Il Fondo della scuola media di via Cagliero a Milano

Presso la Fondazione I.S.E.C.

(Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea)

di Sesto S.Giovanni

 

2017- Presentazione di Marcello Sala e Pinuccia Samek

Marcello Sala

Quello relativo alla sperimentazione nella S.M.S. di via Cagliero che si trova all’ISEC non è un archivio, ma una storia documentata (e quindi non una “narrazione”).

L’aspetto “oggettivo” sta nella documentazione, quello soggettivo nella selezione dei documenti che Pinuccia Samek e io abbiamo fatto, ognuno per conto suo, non adesso ma allora, come si fa quando si vuole conservare memorie dei propri percorsi di vita.

Io allora ero alla mia prima esperienza di insegnamento, perciò questa per me è una storia di formazione.

Ho avuto tanti maestri e maestre (la maggior parte senza che loro lo sapessero): Pinuccia è stata per me maestra del rapporto tra scuola e democrazia, e lo è ancora oggi, come Presidente della nostra Associazione Scienza under 18. All’inizio della storia nel 72 è Coordinatrice Didattica e quindi artefice del progetto di sperimentazione; nel 79, dopo alcuni anni di lavoro altrove, torna come Preside e si trova a gestire la fine della sperimentazione.

Quando si raccontano storie in fondo si intende fare esempi, ma di che cosa sono esempi dipende dalla relazione con chi le ascolta; per questo speriamo che qualcuno/a venga all’ISEC a leggere le carte.

Non è seriamente pensabile sintetizzare in 20’ la sperimentazione in via Cagliero, perciò abbiamo scelto di accendere una luce su due punti che stanno all’inizio e alla fine.

Leggerò i testi cercando prima di contestualizzarli brevemente.

Il primo testo è contenuto in una relazione presentata da Pinuccia a un convegno di scuole sperimentali nel 72. Abbiamo scelto un brano che testimonia una contraddizione che ha a che fare con il rapporto tra scuola e democrazia:

 


Il secondo documento è un mio intervento personale, ma è stato fatto al Collegio Docenti e rappresenta un vissuto condiviso da un gruppo che possiamo etichettare come “sperimentalisti”, contrapposto ai “riformisti” in un conflitto che ha accompagnato la storia della sperimentazione e che fa riferimento a quella contraddizione che abbiamo visto.

Nel giugno 77, come ogni anno, si era dovuto ri-scrivere il progetto di sperimentazione per ottenere l’approvazione del Ministero, che aveva un unico criterio di valutazione: il numero di insegnanti in più rispetto all’organico normale.

Il conflitto aveva preso le forme della contrapposizione tra due progetti di sperimentazione su cui la votazione in collegio era terminata 33 pari. A quel punto molti da entrambe le parti avevano chiesto di ridiscutere tutta la questione, ma la Preside Rosa Tabarelli aveva utilizzato la facoltà giuridica di far valere doppio il proprio voto a favore del progetto “riformista”, che ridimensionava la sperimentazione rispetto all’anno precedente.

Gli “sperimentalisti” così si trovarono non solo a lavorare per, ma anche a difendere, il progetto che si era contrapposto al loro.

Alla fine dell’anno 77-78 decisero di ripensare il progetto attraverso un intenso e approfondito lavoro di verifica e riflessione, assumendo come punto di partenza e di riferimento la qualità educativa e non la riduzione dell’extraorganico.

Il progetto ancora una volta si contrapponeva a quello dei “riformisti”, ma questa volta ottenne una larga maggioranza in Collegio Docenti.

Nel luglio 78 Il progetto venne bocciato dall’Autorità scolastica.

Settembre 78: siamo al primo collegio dove si deve decidere se formulare un nuovo progetto adeguandosi ai vincoli esterni o se chiudere la sperimentazione:

<<C’è una verità che per troppo tempo non abbiamo capito, o rifiutato di accettare, ed è che la sperimentazione è finita da tempo, perché da tempo, da sempre forse, non ci sono le condizioni per realizzarla.

Il disperato agitarsi di questi giorni attorno ai consigli di classe, smembrati per l’ennesima volta, ai progetti di lavoro sconvolti e troncati dalla partenza di persone che amiamo, con cui abbiamo collaborato, con cui siamo cresciuti, ce lo rende evidente con concretezza corporea.

È finita la sperimentazione non tanto perché il Provveditore ha bocciato il progetto, o perché noi non sappiamo gestirlo, quanto perché è finito il tempo, non di questa sperimentazione o della sperimentazione scolastica, ma della sperimentazione a livello istituzionale in qualunque campo.

Osservando altre realtà emerge lo stesso quadro generale che possiamo osservare noi qui.

Gli insegnanti scelgono di non assumere la quota di rischio e di incertezza che la sperimentazione comporta: preferiscono le certezze delle tecniche da applicare alle ipotesi di ricerca da verificare.

Del resto è nella cultura stessa degli insegnanti che si scontano la separatezza tra intellettuale e manuale, razionale e creativo, tra le varie “materie”, la indisponibilità e la impreparazione a esplorare campi di frontiera.

I genitori vogliono i vantaggi della sperimentale senza essere disposti ad accettarne i rischi e i prezzi da pagare (es. l’inserimento degli handicappati); vogliono una scuola “nuova e migliore”, ma non sono disposti a mettere in discussione le loro aspettative, tanto che spesso si ha la sensazione che i figli, con cui non vivono e di cui non conoscono la realtà, siano sacrificati e strumentalizzati alle loro ideologie (da destra e da sinistra).

Ma parlare di genitori è fare una categoria fasulla: è la realtà culturale e sociale di questo paese che è cambiata e porta a certi comportamenti.

A livello culturale la caduta all’indietro è paurosa; esempio ne sono i referendum [legge Reale e finanziamento ai partiti]: non si informa per far crescere una capacità di scelta al di là dei pregiudizi ideologici, ma si orienta la scelta della gente anche se ciò comporta mistificazioni, distorsioni della realtà e ignoranza.

Trionfano perbenismo e moralismo. Il dissenso, l’opposizione vanno emarginati ed eliminati criminalizzandoli (forse noi dimentichiamo che sperimentazione è diversità, è dissenso) scatenando contro di essi non la critica e l’iniziativa politica, ma la reazione d’ordine indiscriminata.

A livello politico non c’è più spazio per i movimenti che traggono la loro energia dallo specifico delle condizioni sociali: tutto viene deciso a un livello di mediazione di vertice, che è esterno alla realtà sociale, e in base a scelte ideologiche o strategiche pensate da pochi, su cui si chiede consenso e non partecipazione, non protagonismo.

Ma la repressione degli spazi di sperimentazione sociale, di pratica di obiettivi avanzati, di contestazione e di dissenso non è solo una scelta politica: c’è sotto un nodo culturale-etico-sociale che io ho imparato a conoscere lavorando con gli handicappati [vedi fondo].

Si dice che gli handicappati vanno trattati come uguali: ipocrisia (“fare parti uguali tra diseguali è la peggiore ingiustizia” diceva Don Milani). Sono diversi e vanno trattati come diversi. Il punto è che per noi il diverso è negativo (è “di meno”) e perciò si vuole ricondurlo a una normalità che è tutta ideologica.

E questo lo si fa perché si vuole nascondere, e non si vuole accettare, la diversità che c’è in ciascuno di noi. Quella diversità che potrebbe esere arricchimento per tutti (avere ciechi in classe vuol dire scoprire il mondo dei suoni, degli odori, del tatto…)

È questa la realtà cui ora dobbiamo pagare le nostre cambiali. Perché noi abbiamo voluto continuare a fare sperimentazione a tutti i costi, accollandocene così tutte le responsabilità, compresa quella del fallimento, quando una valutazione freddamante politica ci avrebbe rivelato l’impraticablità oggettiva di questa esperienza.

Ma l’utopia è dura a morire e la speranza di essere avanguardie di un rinnovamento, di una crescita generalizzata è ciò che ci fa impegnare, sopportare i costi, ma crescere e, in definitiva, vivere.

Chi ci dice che il nostro progetto a giugno è stato fatto allo scopo di essere bocciato non ha capito proprio nulla. Se c’è una cosa che ha caratterizzato il lavoro fatto sul progetto a partire dalla prima idea, è stato lo sforzo di fare i conti con la realtà organizzativa e umana della scuola, cioè di renderlo realizzabile.

È proprio qui l’ultimo errore: esserci illusi che, attraverso quel progetto, fosse ancora realizzabile una sperimentazione a livello istituzionale.

Ogni mia valutazione sulla situazione contingente e sul “che fare ora” non può che partire da queste considerazioni.>>

 

Pinuccia Samek

Affido la mia comunicazione a due parole chiave suggerite dai documenti letti.

La prima parola è RICERCA

ed è implicita sia nel rifiuto di considerare la sperimentazione come la confezione di un MODELLO da esportare (sappiamo i danni dell’esportazione della democrazia in altri paesi…) sia nella proposta di considerare le sperimentali come luoghi di formazione  di insegnanti intesi come professionisti riflessivi  (Shon) che continuano a imparare dalla pratica. Infatti il seminario di programmazione del settembre 73 nasce da quello di giugno in cui si era ragionato su risultati e sconfitte perché ricerca significa anche render conto: accountability.

Ma anche la conclusione del secondo documento, così diverso, appassionato, marcato da una sconfitta istituzionale (si badi non nel merito dell’efficacia didattica) esprime la decisione di non mollare perché “l’utopia è dura a morire e la speranza di essere avanguardie di un rinnovamento, di una crescita generalizzata è ciò che ci fa impegnare, sopportare i costi, ma crescere e, in definitiva, vivere.” (VIVERE sarebbe la terza parola, ma non c’è tempo e non vogliamo fare amarcord)

La seconda parola è “CONFLITTO”.

Dicevo a Marcello che purtroppo non possiamo consegnare a ISEC i dazebao che trovavo la mattina in sala prof. a commento “scritto” di quello che succedeva, ma soprattutto a commento della mia gestione del “potere”.

Che è consistita a livello personale nel riconoscere, per non perderla, la conoscenza che il dissenso ti offre; a livello di gestione della scuola, nel mantenere aperte due linee di ricerca che si vivevano come conflittuali.

Non credo di essere riuscita a trasformare il conflitto in dialettica, ma le due linee -proprio perché considerate entrambe linee di effettiva ricerca- hanno potuto convivere, svilupparsi e quindi forse, a posteriori, riconoscersi. Io le vedevo come la linea del “ricevere per dare” vs quella del “dare per ricevere” e mi sembravano praticabili entrambe, affidate a insegnanti appassionati e competenti. Certo alcune decisioni anche banali risultavano meno facili e cito per chiudere quella di autorizzare la gita scolastica a inizio d’anno, proposta come una sfida al solito modo di iniziare la scuola.

Non è detto che le carte “parlino” di tutto ciò ma a noi qui si è chiesto di parlarne…