Formare uno spirito scientifico nel
rispetto della complessità dell’esperienza Quelli che seguono sono
spezzoni da un dialogo con un gruppo di bambini di dieci anni [1].
Il montaggio mette a fuoco il pensiero
di una bambina e fa pressoché scomparire il contesto. Per questo il
lettore, prima di proseguire, dovrebbe provare a porre a un gruppo di amici
adulti la seguente domanda: perché gli specchi invertono la destra con la
sinistra e non l’alto con il basso? L’occhio dello
specchio
Lisa
«Lo specchio è come il nostro occhio, perché se noi vediamo.., tu stai in piedi
e hai l’orologio a sinistra, io lo vedo a destra se mi metto di fronte a te» Io
«E Io specchio... » Lisa
«E la stessa cosa» Lisa ha questa intuizione che nello
specchio c’è un “occhio”, cioè un punto dì vista: è da quel punto di
vista che la sinistra diventa destra. Lisa «Lo
specchio... lui ci riflette... noi ci vediamo... se noi alziamo la mano
destra anche lui alza la mano destra, si può dire, perché... non alza la
sinistra perché lui è la nostra sagoma identica e precisa. È come se c’è un
filo attaccato dalla mia mano destra e alla sua, dalla mia sinistra alla sua,
quindi se alzo la mano destra anche lui alza la sua, però a noi ci sembra
diversa perché la guardiamo di fronte» Lisa riconosce tre
livelli: la realtà senso-motoria della corrispondenza delle parti del corpo
tra persona e immagine nello specchio “come se ci fosse un filo”, il
“vedere” dal punto di vista dello specchio che ci mostra come proiettato su
uno schermo ciò che esso vede (e che è alterato rispetto alla realtà perché
visto da un punto di vista opposto), e il “ragionare” che riconosce
l’errore del “vedere” e riporta la descrizione al livello della realtà. Lisa
«Tu guardi, io alzo questa... [la sinistra, che porta un braccialetto] se tu
guardi da qua e anche da dietro, vedi che io alzo la sinistra» Stefania
«No, io vedo che tu hai alzato la destra» Lisa
«Appunto: tu vedi che io ho alzato la destra, e invece io ho alzato la
sinistra». Stefania
«No, io dico nello specchio» Lisa «Ma se
tu invece ragioni, vedi che qua ho il braccialetto...» I miei commenti, a posteriori, sono
una specie di traduzione nel nostro linguaggio di adulti: quando Lisa dice
che “lo specchio è come un occhio” che cosa dice dì meno o di più, o
di diverso dalla mia traduzione? Che
tipo di conoscenza è quella che emerge dagli interventi di Lisa? Su quali strutture
di pensiero si fonda? Come si costruisce? Quanto c’entra in questo la Scuola
con la sua “programmazione”, i suoi libri di testo...? Quanto c’entra invece
la scuola molto particolare in cui Lisa costruisce la sua conoscenza da cinque
anni? Processo e
prodotto
C’è un equivoco sul
termine “conoscenza”: esso può indicare il processo tanto quanto il prodotto.
La nostra lingua ha la tendenza a nominalizzare i verbi: il passaggio da “conoscere”
a “conoscenza” sposta l’accento dal processo al prodotto. Poiché il processo
si dà solo nell’esperienza di qualcuno, mentre il prodotto può esistere di
per sé, ecco che il nucleo centrale del progetto educativo istituzionale si
costruisce attorno a un’assenza, quella delle bambine e dei bambini veri, diversi
una dall’altro. È l’irrinunciabile
necessità di trasmettere un patrimonio di conoscenze storicamente accumulate
in una cultura che la scuola oppone a una pedagogia della ricerca, che invece
pone l’accento sulla scoperta e l’esperienza. In questa contrapposizione si
rischia di dare per scontata la qualità di questo “patrimonio” di conoscenze.
Ora, proprio sul versante del sapere disciplinare la scuola è invece anche
profondamente carente. Il fatto è evidente nel caso delle scienze. Risalgono ai primi decenni
del Novecento le scoperte che hanno costituito il punto di svolta della
fisica classica. Dire che a livello subatomico la materia non esiste con certezza
in posti definiti ma ha solo probabilità di esistere, che onda e particella,
energia e materia, sono due descrizioni complementari, entrambe valide o entrambe
inadeguate, che le particelle non sono piccole palline di materia ma strutture
dinamiche energetiche, che una forza interagente può essere descritta come
uno scambio di particelle, significa che i due pilastri della fisica
classica, forza e materia, sono crollati. Da
allora quella epistemologia, che aveva avuto in Cartesio e Bacone i
fondatori e nella macchina del mondo newtoniana il suo paradigma di
riferimento, è entrata in crisi profonda. E oggi che “il progresso è finito”,
a causa delle condizioni che esso stesso ha creato sfruttando
indiscriminatamente le risorse del pianeta, è in crisi anche l’ideologia del
dominio sulla natura che aveva trovato origine e sostegno in quella epistemologia.
Eppure nella scuola (e nella cultura di massa) ancora viene insegnato che
l’atomo è come un piccolo sistema solare, un orologio ben oliato, una macchina
prevedibile sotto il controllo dell’uomo scienziato. L’esempio
fatto dimostra che per trasmettere conoscenze obsolete si perpetua una epistemologia
in profonda contraddizione con le grandi istanze etiche, e quindi educative,
di oggi, che richiedono l’abbandono della cultura del dominio nei confronti
de “l’altro”, sia esso natura o soggetto umano. (A meno che non sia vero
l’inverso: che proprio per perpetuare quella epistemologia del dominio la
scuola trasmette conoscenze obsolete). Ricerca e
conoscenza
Oggi si comincia a parlare
di “preconoscenze” dei bambini. Le preconoscenze sono già meglio dei
“prerequisiti” della programmazione. Questi per l’appunto sono preliminarmente
richiesti, sono la condizione necessaria per apprendere e danno l’idea di
condizioni poste ai bambini per essere ammessi (i “test d’ingresso”) al processo
di apprendimento (e che ne facciamo di chi non ce li ha?). Ma perché indagare sulle
pre-conoscenze dei bambini se si è convinti che non siano vere conoscenze?
C’è dietro un’idea discutibile dell’insegnamento: occorre un’azione di intelligence
per scoprire come pensano i bambini; ciò allo scopo di trovare mezzi e
strategia più efficienti per sconfiggere il loro modo di pensare primitivo
e inadeguato, e sgombrare il campo alla conquista della vera conoscenza. Io penso che non c’è un
“dopo”: penso che ricercare attorno alla conoscenza dei bambini è già
un’azione educativa, è già lavorare per la loro consapevolezza, per una
meta-conoscenza, per un apprendere ad apprendere. Ma ciò significa fare una
ricerca non sui bambini, ma con bambine e bambini. La ricerca è il luogo dove
si pongono domande e si cercano possibili risposte; per questo è anche la
dimensione dell’incontro tra i bambini e coloro che la cultura la elaborano.
Quando questo incontro avviene in carne e parola (sono stato testimone di un
dialogo tra un gruppo di bambini di prima media e due eminenti astronomi)
può accadere di scoprire che le domande iniziali dei bambini sono le
domande finali che appassionano gli scienziati, che entrambi privilegiano
la metafora, che gli uni e gli altri sono orientati da una stessa forza che
assomiglia più all’estetica che alla logica. La scuola è per sua natura
un luogo “protetto”, altro dal mondo. Ma il problema non sta nel fatto che
il contesto scolastico sia artificiale: il teatro ad esempio è spesso luogo
di ricerca, di scoperte, di profonde verità. Il problema è piuttosto di
che cosa è simulazione la scuola, e di che qualità è l’esperienza
che viene messa in gioco nella simulazione. Ora, da una parte, il
referente della conoscenza scolastica non è la realtà attuale del mondo
(l’abbiamo visto per la scienza), dall’altra la scuola non sembra in grado di
rendere viva una esperienza di conoscenza, qualunque sia il suo referente. Ma
il primo problema è speculare al secondo. Ecologia/educazione
Se
come educatore mi propongo di aiutare i bambini a costruire una relazione
positiva con il mondo in cui vivono, non posso ignorarne i dati di crisi. E
allora scelgo di mettere al centro della mia ricerca il problema ecologico,
inteso nel senso più ampio di crisi delle relazioni dell’uomo con la natura
ma anche con gli altri uomini e con se stesso. Ma il primo compito che si
pone una educazione all’ecologia, il primo ambiente con cui è
necessario recuperare una relazione di equilibrio dinamico è il proprio
corpo, inteso come interezza, come non separazione tra fisico e
mentale, tra emozione e razionalità, tra immaginare e sapere. Una ecologia
dell’educazione si gioca sulla possibilità di sperimentare una
“presenza”, una possibilità del corpo intero di entrare in rapporto diretto
con le cose, a partire dalla percezione e dall’azione, che è anche la possibilità
di un apprendimento “naturale”, che fluisca organicamente dall’esperienza. Il problema culturale è
piuttosto quello dello scarto tra l’intuizione che nasce dall’esperienza
globale del vissuto, e le formalizzazioni della scienza. La verbalizzazione
di un’esperienza che coinvolge nell’azione la persona intera fa emergere una
rappresentazione meno lineare, non quantitativa perché non misurabile, costitutivamente soggettiva perché nessuna esperienza si
dà astraendo dalla presenza del corpo che la agisce, sostanzialmente complessa
perché fatta di relazioni e non di oggetti. Il problema per noi, nel nostro
rapporto con i bambini, sta nel fatto che le loro modalità di rapporto con la
realtà nell’esperienza implicano un linguaggio spesso intraducibile nel nostro,
un linguaggio, fatto soprattutto di azioni e di immagini. Ma il nostro
pensiero verbale è un prodotto culturale, si è strutturato in una cultura
essenzialmente razionalista, ed è un errore considerano “naturale”, un che
di dato a priori, di uguale per tutti. L’interrogativo che mi pongo riguarda
allora la possibilità di riportare in un lavoro sul linguaggio le qualità
proprie dell’esperienza corporea, e quindi la possibilità di ricostruire
un’interezza della persona, una complessità delle relazioni anche a livello
della rappresentazione. Una finestra
Io
credo che la possibilità per la nostra società di elaborare una cultura
capace di farla uscire dalla crisi dipende anche dalla capacità degli adulti
di imparare dai bambini. La mia ipotesi, che nasce dall’ascolto di Lisa e di
tante altre bambine e bambini, è che i bambini originariamente pensano in
modo complesso. Il termine “originariamente” apre tutto il problema dello
sviluppo del pensiero all’interno di una cultura. Io vedo come una finestra
tra due condizioni del bambino: la prima è quella che arriva almeno fino al
primo anno di scuola, in cui certamente l’ambiente è determinante, ma in cui
in qualche modo l’egocentrismo del bambino e la sua impermeabilità al
linguaggio dell’astrazione gli garantiscono uno spazio largamente autonomo
di elaborazione del pensiero; poi (diciamo tra gli otto e i dodici anni) c’è
un passaggio difficile ed esaltante in cui i bambini diventano capaci di
farsi capire dagli adulti e di esprimere i loro pensieri nella loro diversità.
Questa capacità richiede una sempre più profonda competenza nel linguaggio
degli adulti (non è previsto l’inverso), ma attraverso questa passa
l’acquisizione del pensiero analitico che è indistricabilmente
connaturato a quel linguaggio. E si giunge così alla seconda condizione,
all’altro lato della finestra, quella della piena assunzione del modo di pensare
standard dei libri di testo e della cultura di massa. Per questo il
linguaggio dei bambini che si trovano in quella finestra ha una
straordinaria importanza. È un oggetto estremamente delicato, in cui
le tracce labili del loro pensiero possono andare facilmente disperse. Non è
soltanto il fatto che l’adulto può non cogliere il senso di ciò che i
bambini dicono; è che, all’interno di una relazione educativa istituzionalmente
asimmetrica e in un processo in cui il pensiero del bambino prende una forma
consolidata attraverso l’interazione verbale con l’adulto, un intervento
non sintonizzato di quest’ultimo interferisce con la costruzione dei
significati, delle relazioni, dei sensi. Il silenzio e
l’ascolto
Allora quelli che all’interno del flusso
del discorso sono, in rapporto a un linguaggio adulto scolarizzato, scarti,
slittamenti, sfocature, imprecisioni, banalità, diventano segni, tracce,
indizi. Il pericolo dunque è che l’adulto non accolga, o interpreti a suo
modo (“quelli che... ti spiegano le tue idee senza fartele capire” cantava
Enzo Jannacci). Però non basta tacere e rimandare l’interpretazione; a volte
la fragilità del linguaggio o dello stesso pensiero del bambino ha bisogno di
un sostegno. Nei confronti dei bambini mi sembra vada
sottolineato il valore metodologico di un silenzio epistemologico.
Dunque silenzio come atteggiamento di ascolto, cioè di accoglienza del
pensiero altrui non per giudicarlo, usarlo o anche tollerarlo, ma per
reagire e interagire con esso in uno spazio “democratico”, protetto dal pregiudizio,
dove lo sforzo di comunicare non implichi l’assunzione del linguaggio
dell’autorità; uno spazio protetto dove costruire relazioni e sviluppare una
ricerca d’identità. Un silenzio non come un vuoto in cui perdersi, ma come
spazio in cui possono riemergere i vissuti e si può costruire la
consapevolezza del loro significato. Un silenzio pieno della memoria delle esperienze
fatte, in cui le menti, e non solo le coscienze razionali, possono esprimere
e riconoscere le loro relazioni con il mondo. Questo silenzio, così diverso da quello
imposto dalla scuola come limite alla possibilità di esprimere se stessi e
quindi come negazione dell’ascolto, è lo sfondo su cui la parola può
assumere forma e corpo nel dialogo. Il dialogo non è soltanto il luogo dove
portare alla luce le preconoscenze individuali, per metterle a confronto o accomodarle
reciprocamente in quella che è la prefigurazione di una comunità culturale.
Il dialogo è una metodologia per l’ascolto, un luogo dove si elaborano le
conoscenze, dove si costruiscono teorie, che non sono tali finché il
soggetto non le struttura. Una conoscenza complessa, strutturata su
relazioni più che su oggetti e concetti, trova in una situazione di
interrelazioni vive il terreno più fertile per divenire anche rappresentazione
e verbalizzazione, l’humus più naturale per crescere e dare fiori e frutti. Lisa ha bisogno di
giardinieri. |
[1] La classe è la IV 1992/93 della
scuola elementare di via Bosio a Chieti Scalo;
insegnanti Antonietta Ciarciaglini e Maria Finarelli.