia sporca di presentare
l’evoluzione in modo così deformato da farla apparire inaccettabile, manipolando anche la scienza, come se non
avesse uno statuto consolidato e condiviso. Nella prima famosa disputa tra Huxley e
l’arcivescovo Wilberforce, attribuire agli evoluzionisti l’idea che “l’uomo
discende dalla scimmia” anziché “l’uomo e la scimmia hanno antenati comuni
che risalgono a 7 milioni di anni fa (200-300 mila generazioni)” era un modo
sicuro per rendere inaccettabili le idee evoluzioniste al pubblico
vittoriano, che del progresso umano (culminante nell’ Homo britannicus imperialis) faceva il proprio paradigma
culturale. Sono passati 150 anni e la mossa retorica è
sempre la stessa, scorretta e volgare; ma, siccome punta su ciò che appare e
sull’azzeramento del pensiero critico, è vincente in un mondo dove il
linguaggio della pubblicità è andato al potere. Un articolo di qualche mese
fa de Il giornale che presenta il
libro della moglie di Alberoni [1]
inizia così: “Discendiamo davvero dalle
scimmie?”. Come risulta chiaro dal testo dell’articolo si tratta di una
domanda retorica che serve ad attribuire ai “cattivi maestri della ‘darwinolatria’ ” l’idea che “I nostri progenitori erano scimpanzè”. Nell’articolo si legge: “La selezione naturale secondo la legge dell’evoluzione va applicata
anche per sopprimere i più deboli, i meno fortunati, gli handicappati, magari
prima che nascano?”, dove si tracciano legami arbitrari tra selezione
naturale - selezione eugenetica – aborto, sempre per rendere le presunte
teorie evoluzioniste inaccettabili; l’evidente evocazione del nazismo viene
esplicitata dalla Alberoni: “non è un
caso che il darwinismo abbia prodotto aberrazioni come il razzismo, il
classismo, l’eugenetica, il peggior capitalismo, la discriminazione
biologica”. É il modo di procedere degli “atei devoti”,
ignoranti nel merito di questioni che non hanno interesse a conoscere, che
vogliono abolire l’evoluzione (dalla scuola innanzitutto) per fare un piacere
politico a chi apertamente dichiara che “la scienza non deve essere autonoma”
(naturalmente tutti, anche gli scienziati, possiamo essere d’accordo che la
scienza non debba sottrarsi a una responsabilità etica e politica che
riguarda tutti in quanto cittadini; ma chi pronuncia quella frase si
riferisce alla subordinazione della scienza ai dettami di una chiesa, e in questo senso nulla è
cambiato dai tempi del processo a Galileo). Ma i nemici più subdoli e pericolosi sono
come sempre quelli che stanno dalla tua parte e sono quelli che per divulgare volgarizzano fino a deformare ancora una volta le idee
dell’evoluzione. Chi per mestiere deve suscitare attenzione ed emozione con
il minor numero di parole, possibilmente semplici, per quanto onesto, avrà
sicuramente grossi problemi a comunicare qualcosa di complesso che richiede
molte informazioni, ragionamento, prudenza nella scelta dei modelli, ancora
più prudenza nella scelta delle metafore, pazienza e cura nella costruzione delle idee. Per fare un
esempio, l’espressione “la giraffa ha progressivamente allungato il collo per
mangiare le foglie in cima agli alberi” usata come emblema del pensiero di
Darwin contiene più errori che parole, primo fra i quali suggerire
precisamente l’idea cui si è opposta la teoria dell’evoluzione darwiniana e
cioè che la storia naturale ha un fine ed è diretta da una intenzionalità. Il
corallo della vita 200 anni fa nasceva Charles Darwin e 150 anni
fa esordiva in pubblico la teoria dell’evoluzione che lui aveva costruito fin
dal 1838. Quando nel 1858 la lettera di Wallace fa
precipitare la pubblicazione de L’origine
delle specie, Darwin la considera solo una anticipazione della sua opera,
perché ritiene di non avere ancora documentazioni adeguate. Quei 21 anni
spesi a raccogliere osservazioni, a fare esperimenti, a riflettere,
dimostrano la meticolosità con cui Darwin interpreta il suo ruolo di
scienziato, non disposto a transigere sulla rigorosità delle prove e delle
argomentazioni; ma dimostrano anche un rispetto per il contesto culturale e
sociale in cui la proposta di quella teoria non potrà che portare scandalo;
non rinuncia a nulla della sua “verità”, ma non fa nulla per provocare:
sceglie la via della scientificità. Separare e contrapporre scientificità e
affettività è un errore epistemologico che continua ad avere gravi
conseguenze educative: possiamo immaginare quanto Darwin, che ci ha speso
tutta la vita, fosse “affezionato” alla sua teoria, eppure dedica un capitolo
del libro (due nella VI edizione) alle critiche degli avversari; e non cede
alla tentazione di deformare o mettere in ridicolo le loro affermazioni, ma
anzi sostiene che, se verificate, sarebbero “fatali per la mia teoria”; e le affronta nel merito. Il
viaggio A vent’anni Charles potrebbe essere uno dei
nostri “bamboccioni”, ma poi si imbarca su una nave di Come geologo è già in grado di interpretare
ciò che vede alla luce di un sapere consolidato. Lui però si professa
“baconiano” induttivista, e in effetti, per quanto riguarda le scienze del
vivente, raccoglie e osserva tutto con grande accuratezza senza avere una
teoria; ha sicuramente come premesse implicite quelle creazioniste della teologia naturale di Paley (la
perfezione adattativa degli organismi testimonia l’esistenza di un sommo
progettista). Le premesse epistemologiche derivanti
dall’appartenenza a una cultura, tanto più profonde quanto meno consapevoli,
sono quelle che fanno da filtro interpretativo, inserendo nella propria mappa qualunque dato provenga
dall’osservazione del territorio.
Gli antropologi sono sottoposti a un doppio
vincolo: devono interpretare ciò che osservano nel contesto della cultura
osservata e non della propria, ma è proprio quella cultura che non conoscono;
la situazione di Darwin è simile, salvo che il suo territorio è la natura, e il suo atteggiamento può essere
definito etnografico. Nel caso
della natura, come ci insegna Kant, non è possibile accedere direttamente al territorio, si possono solo costruire mappe, ma la qualità della mappa è la sua vicinanza al territorio; come ci ricorda Bateson,
il vivente ha un suo linguaggio,
perché il mondo degli organismi è governato dalla comunicazione, e il
linguaggio con cui lo si descrive
deve essere il più possibile coerente a quello, pena un rapporto patologico
con la natura (la crisi ecologica è dovuta a “errori di pensiero”). Quando Darwin torna dal viaggio ci mette due
anni a elaborare la sua teoria e tutto il resto della vita ad approfondirla.
Gli appunti che scrive dal ’36 al ’38 [2],
non essendo una ricostruzione a posteriori, né tanto meno un’epopea
celebrativa, ma un diario di lavoro, sono una eccezionale testimonianza di
come lavora la sua mente di scienziato. Procede per esplorazioni e
intuizioni, partendo dal materiale che ha raccolto, formulando ipotesi
provvisorie, catturando e vagliando idee dalle letture, dalla corrispondenza
con altri scienziati e allevatori, da esperimenti diretti o virtuali; mette a
fuoco dei pattern di dati, li
interpreta, cerca un motore causale, cerca esempi che confermano o che
confutano. In lui troviamo, forse per l’ultima volta in
una persona sola, il geologo e l’ecologo, lo zoologo e l’etologo, il botanico
e l’embriologo, l’antropologo e il genetista (anche se pre-mendeliano)...;
alcune scienze se le inventa, ma ciò che è più significativo è che tutte
convergono in una teoria unitaria, rigorosamente scientifica nel metodo, ma
che fa i conti con un oggetto che non permette ripetizioni: la storia
naturale. Non ha inventato l’evoluzione, ma ne ha dato
una spiegazione naturalistica.
Partito dalla domanda sul perché della diversità delle forme naturali, ne
capovolge il significato tradizionale di deviazione da un modello (idea
platonica o archetipo creazionistico): l’individuo nella sua diversità è il
dato naturale e la specie è un insieme di individui
diversi. “Non nominare il nome di Dio invano” Anche quando non ha dubbi
religiosi, Darwin non confonde il credere nell’esistenza di un Dio creatore
con le rappresentazioni delle
modalità della creazione che sono inevitabilmente prodotto della cultura. Per
lui “non nominare il nome di Dio invano” significa non attribuire alle
modalità di azione di Dio i limiti della propria rappresentazione umana. Il contrasto tra la continuità
del vivente nel passaggio da una forma nell’altra e la distinzione delle specie
nello spazio e nel tempo Darwin lo risolve con l’idea della discendenza comune; è l’immagine
dell’albero, o meglio del “corallo”,
della vita. Trova nella competizione per le
risorse il motore causale della sopravvivenza differenziale degli organismi,
che chiama “selezione naturale” con una metafora di successo, purtroppo
infelice perché (come lui stesso annota) suggerisce di nuovo l’esistenza di
un soggetto esterno; individua nella ereditarietà la chiave necessaria perché
questa dinamica porti, attraverso le generazioni, all’evoluzione. Gli manca
ciò che Mendel comincerà a scoprire e quindi aderisce all’idea lamarckiana
della ereditarietà dei caratteri acquisiti (tanto per dire dei nostri libri
di testo che evocano una disputa fasulla tra Lamarck e Darwin su questo). Gli
sbagli Molti epistemologi pensano che caratteristica
della scienza sia quella di fare “predizioni pericolose”, nel senso che
aprono la possibilità di una falsificazione. Darwin le fa a proposito dei
fossili: mette in gioco un aspetto della sua teoria, il gradualismo, ovvero l’accumulo continuo e progressivo di
modificazioni, e perde, perché i dati paleontologici, oggi come allora, non
testimoniano un ritmo costante nel mutamento. Darwin ha commesso sbagli, nel senso che
nella scienza si dà a questo termine e che si riferisce alla non adeguatezza
di una teoria a dare ragione di tutti i fenomeni osservati o a predirli; ma
il grande programma di ricerca evoluzionistico è vivo più che mai, perché
capace al suo interno di correggere gli errori e di integrare le nuove
acquisizioni. Il nucleo centrale della teoria di Darwin, la
discendenza comune delle specie, è
messo in dubbio solo fuori dall’ambito della comunità scientifica,
esattamente come miti e fiction e
metafore, di cui non si discute la significatività all’interno dei rispettivi
contesti, possono rappresentarsi un Sole che gira attorno alla Terra, un homunculus preformato nello
spermatozoo o una Terra vecchia di poche migliaia di anni. La Sintesi
moderna degli anni 30-50 del ‘900 consolida il nucleo darwiniano con
l’innesto della genetica (variazione
genetica dei caratteri - competizione per le risorse - sopravvivenza
differenziale – ereditarietà dei caratteri – spostamento della distribuzione
della popolazione) ed esso viene poi ulteriormente esteso (sorgenti di variazione – deriva genetica –
migrazione - radiazione adattativa - estinzione di massa). Non solo vengono aggiunte nuove idee,
derivanti dall’esplorazione di nuovi campi, ma alcune, collocate attorno al nucleo, sono messe in
discussione o addirittura falsificate,
come abbiamo visto, e sostituite: il gradualismo
da una pluralità di ritmi con
alternanze di stasi e di radiazioni adattative che seguono le
estinzioni (equilibri punteggiati),
l’estrapolazionismo, ovvero
l’idea che i fenomeni della
macroevoluzione (speciazioni)
derivano dalla dinamica microevolutiva (selezione degli individui), da una
pluralità di livelli parzialmente indipendenti (gene – individuo –
popolazione - clade); l’adattazionismo, cioè l’idea di una ottimizzazione funzionale parte per parte,
da una pluralità di fattori di relazione tra funzioni e strutture (e tra
dinamiche dell’evoluzione e dello sviluppo embrionale: Evo-Devo). La straordinaria
fecondità della teoria darwiniana è testimoniata dal fatto che alcune delle
idee che hanno sostituito quelle classiche hanno rimesso in gioco intuizioni
che Darwin stesso aveva avuto (è il caso dell’exaptation, ovvero l’affermarsi di caratteri di origine non
adattativa, o dell’importanza dei vincoli strutturali ereditati rispetto
all’adattamento funzionale) o che addirittura aveva abbandonato e negato a
favore del gradualismo, come la speciazione
allopatrica o la trasmutazione per
salti. |