Ho visto una 5a elementare
impegnata in uno spettacolo su Darwin.
Una bimba recitava, camminando in mezzo agli spettatori, l’inizio del
libro del Genesi. Aveva una notevole “presenza” e un buon uso della
voce-corpo, ma è anche vero che ciò bastava, perché il linguaggio biblico ha
un suo potente registro poetico. Più avanti nello spettacolo a mettere in
scena le idee di Darwin erano vari piccoli attori che leggevano da un leggìo ai margini della scena; insomma “voci fuori campo”
che porgevano testi scritti, o scelti, evidentemente dalle insegnanti per comunicare
con il massimo di concisione e di efficacia esplicativa alcuni nodi teorici.
Su un palcoscenico, dove il rapporto con il pubblico non può fare a meno di
un coinvolgimento emozionale, il Genesi stravince per la carica di emotività
che il linguaggio poetico porta con sé. Spesso il contenuto scientifico è affidato a interventi che si
collocano fuori dall’azione scenica, come quelli di un narratore. Oppure, se
si tratta di personaggi della vicenda, in quei momenti “escono” dall’azione e
si rivolgono direttamente al pubblico con commenti e spiegazioni. Perfino in un video, realizzato da una 2a
media con una padronanza del linguaggio cinematografico quasi professionale,
con un gioco di montaggio a sostenere la sceneggiatura, e in cui i ragazzi
recitano, quando si arriva al momento della scienza (in questo caso si tratta
di interviste a scienziate famose), si nota che l’inquadratura si blocca e il
ritmo si spegne per far posto al testo. E credo che questo accada proprio
perché ci si accosta al testo scientifico con rispetto del linguaggio, della
correttezza dei contenuti. È come se la “finzione” scenica entrasse in conflitto
con la “verità” scientifica. LEZIONI DI SCIENZE La “lezione” di chi sa a chi non sa è la modalità più usata nel
teatro scientifico scolastico per porgere al pubblico contenuti scientifici.
Gli insegnanti-registi lo negheranno, ma questo conferma l’impressione che
non sia una scelta, ma l’unica possibilità contemplata dalla cultura della
comunicazione scientifica in cui siamo immersi. Di sicuro dentro uno
spettacolo la lezione non funziona, diciamo che non riesce a tenere
l’attenzione dello spettatore; ma non funziona neppure a livello scientifico
perché va incontro a tutti i rischi della semplificazione, che aumentano in
questa situazione. SCIENZA ED EMOZIONE Nella performance di un gruppo di teatro di studenti di 5a superiore, interessante per il tentativo di
mettere in scena un lavoro di improvvisazione, la disputa scientifica veniva volgarizzata e il linguaggio scientifico
ridicolizzato per le esigenze del comico, ma con questo il contenuto
scientifico si dissolveva e al pubblico non era dato riconoscerlo. In un’altro spettacolo in costume di ragazzi di 5a superiore, che traeva spunto dalla storia,
i conflitti tra scienziati si riducevano a invidie, gelosie, piccoli
complotti, che forse avrebbero richiesto una chiave comica o una virata sul
tragico. Il contenuto scientifico o veniva trascurato non essendo rilevante
per la dinamica della messa in scena, oppure veniva elevato al livello
epistemologico, ma solo attraverso le parole divenute “difficili” nei
discorsi dei personaggi, ricadendo nel registro didascalico. Vorrei discutere questa premessa provando a argomentare su tre
tesi: -
il teatro scientifico a scuola non ha la funzione di insegnare
scienza al pubblico; -
per costruire conoscenza scientifica la lezione non è una
modalità adeguata; -
la scienza non si “comunica”. I bambini di 1a elementare
che ho visto fare il pane sulla scena lo facevano con gesti così convincenti
che rivelavano una conoscenza approfondita: il processo di panificazione era
sicuramente stato oggetto di esperienza che, se non era già scientifica, ne
era la premessa. Per due anni consecutivi una classe di scuola elementare (8-9 anni) ha messo in scena spettacoli in cui la scienza
era presente come tema sociologico e culturale: il progresso con le sue
seduzioni e i suoi rischi, l’immagine mitica dello “scienziato pazzo”. In
questo contesto una modalità fondamentale del pensiero scientifico, il
pensare “cosa succede se…”, è diventata il motore di una fantasia incanalata
in chiave comica a fare i conti con la specificità del linguaggio teatrale e
con le difficoltà che ad esso pongono scelte economiche ma anche educative
come quella di lavorare con una troupe
di 50 bambini. Lo spettacolo metteva in gioco competenze attoriali
(un solido senso dello spazio e del tempo, del movimento collettivo, consapevolezza
della “macchina” teatrale...) che non sono direttamente in relazione con la
conoscenza scientifica, però io credo che la chiave per tenere insieme
teatralità e conoscenza sia stata la scelta di un argomento che ha a che fare
con la percezione e la rappresentazione della scienza e con componenti
epistemologiche (il pensiero ipotetico) che i bambini vivono di persona, nel
bagno di cultura in cui sono immersi, e che quindi conoscono come propria
esperienza. Ho usato il termine “epistemologiche” con assoluta
intenzionalità: se il sapere scientifico si accumula e quindi aumenta con lo
studio e quindi forse con l’età, l’epistemologia (come conosco ciò che
conosco) è un’esperienza che tutti vivono (non possono fare a meno di vivere)
dalla nascita; e il conoscere dei bambini è un’attività sicuramente più a
largo spettro di quella degli adulti che si specializzano solo in alcune
modalità. Ma torniamo alla questione dell’apprendimento dalla parte del
pubblico. Forse è una deformazione professionale degli insegnanti, che
peraltro si trasferisce al mondo della comunicazione, pensare che il pubblico
debba imparare qualcosa di scienze. Sarebbe più facile rinunciare a questo
obiettivo se si fosse convinti che rinunciandovi non si tradisce la scienza,
anzi... Nello suo spettacolo una 5a liceo ha messo in scena il dramma umano di Saccheri, precursore delle geometrie non euclidee,
dilaniato da conflitti esistenziali. Quello che lo
spettatore percepiva attraverso l’azione teatrale era che per il personaggio Saccheri il merito del conflitto scientifico era vitale,
ovvero che su di esso il vissuto era carico di investimenti valoriali, di sentimenti.
Dunque la matematica non era solo un
pretesto per altre dinamiche psicologiche, ma materia drammatica. Il problema era come far capire allo
spettatore quale fosse la sostanza matematica del dramma matematico. Nello
spettacolo le soluzioni adottate sembravano due: nella cornice alla vicenda
di Saccheri, in cui una classe si occupava di Saccheri, c’era ancora una volta una professoressa che
spiegava ed era una soluzione un po’ scontata, ma soprattutto estrinseca; la
seconda, che si collocava invece dentro la vicenda messa in scena,
soprattutto in alcuni dialoghi, era più convincente. Non veniva tradito il
contenuto matematico con semplificazioni e banalizzazioni, piuttosto si sceglievano
alcune idee significative anche per i non esperti, ad esempio il fatto che la
retta sulle superfici curve non è diritta, idee che avevano un aggancio a
delle immagini (il triangolo sulla superficie della collina o della valle)
che potevano diventare immagini mentali per lo spettatore: non erano metafore
svianti ma rappresentazioni intrinseche. Lo spettatore inesperto, che non era
in grado di comprendere il linguaggio matematico, coglieva delle immagini che
sconcertavano e incuriosivano: erano oggetti matematici che avevano un
impatto emotivo. Lo spettatore non imparava certo in quella sede le geometrie
non euclidee, ma poteva uscire intuendo di che oggetto si trattasse avendone
intravisti alcuni pezzi e soprattutto convinto che valesse la pena
occuparsene. In uno spettacolo di ragazzi di 2a
e 3a media il tema messo in scena era
proprio quello della metafora usata per descrivere fenomeni chimici (le
“affinità elettive”), ma oggetto dell’azione scenica e dei dialoghi era un
giocare con quella metafora, soprattutto in chiave comica; il suo significato
intrinseco al linguaggio chimico o era dato per scontato o veniva “spiegato”.
Dunque, al di là dello specifico teatrale, sul versante della scienza non si
sviluppava un discorso sulla metafora in generale e sul contenuto di quella
metafora. Più interessante il tentativo fatto in un istituto superiore di
esprimere concetti scientifici relativi al II
principio della termodinamica e all’entropia attraverso la metafora, ma non
affidandola ai dialoghi bensì alle azioni dei corpi, al movimento collettivo,
alla danza. La scelta di non insegnare scienze, con tutto l’impegno per
apprendere che non si può richiedere a un pubblico teatrale, era anche quella
di uno spettacolo del Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano dove
la cornice fornita da due “illusionisti” permetteva di presentare agli
spettatori fenomeni ottici e visivi che di per sé fanno spettacolo, ovvero
che suscitano stupore e meraviglia. Ma lo spettatore si domandava come
c’entrasse la scienza e soprattutto che differenza ci fosse tra scienza e
magia. LA SCOPERTA |