Marcello Sala

 

IL CORALLO DELLA VITA

-pubblicato in-

ècole n.71/dic 2008

Associazione Idee per l’educazione

 

Darwin e l’evoluzione della teoria dell’evoluzione

Oggi più che mai l’evoluzione ha dei nemici e non sono certo quelli che confutano parti della teoria sviluppando soluzioni alternative, perché costoro si collocano all’interno del programma di ricerca evoluzionistico e del gioco della scienza, rafforzando l’uno e l’altra.

I nemici sono coloro che per ragioni culturali religiose ideologiche sono contrari all’idea di evoluzione, come oggi i sostenitori del “disegno intelligente”, che scelgono la strategia sporca di presentare l’evoluzione in modo così deformato da farla apparire inaccettabile, manipolando anche la scienza, come se non avesse uno statuto consolidato e condiviso.

Nella prima famosa disputa tra Huxley e l’arcivescovo Wilberforce, attribuire agli evoluzionisti l’idea che “l’uomo discende dalla scimmia” anziché “l’uomo e la scimmia hanno antenati comuni che risalgono a 7 milioni di anni fa (200-300 mila generazioni)” era un modo sicuro per rendere inaccettabili le idee evoluzioniste al pubblico vittoriano, che del progresso umano (culminante nell’ Homo britannicus imperialis) faceva il proprio paradigma culturale.

Sono passati 150 anni e la mossa retorica è sempre la stessa, scorretta e volgare; ma, siccome punta su ciò che appare e sull’azzeramento del pensiero critico, è vincente in un mondo dove il linguaggio della pubblicità è andato al potere. Un articolo di qualche mese fa de Il giornale che presenta il libro della moglie di Alberoni [1] inizia così: “Discendiamo davvero dalle scimmie?”. Come risulta chiaro dal testo dell’articolo si tratta di una domanda retorica che serve ad attribuire ai “cattivi maestri della ‘darwinolatria’ ”  l’idea che “I nostri progenitori erano scimpanzè”.

Nell’articolo si legge: “La selezione naturale secondo la legge dell’evoluzione va applicata anche per sopprimere i più deboli, i meno fortunati, gli handicappati, magari prima che nascano?”, dove si tracciano legami arbitrari tra selezione naturale - selezione eugenetica – aborto, sempre per rendere le presunte teorie evoluzioniste inaccettabili; l’evidente evocazione del nazismo viene esplicitata dalla Alberoni: “non è un caso che il darwinismo abbia prodotto aberrazioni come il razzismo, il classismo, l’eugenetica, il peggior capitalismo, la discriminazione biologica”.

É il modo di procedere degli “atei devoti”, ignoranti nel merito di questioni che non hanno interesse a conoscere, che vogliono abolire l’evoluzione (dalla scuola innanzitutto) per fare un piacere politico a chi apertamente dichiara che “la scienza non deve essere autonoma” (naturalmente tutti, anche gli scienziati, possiamo essere d’accordo che la scienza non debba sottrarsi a una responsabilità etica e politica che riguarda tutti in quanto cittadini; ma chi pronuncia quella frase si riferisce alla subordinazione della scienza ai dettami di una chiesa, e in questo senso nulla è cambiato dai tempi del processo a Galileo).

Ma i nemici più subdoli e pericolosi sono come sempre quelli che stanno dalla tua parte e sono quelli che per divulgare volgarizzano fino a deformare ancora una volta le idee dell’evoluzione. Chi per mestiere deve suscitare attenzione ed emozione con il minor numero di parole, possibilmente semplici, per quanto onesto, avrà sicuramente grossi problemi a comunicare qualcosa di complesso che richiede molte informazioni, ragionamento, prudenza nella scelta dei modelli, ancora più prudenza nella scelta delle metafore, pazienza e cura nella costruzione delle idee. Per fare un esempio, l’espressione “la giraffa ha progressivamente allungato il collo per mangiare le foglie in cima agli alberi” usata come emblema del pensiero di Darwin contiene più errori che parole, primo fra i quali suggerire precisamente l’idea cui si è opposta la teoria dell’evoluzione darwiniana e cioè che la storia naturale ha un fine ed è diretta da una intenzionalità.

Il corallo della vita

200 anni fa nasceva Charles Darwin e 150 anni fa esordiva in pubblico la teoria dell’evoluzione che lui aveva costruito fin dal 1838.

Quando nel 1858 la lettera di Wallace fa precipitare la pubblicazione de L’origine delle specie, Darwin la considera solo una anticipazione della sua opera, perché ritiene di non avere ancora documentazioni adeguate. Quei 21 anni spesi a raccogliere osservazioni, a fare esperimenti, a riflettere, dimostrano la meticolosità con cui Darwin interpreta il suo ruolo di scienziato, non disposto a transigere sulla rigorosità delle prove e delle argomentazioni; ma dimostrano anche un rispetto per il contesto culturale e sociale in cui la proposta di quella teoria non potrà che portare scandalo; non rinuncia a nulla della sua “verità”, ma non fa nulla per provocare: sceglie la via della scientificità.

Separare e contrapporre scientificità e affettività è un errore epistemologico che continua ad avere gravi conseguenze educative: possiamo immaginare quanto Darwin, che ci ha speso tutta la vita, fosse “affezionato” alla sua teoria, eppure dedica un capitolo del libro (due nella VI edizione) alle critiche degli avversari; e non cede alla tentazione di deformare o mettere in ridicolo le loro affermazioni, ma anzi sostiene che, se verificate, sarebbero “fatali per la mia teoria”; e le affronta nel merito.

Il viaggio

A vent’anni Charles potrebbe essere uno dei nostri “bamboccioni”, ma poi si imbarca su una nave di 30 m. dove non c’è la mamma che gli prepara la colazione e gli rifà il letto, ma Fitzroy, capitano della Marina di Sua Maestà, signore assoluto della vita dell’equipaggio. Il viaggio attorno al mondo dura 5 anni, e il giovane Darwin, tra mal di mare, cavalcate nella pampa, bivacchi, tempeste, terremoti, si assume la responsabilità di un lavoro da scienziato professionista.

Come geologo è già in grado di interpretare ciò che vede alla luce di un sapere consolidato. Lui però si professa “baconiano” induttivista, e in effetti, per quanto riguarda le scienze del vivente, raccoglie e osserva tutto con grande accuratezza senza avere una teoria; ha sicuramente come premesse implicite quelle creazioniste della teologia naturale di Paley (la perfezione adattativa degli organismi testimonia l’esistenza di un sommo progettista).

Le premesse epistemologiche derivanti dall’appartenenza a una cultura, tanto più profonde quanto meno consapevoli, sono quelle che fanno da filtro interpretativo, inserendo nella propria mappa qualunque dato provenga dall’osservazione del territorio. Gli antropologi sono sottoposti a un doppio vincolo: devono interpretare ciò che osservano nel contesto della cultura osservata e non della propria, ma è proprio quella cultura che non conoscono; la situazione di Darwin è simile, salvo che il suo territorio è la natura, e il suo atteggiamento può essere definito etnografico. Nel caso della natura, come ci insegna Kant, non è possibile accedere direttamente al territorio, si possono solo costruire mappe, ma la qualità della mappa è la sua vicinanza al territorio; come ci ricorda Bateson, il vivente ha un suo linguaggio, perché il mondo degli organismi è governato dalla comunicazione, e il linguaggio con cui lo si descrive deve essere il più possibile coerente a quello, pena un rapporto patologico con la natura (la crisi ecologica è dovuta a “errori di pensiero”).

Quando Darwin torna dal viaggio ci mette due anni a elaborare la sua teoria e tutto il resto della vita ad approfondirla. Gli appunti che scrive dal ’36 al ’38 [2], non essendo una ricostruzione a posteriori, né tanto meno un’epopea celebrativa, ma un diario di lavoro, sono una eccezionale testimonianza di come lavora la sua mente di scienziato. Procede per esplorazioni e intuizioni, partendo dal materiale che ha raccolto, formulando ipotesi provvisorie, catturando e vagliando idee dalle letture, dalla corrispondenza con altri scienziati e allevatori, da esperimenti diretti o virtuali; mette a fuoco dei pattern di dati, li interpreta, cerca un motore causale, cerca esempi che confermano o che confutano.

In lui troviamo, forse per l’ultima volta in una persona sola, il geologo e l’ecologo, lo zoologo e l’etologo, il botanico e l’embriologo, l’antropologo e il genetista (anche se pre-mendeliano)...; alcune scienze se le inventa, ma ciò che è più significativo è che tutte convergono in una teoria unitaria, rigorosamente scientifica nel metodo, ma che fa i conti con un oggetto che non permette ripetizioni: la storia naturale.

Non ha inventato l’evoluzione, ma ne ha dato una spiegazione naturalistica. Partito dalla domanda sul perché della diversità delle forme naturali, ne capovolge il significato tradizionale di deviazione da un modello (idea platonica o archetipo creazionistico): l’individuo nella sua diversità è il dato naturale e la specie è un insieme di individui diversi.

“Non nominare il nome di Dio invano”

Anche quando non ha dubbi religiosi, Darwin non confonde il credere nell’esistenza di un Dio creatore con le rappresentazioni delle modalità della creazione che sono inevitabilmente prodotto della cultura. Per lui “non nominare il nome di Dio invano” significa non attribuire alle modalità di azione di Dio i limiti della propria rappresentazione umana.

Il contrasto tra la continuità del vivente nel passaggio da una forma nell’altra e la distinzione delle specie nello spazio e nel tempo Darwin lo risolve con l’idea della discendenza comune; è l’immagine dell’albero, o meglio del “corallo”, della vita.

Trova nella competizione per le risorse il motore causale della sopravvivenza differenziale degli organismi, che chiama “selezione naturale” con una metafora di successo, purtroppo infelice perché (come lui stesso annota) suggerisce di nuovo l’esistenza di un soggetto esterno; individua nella ereditarietà la chiave necessaria perché questa dinamica porti, attraverso le generazioni, all’evoluzione. Gli manca ciò che Mendel comincerà a scoprire e quindi aderisce all’idea lamarckiana della ereditarietà dei caratteri acquisiti (tanto per dire dei nostri libri di testo che evocano una disputa fasulla tra Lamarck e Darwin su questo).

Gli sbagli

Molti epistemologi pensano che caratteristica della scienza sia quella di fare “predizioni pericolose”, nel senso che aprono la possibilità di una falsificazione. Darwin le fa a proposito dei fossili: mette in gioco un aspetto della sua teoria, il gradualismo, ovvero l’accumulo continuo e progressivo di modificazioni, e perde, perché i dati paleontologici, oggi come allora, non testimoniano un ritmo costante nel mutamento.

Darwin ha commesso sbagli, nel senso che nella scienza si dà a questo termine e che si riferisce alla non adeguatezza di una teoria a dare ragione di tutti i fenomeni osservati o a predirli; ma il grande programma di ricerca evoluzionistico è vivo più che mai, perché capace al suo interno di correggere gli errori e di integrare le nuove acquisizioni.

Il nucleo centrale della teoria di Darwin, la discendenza comune delle specie, è messo in dubbio solo fuori dall’ambito della comunità scientifica, esattamente come miti e fiction e metafore, di cui non si discute la significatività all’interno dei rispettivi contesti, possono rappresentarsi un Sole che gira attorno alla Terra, un homunculus preformato nello spermatozoo o una Terra vecchia di poche migliaia di anni.

La Sintesi moderna degli anni 30-50 del ‘900 consolida il nucleo darwiniano con l’innesto della genetica (variazione genetica dei caratteri - competizione per le risorse - sopravvivenza differenziale – ereditarietà dei caratteri – spostamento della distribuzione della popolazione) ed esso viene poi ulteriormente esteso (sorgenti di variazione – deriva genetica – migrazione - radiazione adattativa - estinzione di massa).

Non solo vengono aggiunte nuove idee, derivanti dall’esplorazione di nuovi campi, ma alcune, collocate attorno al nucleo, sono messe in discussione o addirittura falsificate, come abbiamo visto, e sostituite: il gradualismo da una pluralità di ritmi con alternanze di stasi e di radiazioni adattative che seguono le estinzioni (equilibri punteggiati), l’estrapolazionismo, ovvero l’idea che i fenomeni della macroevoluzione (speciazioni) derivano dalla dinamica microevolutiva (selezione degli individui), da una pluralità di livelli parzialmente indipendenti (gene – individuo – popolazione - clade); l’adattazionismo, cioè l’idea di una ottimizzazione funzionale parte per parte, da una pluralità di fattori di relazione tra funzioni e strutture (e tra dinamiche dell’evoluzione e dello sviluppo embrionale: Evo-Devo).

La straordinaria fecondità della teoria darwiniana è testimoniata dal fatto che alcune delle idee che hanno sostituito quelle classiche hanno rimesso in gioco intuizioni che Darwin stesso aveva avuto (è il caso dell’exaptation, ovvero l’affermarsi di caratteri di origine non adattativa, o dell’importanza dei vincoli strutturali ereditati rispetto all’adattamento funzionale) o che addirittura aveva abbandonato e negato a favore del gradualismo, come la speciazione allopatrica o la trasmutazione per salti.

 

 



[1]  Non è un rigurgito di sciovinismo maschilista da parte mia: è la signora Rosa Giannetta che per la pubblicazione dei suoi libri usa il solo cognome del celebre marito.

[2] Charles Darwin, Taccuini, a cura di Telmo Pievani, Laterza 2008.