Marcello Sala

LISA E IL GIARDINIERE

-pubblicato in- 

COOPERAZIONE EDUCATIVA

n. 2 / 1994

La Nuova Italia

 

Formare uno spirito scientifico nel rispetto della complessità dell’esperienza

 

Quelli che seguono sono spez­zoni da un dialogo con un gruppo di bambini di dieci anni [1]. Il  montaggio mette a fuoco il pensiero di una bam­bina e fa pressoché scompa­rire il contesto. Per questo il lettore, prima di prosegui­re, dovrebbe provare a por­re a un gruppo di amici adulti la seguente domanda: perché gli spec­chi invertono la destra con la sinistra e non l’alto con il basso?

L’occhio dello specchio

Lisa «Lo specchio è come il nostro occhio, per­ché se noi vediamo.., tu stai in piedi e hai l’o­rologio a sinistra, io lo vedo a destra se mi metto di fronte a te»

Io «E Io specchio... »

Lisa «E la stessa cosa»

Lisa ha questa intuizione che nello specchio c’è un “occhio”, cioè un punto dì vista: è da quel punto di vista che la sinistra diventa destra.

Lisa «Lo specchio... lui ci riflette... noi ci ve­diamo... se noi alziamo la mano destra anche lui alza la mano destra, si può dire, perché... non alza la sinistra perché lui è la nostra sagoma identica e precisa. È come se c’è un filo attaccato dalla mia mano destra e alla sua, dalla mia sinistra alla sua, quindi se alzo la mano destra anche lui alza la sua, però a noi ci sembra diversa perché la guardiamo di fronte»

Lisa riconosce tre livelli: la realtà senso-motoria della corrispondenza delle parti del corpo tra persona e immagine nello specchio “come se ci fosse un filo”, il “vedere” dal punto di vista dello specchio che ci mostra come proiettato su uno schermo ciò che esso vede (e che è alterato rispetto alla realtà perché vi­sto da un punto di vista opposto), e il “ragio­nare” che riconosce l’errore del “vedere” e ri­porta la descrizione al livello della realtà.

Lisa «Tu guardi, io alzo questa... [la sinistra, che porta un braccialetto] se tu guardi da qua e anche da dietro, vedi che io alzo la sinistra»

Stefania «No, io vedo che tu hai alzato la destra»

Lisa «Appunto: tu vedi che io ho alzato la de­stra, e invece io ho alzato la sinistra».

Stefania «No, io dico nello specchio»

Lisa «Ma se tu invece ragioni, vedi che qua ho il braccialetto...»

I miei commenti, a posteriori, sono una spe­cie di traduzione nel nostro linguaggio di adul­ti: quando Lisa dice che “lo specchio è come un occhio” che cosa dice dì meno o di più, o di diverso dalla mia traduzione?

Che tipo di conoscenza è quella che emerge dagli interventi di Lisa? Su quali strutture di pensiero si fonda? Come si costruisce? Quan­to c’entra in questo la Scuola con la sua “pro­grammazione”, i suoi libri di testo...? Quanto c’entra invece la scuola molto particolare in cui Lisa costruisce la sua conoscenza da cin­que anni?

Processo e prodotto

C’è un equivoco sul termine “conoscenza”: es­so può indicare il processo tanto quanto il pro­dotto. La nostra lingua ha la tendenza a no­minalizzare i verbi: il passaggio da “conosce­re” a “conoscenza” sposta l’accento dal pro­cesso al prodotto. Poiché il processo si dà so­lo nell’esperienza di qualcuno, mentre il pro­dotto può esistere di per sé, ecco che il nu­cleo centrale del progetto educativo istituzio­nale si costruisce attorno a un’assenza, quel­la delle bambine e dei bambini veri, diversi una dall’altro.

È l’irrinunciabile necessità di trasmettere un patrimonio di conoscenze storicamente accu­mulate in una cultura che la scuola oppone a una pedagogia della ricerca, che invece pone l’accen­to sulla scoperta e l’esperienza. In que­sta contrapposizione si rischia di dare per scontata la qualità di questo “patrimonio” di conoscenze. Ora, proprio sul versante del sa­pere disciplinare la scuola è invece anche pro­fondamente carente. Il fatto è evidente nel ca­so delle scienze.

Risalgono ai primi decenni del Novecento le sco­perte che hanno costituito il punto di svolta della fisica classica. Dire che a livello subato­mico la materia non esiste con certezza in po­sti definiti ma ha solo probabilità di esistere, che onda e particella, energia e materia, so­no due descrizioni complementari, entrambe valide o entrambe inadeguate, che le particelle non sono piccole palline di materia ma strut­ture dinamiche energetiche, che una forza in­teragente può essere descritta come uno scambio di particelle, significa che i due pila­stri della fisica classica, forza e materia, so­no crollati.

Da allora quella epistemologia, che aveva avu­to in Cartesio e Bacone i fondatori e nella mac­china del mondo newtoniana il suo paradigma di riferimento, è entrata in crisi profonda. E oggi che “il progresso è finito”, a causa delle condizioni che esso stesso ha creato sfruttan­do indiscriminatamente le risorse del piane­ta, è in crisi anche l’ideologia del dominio sulla natura che aveva trovato origine e sostegno in quella epistemologia. Eppure nella scuola (e nella cultura di massa) ancora viene inse­gnato che l’atomo è come un piccolo sistema solare, un orologio ben oliato, una macchina prevedibile sotto il controllo dell’uomo scien­ziato.

L’esempio fatto dimostra che per trasmette­re conoscenze obsolete si perpetua una epi­stemologia in profonda contraddizione con le grandi istanze etiche, e quindi educative, di oggi, che richiedono l’abbandono della cultu­ra del dominio nei confronti de “l’altro”, sia esso natura o soggetto umano. (A meno che non sia vero l’inverso: che proprio per perpetuare quel­la epistemologia del dominio la scuola tra­smette conoscenze obsolete).

Ricerca e conoscenza

Oggi si comincia a parlare di “preconoscen­ze” dei bambini. Le preconoscenze sono già meglio dei “prerequisiti” della programmazio­ne. Questi per l’appunto sono preliminarmente richiesti, sono la condizione necessaria per apprendere e danno l’idea di condizioni poste ai bambini per essere ammessi (i “test d’ingres­so”) al processo di apprendimento (e che ne facciamo di chi non ce li ha?).

Ma perché indagare sulle pre-conoscenze dei bambini se si è convinti che non siano vere conoscenze? C’è dietro un’idea discutibile dell’insegnamento: occorre un’azione di in­telligence per scoprire come pensano i bam­bini; ciò allo scopo di trovare mezzi e strate­gia più efficienti per sconfiggere il loro mo­do di pensare primitivo e inadeguato, e sgom­brare il campo alla conquista della vera cono­scenza.

Io penso che non c’è un “dopo”: penso che ri­cercare attorno alla conoscenza dei bambini è già un’azione educativa, è già lavorare per la loro consapevolezza, per una meta-cono­scenza, per un apprendere ad apprendere. Ma ciò significa fare una ricerca non sui bambi­ni, ma con bambine e bambini.

La ricerca è il luogo dove si pongono doman­de e si cercano possibili risposte; per questo è anche la dimensione dell’incontro tra i bam­bini e coloro che la cultura la elaborano. Quan­do questo incontro avviene in carne e parola (sono stato testimone di un dialogo tra un gruppo di bambini di prima media e due emi­nenti astronomi) può accadere di scoprire che le domande iniziali dei bambini sono le do­mande finali che appassionano gli scienzia­ti, che entrambi privilegiano la metafora, che gli uni e gli altri sono orientati da una stessa forza che assomiglia più all’estetica che alla logica.

La scuola è per sua natura un luogo “protet­to”, altro dal mondo. Ma il problema non sta nel fatto che il contesto scolastico sia artifi­ciale: il teatro ad esempio è spesso luogo di ricerca, di scoperte, di profonde verità. Il pro­blema è piuttosto di che cosa è simulazione la scuola, e di che qualità è l’esperienza che viene messa in gioco nella simulazione.

Ora, da una parte, il referente della conoscenza scolastica non è la realtà attuale del mondo (l’abbiamo visto per la scienza), dall’altra la scuola non sembra in grado di rendere viva una esperienza di conoscenza, qualunque sia il suo referente. Ma il primo problema è spe­culare al secondo.

Ecologia/educazione

Se come educatore mi propongo di aiutare i bambini a costruire una relazione positiva con il mondo in cui vivono, non posso ignorarne i dati di crisi. E allora scelgo di mettere al cen­tro della mia ricerca il problema ecologico, in­teso nel senso più ampio di crisi delle relazio­ni dell’uomo con la natura ma anche con gli altri uomini e con se stesso.

Ma il primo compito che si pone una educa­zione all’ecologia, il primo ambiente con cui è necessario recuperare una relazione di equi­librio dinamico è il proprio corpo, inteso co­me interezza, come non separazione tra fisi­co e mentale, tra emozione e razionalità, tra immaginare e sapere.

Una ecologia dell’educazione si gioca sulla possibilità di sperimentare una “presenza”, una possibilità del corpo intero di entrare in rapporto diretto con le cose, a partire dalla percezione e dall’azione, che è anche la pos­sibilità di un apprendimento “naturale”, che fluisca organicamente dall’esperienza.

Il problema culturale è piuttosto quello dello scarto tra l’intuizione che nasce dall’esperien­za globale del vissuto, e le formalizzazioni della scienza. La verbalizzazione di un’esperienza che coinvolge nell’azione la persona intera fa emergere una rappresentazione meno linea­re, non quantitativa perché non misurabile, costitutivamente soggettiva perché nessuna esperienza si dà astraendo dalla presenza del corpo che la agisce, sostanzialmente comples­sa perché fatta di relazioni e non di oggetti. Il problema per noi, nel nostro rapporto con i bambini, sta nel fatto che le loro modalità di rapporto con la realtà nell’esperienza im­plicano un linguaggio spesso intraducibile nel nostro, un linguaggio, fatto soprattutto di azioni e di immagini. Ma il nostro pensiero verbale è un prodotto culturale, si è struttu­rato in una cultura essenzialmente razionali­sta, ed è un errore considerano “naturale”, un che di dato a priori, di uguale per tutti. L’interrogativo che mi pongo riguarda allo­ra la possibilità di riportare in un lavoro sul linguaggio le qualità proprie dell’esperienza corporea, e quindi la possibilità di ricostruire un’interezza della persona, una complessità delle relazioni anche a livello della rappresen­tazione.

Una finestra

Io credo che la possibilità per la nostra socie­tà di elaborare una cultura capace di farla uscire dalla crisi dipende anche dalla capaci­tà degli adulti di imparare dai bambini. La mia ipotesi, che nasce dall’ascolto di Lisa e di tan­te altre bambine e bambini, è che i bambini originariamente pensano in modo complesso. Il termine “originariamente” apre tutto il pro­blema dello sviluppo del pensiero all’interno di una cultura. Io vedo come una finestra tra due condizioni del bambino: la prima è quel­la che arriva almeno fino al primo anno di scuola, in cui certamente l’ambiente è deter­minante, ma in cui in qualche modo l’egocen­trismo del bambino e la sua impermeabilità al linguaggio dell’astrazione gli ga­rantiscono uno spazio largamente autonomo di elaborazione del pensiero; poi (diciamo tra gli otto e i dodici anni) c’è un pas­saggio difficile ed esaltante in cui i bambini diventano capaci di farsi capire dagli adulti e di esprimere i loro pensieri nella loro diver­sità. Questa capacità richiede una sempre più profonda competenza nel linguaggio degli adulti (non è previsto l’inverso), ma attraverso questa passa l’acquisizione del pensiero analitico che è indistricabilmente connaturato a quel linguaggio. E si giunge così alla secon­da condizione, all’altro lato della finestra, quella della piena assunzione del modo di pen­sare standard dei libri di testo e della cultura di massa. Per questo il linguaggio dei bambi­ni che si trovano in quella finestra ha una straordinaria importanza.

È un oggetto estremamente delicato, in cui le tracce labili del loro pensiero possono an­dare facilmente disperse. Non è soltanto il fat­to che l’adulto può non cogliere il senso di ciò che i bambini dicono; è che, all’interno di una relazione educativa istituzionalmente asimme­trica e in un processo in cui il pensiero del bambino prende una forma consolidata attra­verso l’interazione verbale con l’adulto, un in­tervento non sintonizzato di quest’ultimo in­terferisce con la costruzione dei significati, delle relazioni, dei sensi.

Il silenzio e l’ascolto

Allora quelli che all’interno del flusso del di­scorso sono, in rapporto a un linguaggio adulto scolarizzato, scarti, slittamenti, sfo­cature, imprecisioni, banalità, diventano se­gni, tracce, indizi. Il pericolo dunque è che l’a­dulto non accolga, o interpreti a suo modo (“quelli che... ti spiegano le tue idee senza fartele capire” cantava Enzo Jannacci). Però non basta tacere e rimandare l’interpretazione; a volte la fragilità del linguaggio o dello stesso pensiero del bambino ha bisogno di un so­stegno.

Nei confronti dei bambini mi sembra vada sot­tolineato il valore metodologico di un silen­zio epistemologico. Dunque silenzio come at­teggiamento di ascolto, cioè di accoglienza del pensiero altrui non per giudicarlo, usarlo o an­che tollerarlo, ma per reagire e interagire con esso in uno spazio “democratico”, protetto dal pregiudizio, dove lo sforzo di comunicare non implichi l’assunzione del linguaggio dell’autorità; uno spazio protetto dove costruire re­lazioni e sviluppare una ricerca d’identità. Un silenzio non come un vuoto in cui perder­si, ma come spazio in cui possono riemergere i vissuti e si può costruire la consapevolezza del loro significato. Un silenzio pieno della me­moria delle esperienze fatte, in cui le menti, e non solo le coscienze razionali, possono esprimere e riconoscere le loro relazioni con il mondo.

Questo silenzio, così diverso da quel­lo imposto dalla scuola come limite alla pos­sibilità di esprimere se stessi e quindi come negazione dell’ascolto, è lo sfondo su cui la pa­rola può assumere forma e corpo nel dialogo. Il dialogo non è soltanto il luogo dove porta­re alla luce le preconoscenze individuali, per metterle a confronto o accomodarle recipro­camente in quella che è la prefigurazione di una comunità culturale. Il dialogo è una me­todologia per l’ascolto, un luogo dove si ela­borano le conoscenze, dove si costruiscono teo­rie, che non sono tali finché il soggetto non le struttura. Una conoscenza complessa, strut­turata su relazioni più che su oggetti e con­cetti, trova in una situazione di interrelazio­ni vive il terreno più fertile per divenire an­che rappresentazione e verbalizzazione, l’hu­mus più naturale per crescere e dare fiori e frutti.

Lisa ha bisogno di giardinieri.

 



[1] La classe è la IV 1992/93 della scuola elementare di via Bosio a Chieti Scalo; insegnanti Antonietta Ciarcia­glini e Maria Finarelli.