Marcello Sala

LO STRANO CASO

DELL’AUTOFORMAZIONE

DEI FORMATORI

-pubblicato in- 

ADULTITà

n. 10 / 1999

Guerini e Associati

 

LA RICORSIVITÀ DELLA FORMAZIONE DEI FORMATORI

Senza titolo-1.jpgL’espressione linguistica “formazione” implica a livello semantico un predicato che necessita di tre argomenti [1] con funzioni diverse, che potremmo designare come “agente” “destinatario” e “ambito”: "un x forma un y in  (relazione a) un W". Nel nostro caso x è un formatore di insegnanti, y è l'insegnante. W è l'ambito della professionalità insegnante, è cioè di nuovo "formazione". La ricorsività della lingua mostra la ricorsività della formazione dei formatori: siamo in presenza di una seconda struttura sottostante di forma identica alla prima che vede y, l'insegnante, come argomento-“agente”, w lo studente come "destinatario", mentre l' "ambito" Z può essere la vita quanto una competenza disciplinare.

Tutto ciò rende ragione, a livello della struttura dei significati, e quindi in un contesto culturale, di come lo stesso soggetto possa rivestire contemporaneamente due ruoli funzionali. La y del nostro schema (l'insegnante) è formando (nel livello superiore) in quanto formatore (nel livello inferiore).

Questa persona, nell'ambito della propria formazione, mentre fa della propria esperienza oggetto di rielaborazione, vive direttamente un’altra esperienza, caratterizzata però dalla stessa struttura di significato. All’interno di una metodologia attiva il formando non è invitato a conoscere in maniera teorica quelle competenze che sono oggetto intenzionale di formazione, ma è chiamato ad agirle. Ciò istituisce lo spazio formativo come un campo di esperienza materiale (che riguarda cioè l’interezza della persona e non solo una parte cognitiva separata). È questo che consente di identificare questo ambito come realtà e non semplicemente luogo dove conoscere la realtà. È questo che consente al formatore di insegnanti di proporre come oggetto di attenzione e di ricerca, e quindi di utilizzare come risorsa per un'esperienza professionalizzante, ciò che accade “qui e ora” nella relazione formativa che instaura con gli insegnanti.

Quando conduco situazioni di laboratorio per insegnanti, quello che osservo è come i partecipanti si collochino su un arco di atteggiamenti, tra cui a volte saltano o scivolano, che si stende tra due polarità. A un estremo dell’arco sta l’attenzione a ciò che faccio io come conduttore, agli strumenti e materiali che uso, al metodo che attuo, ai contenuti cognitivi che evidenzio, al dispositivo che metto in atto, anche al mio “stile”. È un’intenzione essenzialmente pedagogica, che mira alla riproducibilità. I partecipanti, che spesso fanno riferimento alle proprie situazioni di lavoro, come formatori si identificano con me. La conseguenza è un distacco dall’esperienza e quindi la difficoltà a rendere viva una conoscenza che non parte da un vissuto.

All’altra estremità sta l’abbandono nei confronti di chi conduce, l’immersione totale nel vissuto dell’esperienza. A questo atteggiamento si accompagna di solito, oltre a una sottolineatura della dimensione del piacere, un’attenzione alla cura e alla crescita del sé. I partecipanti, che spesso parlano di “autoformazione”, in quanto formandi si identificano con i propri alunni (o con il proprio passato di alunni). Qui la conseguenza è una difficoltà a mettere a fuoco un guadagno formativo professionale.

Le rispettive difficoltà prese ognuna in sé rimandano a errori di "tipo logico" (essere formatori dentro lo "spazio transizionale" della formazione, essere formandi fuori da quello spazio), prese nella loro relazione mettono in luce l’esigenza di una integrazione, che non è sovrapposizione confusa, ma che in questo caso sembra più richiedere una modulazione nello sviluppo delle fasi del percorso. Quando, nell'istituire il setting del laboratorio, io chiedo ai partecipanti di agire, di reagire alle proposte, in quanto adulti, mettendo tra parentesi il loro essere insegnanti, sto caratterizzando la loro collocazione di formandi, mentre quando, nella fase finale di rielaborazione, chiedo loro che cosa “si portano a scuola” dell’esperienza fatta, sto ricollocandoli nella loro funzione di formatori. In questo segnalo il confine dello ”spazio potenziale” del laboratorio: il dispositivo del laboratorio configura un “dentro”, in cui si può sperimentare, protetti in quanto formandi dalla funzione del formatore, e un “fuori” cui, con il recupero della responsabilità professionale, quel cambiamento eventualmente verificatosi nel laboratorio è finalizzato, o in cui è destinato a mettersi alla prova della realtà.

Nelle interviste raccolte nell'ambito della partecipazione a una iniziativa residenziale di formazione per insegnanti [2], è possibile ritrovare questa tematica del rapporto tra formazione personale e formazione della professionalità formativa nelle sue articolazioni e sfumature.

CONTINUITÀ E CON-FUSIONE

“Partecipo perché mi interessa migliorarmi sia come persona, sia professionalmente; credo che le due cose siano molto legate… Sì, non possiamo vivere solo un ruolo - o immedesimarci completamente in un ruolo -; noi siamo persone, quindi, in ogni caso ci presentiamo prima di tutto come persone agli altri.”

Si afferma qui l'impossibilità di separare il ruolo dalla personalità che lo interpreta. Su questa continuità, su cui sembrano concordare molte delle persone intervistate, si fonda il rapporto tra l'autoformazione, implicita in una situazione di laboratorio che coinvolge la dimensione dell'esperienza personale, e la formazione professionale:

“... prendere - come dire?- degli spunti per crescere, e per sperimentare poi nella pratica del lavoro”; "… lavorare su di te perché poi tu lo riconduca nel tuo lavoro"

Ma come avviene questo passaggio tra sviluppo del sé e professionalità formativa? Il termine "ricondurre" sembra indicare una dimensione di intenzionalità, mentre altre espressioni riportano più a una fusione senza distinzioni:

"Io non ho mai distinto me persona dall'educatore […] Perché ritengo che saprò dare quello che... che so avere dentro - no?-"

Come vedremo, è proprio su questo terreno che le differenze sono significative più delle convergenze.

SEPARAZIONE

Intanto c'è chi sta più in un registro di separazione:

“Il laboratorio mi sembra che sia stato un lavoro per me stessa. Per il lavoro che io svolgo a scuola, il rapporto che ho con i bambini - che sono anche piccoli - più di tanto non posso… non credo che ci sia stata una ricaduta nel mio lavoro.”

Significativa, a questo proposito, è la testimonianza di una persona che ritiene che l’educazione dei propri alunni implichi un certo distacco affettivo ("Io tendo a separare nel rapporto con gli allievi [la dimensione cognitiva e quella affettiva]. Molto spesso, proprio per far capire al bambino qual è il ruolo dell’adulto, dell’insegnante, si tende a separare ancor di più...”), mentre connota come formativi per sé quei contesti nei quali l'aspetto affettivo è centrale (“C’era - mi ricordo - una casa… tipo cascina e si dormiva sei o sette per camera, quindi era tipo una comune, e poi si lavorava anche insieme. Io me ne ricordo molto bene uno sul teatro di strada [...] è l’esperienza che ricordo più bella. Poi questa vita insieme, si viveva insieme.”)

Separazione non significa che non ci sia una relazione, ma spesso non è consapevole o non viene tematizzata:

“Però non tanto con i ragazzi, anche se con i ragazzi c'entrano di riflesso devo dire la verità. Perché comunque - come dire?- io credo che la mia formazione investa anche... altri ambiti che possono essere anche quelli più privati. Dal mio tempo libero a che ne so io... a una psicoterapia... - mi spiego?- cioè credo che, come insegnante, in qualche modo riporto poi sempre nel mio lavoro esperienze che non sono direttamente collegate con l'insegnamento.”

E questo richiamo al tempo libero e alla terapia ci porta nuove chiavi di lettura.

L'EFFETTO BENESSERE

Quella che molte testimonianze sembrano manifestare è una aspettativa di maggior benessere personale (“Mi aspetto [...] di sentirmi bene dentro”), in termini generici di ricarica energetica o di divertimento

“Io credo che sia… questo che… mi aspetto da questo tipo di formazione, un po’ tutto… diciamo che - quindi - ti aiuta a caricarti…”

La teoria sottintesa sembra essere "se mi fa star bene allora mi fa essere anche un'insegnante migliore":

"In generale, fatta così con queste cose un po' strane se vuoi, ti arricchisce molto dal punto di vista tuo, personale. Che poi... poi avrà... cioè nel senso: se ti senti meglio tu in generale, è chiaro che riesci a stare meglio anche a scuola...".

Si può anche condividere la validità generale e generica di questo assunto. Quello che tale teoria non spiega è perché per soddisfare un bisogno di benessere ci si rivolga a ambiti di formazione professionale e non a quelli ricreativi o della "fitness", ovvero quale specificità assuma il discorso del benessere in ambito formativo

"… mi aspetto di divertirmi molto, in realtà. Non so quanto poi di... di quello che sarà l'esperienza del teatro mi rimarrà sulla scuola insomma... su quello sono abbastanza scettica."

Sicuramente in quegli ambiti il rapporto di affidamento risulta meno delicato e problematico che in quello della formazione dove esso entra in dialettica tensione, nella a-simmetria della relazione, con l'autonomia, altro elemento che nel contesto formativo assume valenze particolari e importanza pregnante.

Ma l'aspettativa a volte assume connotazioni più riferibili al potenziamento, alla riabilitazione in rapporto a deficit caratteriali o relazionali

“Io sono… sono molto imbranata, molto emotiva e quindi temo sempre di… c’è la paura di lasciar… dovermi lasciar coinvolgere [...]. Voglio provare se [il laboratorio] può essere un momento in cui imparo a sbloccarmi, imparo a essere [...] un po’ meno inibita nel lavoro con gli altri”

e il riferimento alla terapia diventa esplicito

"… rispetto a un'altra esperienza grossa che sto facendo che è quella dell'analisi - nel senso di psicanalisi - dove effettivamente lavori ma parlando, restando ferma lì sul divano; qui lo trovo un lavoro molto complementare che però mi sblocca anche tante situazioni"

Su questo versante il confine che separa la pedagogia dalla terapia può essere labile ovvero vi possono essere zone di sovrapposizione; in entrambe è fondamentale la dimensione del “prendersi cura”. Ma sembra esservi una fondamentale differenza: se il benessere costituisce lo scopo finale della terapia, e il cambiamento cognitivo appare come una strada per arrivarci, nella formazione il rapporto appare invertito e il benessere può essere una condizione affinché il soggetto possa immergersi in un’esperienza di apprendimento, che ne resta lo scopo.

L'IDENTIFICAZIONE CON L'ALLIEVO/A

Ma torniamo alla domanda posta prima: come, attraverso quali dinamiche, un lavoro su di sé costituisce un guadagno professionale nel caso della professionalità formativa?

Una prima risposta ci riporta alla dimensione della ricorsività della formazione dei formatori, ovvero alla possibilità, all'interno di una relazione formativa, di viversi nel ruolo dell'allievo/a

"L’accoglienza che fanno qui è diventata per me uno spunto di riflessione per l’accoglienza che facciamo a scuola. L’anno scorso, avendo una prima elementare, abbiamo organizzato tutto un lavoro di accoglienza per questi bambini, l’abbiamo impostato sulla metafora del viaggio, è diventato un filo conduttore che ci ha portato per tutto l’anno."

Il fatto che ciò che si è "ricevuto" in una relazione possa essere "dato" in un'altra è condizione umana, ma la ricorsività della relazione educativa fa sì che per l’insegnante ciò avvenga per professione. Questo non significa che in questo per l'insegnante abbia meno importanza la dimensione affettivo-emotiva

“Sono colpita da questa grande… apertura che c’è, l’accoglienza che ti fanno queste persone che non conosci [...] ti mette a tuo agio nel senso che ti sembra di conoscerle da sempre. Questo è significativo per me perché ti mette a tuo agio. “

Ma è la consapevolezza la chiave per rendere un'esperienza umana significativa in termini professionali: il vissuto di identificazione con l'allievo/a si trasforma in intenzione formativa se è un vissuto intenzionalmente autoformativo

 "E la fiducia che è in gioco. Che poi è quella stessa che ogni studente, ogni bambino chiede al proprio insegnante. Perché... quando abbiamo messo per la prima volta piede nella scuola materna, quando abbiamo messo per la prima volta piede nella scuola elementare, nella scuola media, scuola superiore, all'università.... abbiamo sempre avuto il panico. E ci dovevamo fidare a qualcuno... affidare ai nostri insegnanti."

La specificità della proposta del laboratorio a livello adulto nella formazione dell'insegnante poggia sulla convinzione che l'insegnante debba sperimentare su di sé la relazione soggettiva di conoscenza con un oggetto, con i suoi blocchi ma anche con le sue motivazioni. Così è proprio coinvolgendosi personalmente che si può capire, ad esempio, l’importanza di un clima di sperimentazione e di scoperta per i ragazzi:

"… il momento in cui con gli esperimenti ci siamo tutti scatenati in ipotesi, prove… insomma c’era tutta questa grande confusione però costruttiva, in quel momento ci siamo sentiti tutti allievi, non ci siamo accorti di questo passaggio di ruolo, ho pensato che sarebbe bello suscitare nei nostri allievi questo tipo di clima, di grande euforia".

L'AUTOBIOGRAFIA

"…ci deve passare la paura di fare prove con i bambini e invece cercare insieme a loro, e questa paura ci passa se riscopriamo e ci riconfrontiamo con quelle che sono state o sono le nostre paure".

Il mettersi in gioco direttamente significa aprire anche la dimensione autobiografica

"Forse come fortuna nella vita ho avuto che la mia mamma me e la mia sorella ci ha fatte sempre giocare tanto, quindi questo mi ha aiutato tanto, allora ho giocato insieme ai ragazzi nel laboratorio di scienze"

Nel caso di questa persona i vissuti positivi legati al gioco, più antichi, hanno maggiore importanza di quelli negativi vissuti successivamente come allieva a scuola, ma ancora una volta è la consapevolezza autoformativa dell'insegnante che fa dell'autobiografia una risorsa professionale:

"… ero una studentessa tremenda, rifiutavo la scuola, non ho imparato molto di quello che mi insegnavano per cui, forse, posso essere una discreta insegnante, intendo con questo di imparare insieme ai ragazzi, di ricercare insieme a loro, quindi di essere più disponibile a ricercare, questo come persona".

ESSERE TRAMITE

L'identificazione con i propri allievi o le proprie allieve può dare spazio all'empatia, ma anche al pericolo di perdita della distinzione tra sé e l'altro. È importante allora mantenere il senso della autonomia del soggetto

“Nessuno ti fa passare qualcosa che già è stato elaborato, che già conosce, ma sei tu che devi far nascere dentro di te… questa motivazione, questo desiderio di capire di più. Le risposte le trovi tu, gli altri fan da stimolo, ti aiutano anche a trovare risposte diverse, ad allargare la tua visuale…”

Allora la ricorsività della formazione e la consapevolezza autobiografica possono dare luogo a un'altra diversa modalità di rapporto tra il sé e il ruolo professionale, che è quella del proporsi come tramite attivo, mediatore/trice, tra soggetto e oggetto nella conoscenza

"… io ho sempre visto che quando un insegnante ha spinta, ha carica... ha piacere per quello che fa, questa... questa è vissuta dal bambino, è respirata dal bambino. E... che lo mette in relazione con quell'adulto con cui lui, ogni giorno, si trova in qualche modo a fare i conti. E tanto più.... quanto questo è vissuto in positivo dal bambino, tanto più si crea il rapporto affettivo. Perché comunque il rapporto affettivo è ciò che può muovere il mondo bambino. Attorno ai saperi, agli interessi, alle curiosità, alle passioni, perché così deve fare un bravo insegnante."

All'interno di questa funzione di mediazione dell'insegnante viene identificata una componente dell'affettività che mi sembra oltremodo interessante, perché non relativa a un rapporto di presa in cura generico o riconducibile a registri familiari o terapeutici, ma specificamente pertinente alla relazione educativa, alla costruzione della conoscenza.

Questa mediazione richiede la "presenza" dell'insegnante nell'interezza della sua identità: è questo il significato che mi sembra debba darsi al "corpo"

"… e comunque questo corpo è il nostro mediatore di tutto insomma. Cioè un veicolo, uno strumento, un mediatore, …"

QUALITÀ PERSONALI PROFESSIONALMENTE UTILI

Se ci si rappresenta una polarità tra sviluppo del sé e sviluppo della professionalità docente, a una estremità si collocano le situazioni formative in cui sono messi in gioco i saperi disciplinari e le tecnologie didattiche. Ma non è l'unico modo. Da parte degli/delle insegnanti, anche di scuola superiore ormai, c'è l'idea che la capacità di entrare in relazione con gli allievi e le allieve sia una qualità umana che entra a far parte delle attitudini, o addirittura delle tecnologie tipiche della professione. Ecco allora un'altra modalità con cui un lavoro su di sé può costituire un guadagno formativo in senso professionale:

"… una formazione che... che completa dal punto di vista pedagogico quella che dovrebbe essere la mia competenza di insegnante […] i problemi che ho avuto non erano direi mai legati a… conoscenze che non avevo o che non avevo comunque modo di reperire... […] i grossi problemi che ho avuto, ne ho avuto anche grossi dal punto di vista relazionale, della pedagogia, del come interagire con gli adolescenti… dovrebbe essere un'occasione che viene data a un insegnante per... per affrontare... cioè per acquisire strumenti che gli permettono di stare meglio, nella relazione educativa, proprio. Al di là della trasmissione del... dei saperi, insomma..."

 In questa direzione il prendersi cura di sé non coincide con la ricerca del benessere ma si colloca pienamente nel contesto formativo, dove il benessere è in relazione con lo "spiazzamento". Qui lavorare su di sé inevitabilmente vuol dire lavorare sui propri limiti, e questo è faticoso; a volte il senso formativo lo si recupera solo alla fine di un percorso difficile

"Mi porto dentro una... una dimensione di una maggior sicurezza verso di me, acquisita in questo discorso corporeo... […] E sapevo comunque essere un mio problema - no?- perché ha a che fare con la rappresentazione che tu hai di te stessa: bella, brutta, grassa, magra... quello che c'è - no?- E quindi sapevo che mi giocavo con una cosa grossa per me. E quindi il fatto che io abbia superato questo… [La performance teatrale] mi dimostrava che potevo esser brutta grottesca, ma quel brutto grottesco valeva la pena di esser... dato agli altri - no?- ... alla fine posso dire: ognuno esprime qualcosa insomma, se vuole con il suo corpo può esprimere, qualunque corpo sia, può esprimere qualcosa. - no?- … E quindi questo dirò ai bambini che è molto importante… che il bambino ha molte remore verso il suo corpo, al di là di quello che si può credere o pensare. E lo si vede quando gli fai fare teatro, quando li fai muovere, la rigidità che hanno, i maschi soprattutto, eccetera."

ESPERIENZA E RIELABORAZIONE

"… fare un'esperienza prima su di sé per poi riproporla o perlomeno..."

"… come lo psicologo, prima di fare la professione di psicologo si deve analizzare lui; la stessa cosa l’insegnante"

Anche se il vivere su di sé la relazione educativa dalla parte dell'allievo/a, l'utilizzare il setting come area potenziale e spazio transizionale, lo sperimentare la relazione con un oggetto di conoscenza, vengono ritenuti condizioni e passaggi necessari per una formazione dell'insegnante, non sembra che ciò sia sufficiente. Ciò che fa di un vissuto un'esperienza autoformativa prima e professionalizzante poi è la meta-conoscenza, la meta-riflessione, la rielaborazione che portano il vissuto a livello di consapevolezza

"… è importante il momento in cui tu... dopo avere elaborato ripensato, nel tuo gruppo, sull'esperienza che hai fatto di laboratorio... tiri fuori qualcosa, quelli che secondo te sono stati i nodi essenziali […] arrivi a formalizzare e comunicare le cose che sono state... il grosso succo per te, cioè quello che per te effettivamente è emerso dal laboratorio. Perché, non so, è come quando effettivamente ti rendi conto, anche a scuola, che nel momento in cui spieghi a un altro... qualche cosa, improvvisamente diventa ancora più chiaro anche a te."

Nel caso della formazione degli/delle insegnanti non si tratta soltanto di una consapevolezza dei propri cambiamenti: è la consapevolezza, nel dettaglio e nella specificità delle situazioni, delle condizioni, dei percorsi, attraverso i quali si sono realizzati, che ne permette non tanto un trasferimento quanto una ricontestualizzazione nell'ambito scolastico, o educativo in generale

"… l'attenzione per gli spazi, quando si è parlato del... non solo quando ci si è chiesti che funzione aveva avuto per noi il fatto di lavorare all'aperto nella natura eccetera […] E in effetti mi viene in mente che... è vero che noi  tante volte diamo - noi a scuola voglio dire - diamo un po' poca importanza agli spazi […] Io me ne sono resa conto un po' quest'anno, perché […] sei classi - che sono proprio le mie sei classi - sono state trasferite in una scuola media piccolina. Dove ognuno finalmente aveva la sua aula: cioè io la quarta A la trovavo sempre nella seconda aula a destra - no?- è lì. Mentre, normalmente nella mia sede della mia scuola, a me capitava - ed è una cosa che mi disturbava tantissimo - di incontrare una stessa classe un giorno in un'aula, un giorno in un'altra. E a me dà un senso così, di spiazzamento, di difficoltà tutte le volte… cioè io l'avevo classificata come paturnia mia, rigidità, incapacità di adeguarsi a una struttura così… […] l'ho  invece recuperata in positivo dicendo: beh, in fondo forse quello che avvertivo senza... così razionalizzarlo del tutto, era proprio questa... l'importanza che invece ha anche il luogo, dove si svolge la lezione."

IL NASTRO DI MOEBIUS

Mi ha colpito l'intervento di un'insegnante che riportava, come guadagno formativo, di avere trasferito a scuola con adolescenti, sotto forma di narrazione delle proprie storie di vita, spunti di un percorso di formazione di tipo clinico; nel dichiarare la propria soddisfazione per questa esperienza aggiungeva che questa attività a scuola "ha dei limiti purtroppo, perché bisogna anche insegnare la propria disciplina". A me appare paradossale che l'attività di insegnamento sia un limite per un insegnante. Mi sembra che ponga una problematica formativa sostanziale per il "cambiare la scuola" e anche una dimensione critica in quei processi peraltro utili o necessari di supporto alla professionalità insegnante che passano da una analisi clinica e psicologica o dallo sviluppo di una competenza autobiografica.

Non mi ritrovo in una rappresentazione che separi sviluppo del sé e formazione professionale, ma ugualmente non mi convince una loro indistinzione. Forse la chiave è pensare che la dimensione della professionalità contenga la dimensione umana e che la dimensione umana contenga quella della professionalità, come in un nastro di Moebius. Ma sento anche il bisogno di riconoscere contesti differenziati, punti di vista specifici, da cui di volta in volta osservare il nastro: c'è il soggetto con la sua affettività, ma c'è anche la sua relazione affettiva con un oggetto di conoscenza; c'è la cura di sé, ma c'è anche una contestualizzazione della cura di sé nella a-simmetria della relazione formativa; c'è la narrazione, ma c'è anche un "discorso su"; c'è il vissuto del formatore, ma c'è anche un sapere sulla formazione che origina dal vissuto.

 



[1]  Il modello grammaticale cui qui si fa riferimento si trova in:  Parisi D. –  Antinucci F., Elementi di grammatica, Boringhieri 1973.

[2]  I materiali qui utilizzati sono tratti dalle tesi di laurea di Dario Gabrielli, Daria Somaini, Laura Villa. Alla ricerca hanno partecipato anche Lucia Albanese, Sabina Gandellini, Anna Paola Serra.