Circolo Bateson    Roma    novembre 2004

“Forma e processo nel vivente”

 

GREGORY BATESON E L’EVOLUZIONE

seminario condotto da Marcello Sala

 

Il discorso parte da un problema che si ripresenta in molte situazioni concrete: come si possono trasferire da un sistema ad un altro, che “parla” un diverso linguaggio, informazioni che per il secondo sistema costituiscono “ingiunzioni”, comandi operativi che permettono di realizzare azioni?

Che cosa ha a che fare questo con l’evoluzione?

E qui è necessaria una premessa su cos’è l’evoluzione. L’evoluzione è una risposta alla domanda: perché esiste la diversità biologica? È una risposta che poggia su 4 pilastri (Cavalli Sforza): mutazione, selezione, deriva, migrazione.

Le forme (strutture, funzioni) degli esseri viventi sono l’espressione del materiale genetico che si trasmette dai genitori alla prole. Variazioni del materiale genetico producono diversità di forme all’interno di una specie.

La differenza degli ambienti e l’isolamento riproduttivo possono far sì che la selezione naturale amplifichi le divergenze e, se si supera la soglia della interfecondità, si arriva ad avere specie diverse.

Se le popolazioni che si separano sono piccole, aumenta la differenza tra di loro e diminuisce la differenza al loro interno, e questo è il fenomeno della “deriva”. La migrazione, attraverso gli incroci tra membri di popolazioni diverse, riduce le differenze tra le popolazioni, aumentando invece quelle interne alle popolazioni. Le forze opposte della deriva e della migrazione creano un equilibrio. (Un effetto di questa dinamica: assumendo l’ipotesi che le razze umane esistano, la variazione tra razze è il 10% di quella interna alle popolazioni della stessa razza).

Il nostro problema riguarda il primo pilastro, la mutazione: le variazioni sulle quali agisce la selezione si originano da “errori” di riproduzione o di riassemblaggio del materiale genetico e si trasmettono di generazione in generazione perché portate fisicamente dal DNA. Ma il meccanismo principale della selezione agisce sui corpi: in che modo dunque le informazioni contenute nel DNA, che portano la differenza, si esprimono in forme, funzioni e comportamenti diversi dei corpi.

Gregory Bateson non si interessa della base fisica di questi processi (trascrizione DNA-RNA, traduzione RNA-proteine, funzioni proteiche che determinano la struttura dei corpi o il loro funzionamento), bensì della forma dei messaggi, la loro semantica:

“Io sono convinto che quando si studierà il regno quasi del tutto sconosciuto dei processi tramite i quali il DNA determina l’embriologia, si troverà che il DNA non menziona altro che relazioni. Se chiedessimo al DNA quante dita avrà questo embrione umano, la risposta potrebbe essere: ‘Quattro relazioni di coppia fra (le dita)’. E se chiedessimo quanti spazi vi saranno tra le dita, la risposta sarebbe: ‘tre relazioni di coppia fra (gli spazi)’. In ciascun caso sono definite e determinate solo le ‘relazioni fra’. Gli elementi finali delle relazioni nel mondo corporeo non vengono forse mai menzionati.”  [1]

Bateson sta ponendo il problema di quale sia il sistema di significati in cui è organizzato il rapporto tra DNA (genotipo) e corpo (fenotipo). Nelle situazioni concrete di trasmissione di “ingiunzioni” vediamo in azione non diverse lingue ma diversi linguaggi, diversi sistemi di significati applicati allo stesso oggetto; Bateson direbbe: diverse “descrizioni”.

Questo modo di porre i problemi, prima che di trovare risposte, si colloca dentro un contesto storico e culturale in cui William Bateson, il padre di Gregory, ha una parte non secondaria. Le idee del padre possono essere cioè considerate un contesto per quelle del figlio (e dicendo “le idee” del padre allontano ogni sospetto di interpretazioni psicoanalitiche, per collocare il rapporto padre-figlio in un contesto culturale, che è quello pertinente).

IL PADRE

William Bateson (1861-1926) è figlio di un letterato, ha una esperienza scolastica difficile (“ragazzo svagato e senza scopi” diceva il padre di lui), si indirizza poi verso studi di zoologia e morfologia.

Chi si occupa di descrivere e spiegare il sistema dei viventi riconosce nella natura un ordine, ma da prima di Darwin la questione fondamentale, di dibattito e di contrasto, riguarda la diversa importanza attribuita a due principi d’ordine: da una parte l’adattamento all’ambiente esterno (la forma si modella sulla funzione) e dall’altra i vincoli strutturali (la funzione è condizionata dalla forma), come riferimento a un ordine interno prevedibile. È una disputa che attraversa il campo degli antievoluzionisti o pre-evoluzionisti (Paley vs. Agassiz, Cuvier vs. Geoffroy St. Hilaire)  quanto quello degli evoluzionisti (Darwin e Wallace vs. Owen, De Vries…).

William Bateson (WB) è attratto dallo strutturalismo e diffida degli argomenti funzionalisti: dato che per carattere non si sottrae alle controversie, critica l’adattazionismo proprio alle celebrazioni del 1909 in occasione del centenario della nascita di Darwin. Darwin ha sostenuto due grandi idee: l’evoluzione è un dato di fatto(1), la sua spiegazione sta nella selezione naturale (2); secondo WB la grandezza di Darwin non è in una teoria definitiva (2) ma in una linea di ricerca e di scoperte che parte da (1), e lui vuole salvaguardare Darwin da quello che ritiene un errore (2).

Nella sua opera principale, Materiali per uno studio della variazione (del 1894, un insuccesso editoriale), WB sostiene che lamarckismo e darwinismo sono entrambi meccanismi adattazionisti (fuzionalisti), ma l’adattamento non spiega il fatto che la diversità delle forme delle specie viventi nel quadro tassonomico è discontinua mentre gli ambienti variano con continuità nello spazio e nel tempo, digradando uno nell’altro (WB però dimentica la spiegazione di Darwin: l’estinzione). La causa dell’evoluzione deve essere ricercata non nella selezione ma nella variazione, nei meccanismi interni dell’ereditarietà. Mancando dati sperimentali, WB raccoglie e classifica i fatti della variazione. Per lui gradualismo e continuità (il “natura non facit saltus” di Leibnitz e Linneo) sono pregiudizi: nella variazione discontinua va cercata la causa dell’evoluzione.

Per WB ci sono due tipi di variazione: quella continua (di cui non si occupa) e quella “meristica” (“saltazionale”) che riguarda strutture simmetriche, che si ripetono in serie (es. i segmenti degli anellidi o degli artropodi, le vertebre...); variazione che procede per comparsa o scomparsa di interi elementi:

“il tarso [arto della blatta] a quattro segmenti, che ricorre sporadicamente come una varietà, è costruito in modo non meno perfetto del tipo a cinque segmenti e le proporzioni delle sue diverse articolazioni non sono meno costanti. Non è quasi nemmeno necessario notare che questi fatti non sostengono affatto la tesi secondo cui l’esattezza o la perfezione con cui vengono preparate le proporzioni della forma normale sono una conseguenza della selezione. Sembra piuttosto che ci siano due possibili condizioni, l’una a cinque segmenti e l’altra a quattro, essendo ciascuna una posizione di stabilità organica. Il tarso può avere ambedue le forme e, sebbene si possa ipotizzare che la scelta finale venga fatta dalla selezione, non si può però supporre che siano opera della selezione l’accuratezza e la completezza con cui una delle due condizioni viene raggiunta, dato che quella ‘anomala’ è tanto definita quanto quella normale.”

Secondo WB la discontinuità meristica è l’espressione fenotipica di una sottostante regolarità meccanica (onde e vibrazioni) ed è la causa della discontinuità tassonomica; su di essa agisce la selezione, che quindi non è “creativa”. Il suo strutturalismo lo porta a preferire spiegazioni che implicano condizioni riproducibili (forze meccaniche) e non la storia; il suo empirismo britannico lo porta a giudicare gli adattamenti come frutto dell’  “abitudine adattazionista a ‘raccontar storie‘ come misero sostituto dell’esperimento e della prova” [2]. In realtà la sua critica si rivolge piuttosto verso il “migliorismo” alla Pangloss del Candide di Voltaire (“Tutto quello che doveva essere fatto per sviluppare la teoria dell’evoluzione era scoprire il buono in ogni cosa”) e verso la premessa finalistica (“sono piuttosto sicuro che interpreteremmo più correttamente i fatti della natura se cessassimo di aspettarci di trovare un’ intenzione ogni qualvolta riscontriamo strutture o schemi definiti” ).

In un’altra critica all’adattazionismo WB sostiene che le forme nella loro organizzazione non possono essere il risultato di una selezione che agisce sui singoli caratteri; c’è qui una idea forte di sistema:

“… una verità assiomatica il fatto che nessuna variazione, per quanto piccola, possa avvenire in una qualsiasi parte senza che avvengano altre variazioni ad essa correlate in tutte le altre parti: o, piuttosto, che nessun sistema, in cui la variazione di una parte sia avvenuta senza questa corrispondente variazione in tutte le altre, possa continuare a essere un sistema.”  (nel 1888).

WB sostiene la necessità di integrare il metodo dei naturalisti (descrizione della variazione) con quello degli sperimentatori (ricerca delle cause), ma a quei tempi manca una base sperimentale alla ereditarietà (lui propone esperimenti di incrocio), finché non si riscoprirà il lavoro di Mendel (1900).

È lui a inventare il termine “genetica” (1905), a scoprire l’epistasi (effetto di un gene sull’espressione di un altro) e il linkage (tendenza di certi caratteri a presentarsi associati), ma non mette in relazione la discontinuità della variazione con la mutazione, perché continua ad attribuire la causa materiale dell’ereditarietà a fenomeni di tipo ondulatorio (fisico) e non corpuscolare (chimico); non afferra l’idea che le particelle mendeliane possano determinare la variazione meristica controllando la velocità dei processi.

Nel 1913 esprime la speranza che si possa applicare la matematica alla morfologia (ricerca di pattern, cioè di strutture, di configurazioni regolari); ciò che farà D’Arcy Thompson nel 1917.

Nel 1922, poiché genetisti e naturalisti non collaborano tra loro, si dice “agnostico” sul futuro della teoria dell’evoluzione e la dichiarazione viene strumentalizzata dai creazionisti.

Nello specifico della sua ricerca, WB è affascinato da mutazioni, che definisce “omeotiche”, che hanno l’effetto di far sviluppare un elemento seriale in una localizzazione diversa al posto di un altro elemento della stessa serie (ad esempio, nella Drosophila, un secondo paio di ali al posto di bilancieri). Più di mezzo secolo dopo, con Lewis nel 1978 nascerà quel filone di ricerca che prenderà il nome di ”evo-devo” (evolution-development): le mutazioni omeotiche verranno spiegate dalla azione di alcuni geni regolatori. La presenza di più copie di geni regolatori denominati Hox permette un gradiente di regolazione lungo l’asse antero-posteriore del corpo, da cui può dipendere il numero di segmenti corporei. Negli anni Ottanta la scoperta della omologia di geni Hox in organismi appartenenti a phyla distanti (invertebrati e vertebrati) darà una base genetica al fenomeno del “parallelismo” (strutture analoghe prodotte da supposti generatori omologhi), distinto dalla “convergenza” (analogia per adattamento a condizioni simili).

Si possono qui individuare alcuni nodi che tornano spesso nelle opere Gregory Bateson. Su alcuni si può cogliere una continuità tra idee del padre e del figlio, come nella ricerca di sintesi tra discipline diverse o nell’attenzione sistemica, o nella critica alla teleologia che in Gregory diventa critica alla “finalità cosciente”, o come nell’interesse di fondo per la forma (significativo il riferimento a D’Arcy Thompson): lo “strutturalismo” di William si riferisce soprattutto alla forma degli esseri viventi, in Gregory l’attenzione alla forma dei processi, biologici e mentali, delle idee, diventa una “direzione dello sguardo” che interroga e attraversa l’evoluzione ma allo stesso modo l’antropologia e l’etologia, i problemi della comunicazione e la psicopatologia, la cibernetica e l’epistemologia alla ricerca della “struttura che connette” tutto il mondo vivente.

Su altre questioni William e Gregory la pensano diversamente. Ad esempio al “raccontare storie” Gregory dà un grande valore epistemologico perché le storie individuano pertinenze, connettono in una struttura temporale e fanno emergere significati in relazione ad un contesto.  Gregory non può condividere l’idea del padre di attribuire a forze fisiche la causa delle variazioni genetiche, dal momento che lui opera una fondamentale distinzione tra il mondo del non vivente, dove gli eventi sono effetti lineari di cause fisiche, e il mondo vivente che funziona sulla base di informazioni (dare un calcio ad un cane produce effetti diversi che darlo ad una palla). Ma Gregory dice: “Naturalmente io penetro in questo campo armato di molti strumenti che mio padre non possedette mai. Forse mette conto di farne un rapido elenco: c’è tutta la cibernetica, tutta la teoria dell’informazione e quel dominio correlato che forse si potrebbe chiamare teoria della comunicazione… ”  [3].

Ma ecco come Gregory stesso parla del padre nel contesto di ricerca che li accomuna:

“Mio padre era una sorta di genetista ancor prima che le memorie di Mendel fossero riscoperte. Era un genetista, per cosi dire, della morfogenesi. Nutriva un interesse particolare per i fenomeni della simmetria, che è la segmentazione di un organismo in due parti, immagini speculari l’una dell'altra, e in genere per tutti i tipi di segmentazione, che fosse quella radiale della stella marina o quella lineare del lombrico, dell'aragosta e dell'uomo. Perché, a ben vedere, anche noi siamo animali segmentati: le nostre costole si ripetono, le nostre vertebre si ripetono e cosi via. Questo strano, e assai rigoroso, padre zoologico nutriva un profondo scetticismo su molte delle cose dette da Darwin. [...]

Dunque ho il mio nome per via di Gregor Mendel. Ma quando fui abbastanza grande per capire queste faccende, in casa nostra si respirava già una cert'aria di delusione latente, perché il mendelismo non si era affatto rivelato il fondamento dell'evoluzione.

Nonostante tutto ciò, comunque, restava la scoperta predarwiniana dell'omologia, cioè la confrontabilità formale tra le parti o meglio tra le relazioni delle parti; era questa la caratteristica straordinaria del quadro evolutivo. Ma anche se oggi so che tutti i formalismi biologici immanenti sono, in un certo senso, idee, la teoria darwiniana m'impedì di aderire anche alla fase iniziale di tale eresia. (Se avessi visto tutto ciò con chiarezza non avrei mai abbandonato la zoologia per l’antropologia).

[...] Già allora dunque avevo in testa un bel po' di domande sui problemi che doveva risolvere la morfo­genesi, e già a quel tempo la soluzione di questi pro­blemi si stava allontanando da un linguaggio (o da un'epistemologia zoologica) tradizionale, in cui i de­terminanti sarebbero stati chiamati ‘fattori’ o ‘for­ze’ e cosi via, per dirigersi verso un modo di espri­mersi diversissimo, in cui sembrava che alle forme si arrivasse grazie a un qualche uso di idee o ingiunzioni. Il problema principale, naturalmente, era come queste idee o ingiunzioni potessero mettersi in relazione con la materia interagente di cui è fatto il corpo. E Cartesio?”  [4]

Per quanto riguarda le idee sull’evoluzione e sui suoi intrecci con la genetica, la questione continuità/discontinuità, che è centrale nel lavoro di William, mi sembra “dello stesso tipo” di quella che Gregory pone nei termini quantità/struttura e che è quella esemplificata nel problema delle dita della mano (William, come abbiamo visto, si era occupato del numero di segmenti nei tarsi delle blatte).

IL FIGLIO

Vediamo più da vicino le idee di Gregory Bateson sull’evoluzione; esse si coagulano, attorno ad alcuni temi: i livelli logici dell’adattamento, il meccanismo “interno” e quello “esterno” dell’adattamento, il parallelismo tra evoluzione e apprendimento, evoluzione/progresso e finalità.

I livelli logici dell’adattamento. Il libro Mente e natura. Un’unità necessaria (1979) è dedicato a “un tentativo di riesaminare le teorie dell’evoluzione biologica alla luce della cibernetica e della teoria dell’informazione” [5].

Le possibilità di adattamento dell’organismo dipendono da circuiti di controllo somatico (corporeo). L’uomo che sale in quota deve poter accelerare in modo reversibile il ritmo cardiaco. Ogni variabile somatica può oscillare entro un intervallo di funzionamento, ma una variabile tenuta al limite spreca energia, sottopone a tensione l’intero sistema, dal momento che le variabili sono collegate, e mantiene una situazione di rischio perché non può rispondere a ulteriori sollecitazioni in quella direzione (ad esempio sollevare pesi quando si è in quota); perciò, quando la tensione su una variabile si prolunga, come succede se il nostro uomo si stabilisce in montagna, l’organismo tende ad alleviarla, cioè a riportare il valore della variabile al centro dell’intervallo. Lo può fare spostando l’intervallo, o con l’acclimatazione (nel nostro caso una maggiore frequenza cardiaca media di base), una regolazione che richiede cambiamenti più sistemici e meno specifici delle risposte d’emergenza, o con il cambiamento genetico. Diversamente dall’acclimatazione il cambiamento genetico (che non riguarderebbe il nostro alpinista, ma la sua stirpe) è irreversibile; ciò significa che, per riguadagnare la flessibilità di una variabile più superficiale si introduce una rigidità più profonda.

Le dinamiche di cambiamento adattativo si manifestano come se gli effetti dell’uso e disuso degli organi si trasmettessero attraverso le generazioni, sostituendo il controllo somatico con quello genetico (dall’accelerazione della frequenza cardiaca all’acclimatazione con ritmi cardiaci più alti, alla eredità di un cuore più veloce); ma se davvero si potessero ereditare cambiamenti somatici (lamarckismo) l’errore sarebbe di far perdere alla vita la capacità adattativa e autocorrettiva del cambiamento somatico (una popolazione geneticamente adattata a vivere in quota non può tornare a vivere al piano).

Quindi, secondo Bateson: a) il cambiamento somatico ha una struttura gerarchia che corrisponde alla profondità delle richieste di adattamento;  b) il cambiamento genetico ne è la componente superiore; c) il cambiamento genetico non interviene se non quando il cambiamento somatico reversibile diventa permanente (esso sposta la regolazione); d) il controllo della regolazione dipende da più geni ad azione non specifica.

Il meccanismo “interno” e quello “esterno” dell’adattamento (apprendimento). Secondo Bateson, per raggiungere la sopravvivenza-riproduzione ci sono due modalità di adattamento, due meccanismi stocastici [6]: uno in relazione all’interno dell’organismo, alle regolarità dello sviluppo e alla fisiologia, uno in relazione all’esterno, alle richieste dell’ambiente.

Il sistema interno è conservativo. L’omologia tra strutture che in organismi diversi hanno le stesse relazioni strutturali (naso + labbro dell’uomo Û proboscide dell’elefante) ne è una manifestazione. L’omologia dimostra le correlazioni e quindi la filogenesi evolutiva: a somiglianze più profonde ed estese corrispondono parentele più antiche. Perché certi caratteri sopravvivono più a lungo? Poiché strutture omologhe hanno la stessa origine embriologica è stato detto che “L’ontogenesi ripete la filogenesi” (Haeckel) e che “le larve si assomigliano più degli adulti”; tali affermazioni non sono sperimentalmente confermate, ma pongono il problema se le variabili dell’embrione siano più stabili rispetto a quelle dell’adulto. Vi è corrispondenza tra caratteri (elementi di descrizione) dell’organismo e le “ingiunzioni” che, da parte del genoma, determinano l’ontogenesi, ovvero le forme dei processi di sviluppo dell’organismo? È qui che si colloca la questione delle dita della mano.

Le omologie si basano su elementi che riguardano la forma o la struttura. La variazione delle forme è continua o discontinua? D’Arcy Thompson mostra come forme diverse ma correlate sono ottenibili per trasformazioni geometriche (ad es. le forme del carapace di varie specie di granchi si possono ottenere le une dalle altre attraverso distorsioni geometriche sistematiche). Ciò significherebbe che differenze fenotipiche di questo genere vengono rappresentate da un numero limitato di differenze nel genotipo, che si esprimono sistematicamente in tutto il corpo. Le forme presentano strutture stabili che rimangono costanti e altre che variano con continuità: le omologie si baserebbero sulle prime [7].

Conservativi sono il meccanismo riproduttivo sessuato e i processi dell’embriologia (epigenesi) che favoriscono la conformità e compatibilità con ciò che già esiste. La selezione in passato ha favorito cambiamenti che proteggono l’embrione, perciò l’epigenesi sottrae a lungo l’organismo da una forte pressione ambientale.

L’epigenesi deve essere protetta da nuove informazioni, mentre la perdita di informazioni porta gravi distorsioni dello sviluppo.

Il sistema “esterno” invece subisce l’azione della selezione nell’interazione tra fenotipo e ambiente; l’ambiente è in continuo cambiamento e richiede cambiamento. A questo livello gli adattamenti sono funzionali e quindi prevedibili, ma è imprevedibile il sistema organismo-ambiente.

L’organismo individuale è capace di adattamenti somatici, ma è sulla popolazione, e quindi sulla potenzialità del cambiamento somatico, che la selezione ambientale provoca effetti. La selezione naturale esterna riconosce le differenze, favorendo la sopravvivenza-riproduzione differenziale dei discendenti in base alle loro caratteristiche, la cui variabilità è assicurata dalla mutazione e dal rimescolamento casuale dei geni; in questo senso la selezione agisce sul pool genico della popolazione, deposito di percorsi genetici alternativi. I cambiamenti somatici sono adattativi e quindi utili alla sopravvivenza-riproduzione: l’adattamento somatico crea un contesto per il cambiamento genetico (aleatorio): le abitudini stabiliscono le condizioni per la selezione.

Nel caso del cambiamento genetico casuale il nuovo stato del DNA esiste già alla fecondazione ma forse contribuisce all’adattamento esterno molto più tardi; all’inizio domina l’epigenesi conservativa. Questo assicura le omologie nella struttura (conservazione della forma), prima fra tutte quella della struttura cellulare. Per questo esiste una ragione formale per aspettarsi che le strutture degli embrioni si assomiglino più di quelle degli adulti.

I cambiamenti somatici sono sempre quantitativi (per gradienti, continui, e quindi “analogici”), ma “la quantità non determina la struttura”; la struttura è soggetta ai cambiamenti genetici discontinui. L’opposizione quantità/struttura, continuo/discontinuo, ovvero analogico/digitale, è una barriera fondamentale tra il linguaggio del soma e quello dei geni: le “proposizioni descrittive” dei geni che danno origine a strutture comuni (omologie) non sono mai disturbate da cambiamenti somatici. I due sistemi di cambiamento, quello “interno” e quello ”esterno”, differiscono dunque per l’opposizione digitale/analogico.

Anche i processi del pensiero sono stocastici. La componente casuale è indispensabile al processo creativo per tentativi ed errori. In analogia con l’epigenesi, la prima selezione delle idee è “interna” e avviene sulla base della coerenza (rigore) e della compatibilità con ciò che già si sa e si crede (cultura), mentre la genesi di nuove idee dipende dalla ricombinazione di idee (immaginazione).

In analogia con l’adattamento somatico, l’apprendimento riguarda la relazione “esterna” tra l’organismo e l’ambiente. I limiti a questo processo sono posti da ciò che si è appreso in precedenza, dalle premesse dell’apprendimento, all’indietro fino alla costituzione genetica.

Negli organismi la separazione precoce della linea cellulare da cui si sviluppano i gameti da quella somatica, da cui si sviluppa il corpo, impedisce l’ereditarietà lamarckiana (“barriera di Weismann”). Nelle culture e nei sistemi sociali non esiste un analogo di questa barriera: le innovazioni vengono adottate in modo irreversibile, senza che ne venga verificata la validità a lungo termine, così come sull’altro lato l’azione conservativa viene esercitata in modo arbitrario. Questo perché “il benessere e il disagio dell’individuo diventano gli unici criteri di scelta del cambiamento sociale, e la fondamentale differenza di tipo logico tra elemento e categoria viene dimenticata”. Come nel sistema biologico occorre sincronia e armonia tra rigore e immaginazione. [8]

Con questo discorso abbiamo già introdotto un altro tema batesoniano.

Il parallelismo tra evoluzione e apprendimento (il “processo mentale”). Lamarck capovolse la tradizionale scala esplicativa dell’essere (“in discesa” da Dio agli animali passando per l’uomo): è la scala biologica dai batteri all’uomo che deve spiegare l’emergere della mente; i processi mentali devono avere una rappresentazione materiale [9].

La teoria darwiniana collimava con le idee della rivoluzione industriale che si sommavano al dualismo cartesiano: questo portò alla esclusione dalla biologia dell’indagine sui processi mentali[10]. Di qui la critica di Samuel Butler contro la casualità: l’eredità è memoria, l’adattamento evolutivo è invenzione della vita, e non sono frutti del caso; le strutture profonde del sistema biologico derivano da abitudini e queste da azioni pianificate [11].

L’ipotesi di Lamarck fu messa al bando perché si credeva, a torto, che introducesse una spiegazione soprannaturale, ma Bateson condivide l’esigenza di una indagine sulla storia naturale come rete complessiva che comprenda anche la mente:

“Negli anni Novanta del secolo scorso, mio padre (cosa davvero singolarissima) si era accostato al problema che io ho tentato di affrontare in questi ultimi mesi. Cioè si chiedeva: se, per amor di speculazione, separiamo il mondo del processo mentale dal mondo della causa e della materia, che aspetto assume il mondo del processo mentale? Credo che lui avrebbe parlato di leggi della variazione biologica e io sarei disposto ad accettare questa definizione per ciò che sto facendo, includendovi, forse, tanto la variazione biologica quanto quella mentale, per ribadire che il pensiero è una variazione mentale.”  [12]

Allora ci si riferiva agli agenti causali della genetica chiamandoli “fattori”; indicarli invece come “comandi” o “ricordi” mostra come le teorie dell’evoluzione su base genetica e della mente siano parte della stessa epistemologia: la separazione è superata dall’idea di informazione che riguarda relazioni tra “cose” [13].

L’impostazione stocastica [14] è l’unica teoria sulla natura del cambiamento (apprendimento): all’accumulo di cambiamenti casuali del sistema neuronale il rinforzo imprime una direzione, così come la selezione imprime una direzione all’accumulo della variazione genica della popolazione [15].

Bateson propone di correggere il darwinismo non con l’aggiunta di una mente dotata di intenzione e di potere al processo evolutivo, ma con l’idea che il pensiero e l’evoluzione sono simili in quanto stocastici; ma su due livelli logici diversi (individuo/popolazione, una vita/molte generazioni). L’unità dei due sistemi è necessaria alla vita [16].

Evoluzione progresso e finalità. William Paley sosteneva, contro l’evoluzione, che nella natura è incorporato un fine (l’orologio implica l’orologiaio): le relazioni tra le cose sono il riflesso delle relazioni tra le idee. Ma, dice Bateson, essere vivi non significa essere capaci di perseguire un unico fine, bensì riuscire a mantenere costanti le relazioni di un sistema complesso attraverso continui cambiamenti. Anche l’evoluzione funziona per prove ed errori e gli elementi in gioco non sono “cose” biologiche ma relazioni tra queste cose. Non è il cavallo che si è evoluto, ma la relazione tra il cavallo e l’erba; tutto quello che si fa per mantenere un prato all’inglese (tosatura, compattamento, concimatura) è un surrogato del cavallo. L’unità evolutiva è un sistema interconnesso di popolazioni di specie diverse. Il cavallo e l’erba cambiano in modo che possa restare costante la loro relazione.

L’errore dell’Ottocento, sostiene Bateson, è stato pensare che la selezione naturale sia una forza che spinge al cambiamento, mentre è una forza conservativa. Ma la conservazione del livello superiore non si ottiene tenendo ferme le cose al livello inferiore, bensì facendole muovere, come fa l’acrobata che si mantiene in equilibrio sulla corda modificando continuamente la sua postura: il sistema dei cambiamenti ha una certa stazionarietà [17].

Gli adattamenti non hanno valore positivo di per sé (questa idea è un portato del mito del progresso dei tempi di Darwin): la storia distinguerà quelli che restano benefici da quelli che diventano patologici. La fiducia nella selezione naturale è ingenua; può accadere che: a) l’interazione con l’ambiente modifichi il contesto e ciò renda necessaria un’ulteriore innovazione in un processo schismogenetico[18]; b) l’innovazione renda necessario rinunciare ad altri adattamenti; c) la flessibilità del sistema si esaurisca; e) la specie adattata sia talmente favorita che distrugga la propria nicchia ecologica; d) l’assuefazione al cambiamento provochi ulteriore cambiamento; e) ciò che ha valore di sopravvivenza per l’individuo sia letale per la popolazione (la società) [19].

Darwin, per accelerare il tempo dell’evoluzione (credeva che l’età della Terra fosse insufficiente), accettò l’ipotesi lamarckiana che avrebbe introdotto nel sistema qualcosa di simile alla finalità. Similmente, dice Bateson, al Vecchio Marinaio della ballata di Coleridge farebbe risparmiare tempo sapere cosa cercare per liberarsi della maledizione che incombe su di lui; ma verrebbe meno la gratuità del suo gesto, che ne è invece il senso e che lo rende efficace: c’è un salto di tipo logico tra cercare un cambiamento e cercare quel cambiamento [20].

GLI OTTO PICCOLI PORCELLINI DI GOULD

Il problema posto da Gregory Bateson su quale sia il linguaggio della comunicazione tra genotipo e soma, quale sia la forma delle “ingiunzioni” che il DNA trasmette al corpo, interessa anche a Stephen Jay  Gould:

“In che modo il codice genetico aiuta a orchestrare il grandissimo miracolo della biologia quotidiana, cioè la produzione regolare, di solito priva di errori, della complessità dell’adulto a partire dall’aspetto apparentemente informe di un minuscolo uovo fecondato?”  [21]

Gould propone una soluzione nel suo scritto “Otto piccoli porcellini” [22], dove il titolo fa riferimento alla filastrocca in cui ogni dito della mano viene identificato con un piccolo porcellino che compie una diversa azione: quanto segue ne è una sintesi.

Richard Owen a metà dell’Ottocento sviluppò il concetto di archetipo per spiegare le evidenti somiglianze tra i viventi. L’archetipo è un modello astratto (platonico) cui Darwin sostituisce un antenato in carne e ossa; resta comunque l’idea che animali appartenenti ad uno stesso sottoinsieme si possano collegare, nonostante le diversità, essenzialmente attraverso caratteri scheletrici.

L’idea di archetipo non richiede che ogni animale di un certo gruppo presenti tutti caratteri canonici, bensì che essi siano punti di partenza da cui si generano per trasformazione i tipi anatomici reali. Nell’archetipo dei tetrapodi (vertebrati terrestri) l’arto ha cinque dita.

Benché non ci fossero prove fossili i tetrapodi più antichi (e più vicini ai pesci, come Ichthyostega) furono ricostruiti con cinque dita. Ma nel 1984 furono trovati fossili con sei dita e oggi disponiamo di reperti di Ichthyostega i cui arti posteriori presentano sette dita e di Acanthostega con otto dita anteriori: la pentadattilia sarebbe allora, semmai, una stabilizzazione secondaria.

La documentazione fossile suggerisce un’antica ramificazione dei tetrapodi in due rami: anfibi da una parte e amnioti (rettili, uccelli, mammiferi) dall’altra; gli amnioti presentano il modello canonico a cinque dita, mentre gli anfibi hanno cinque dita agli arti posteriori e solo quattro agli anteriori. Se i tetrapodi ancestrali avevano più di cinque dita e gli anfibi si sono separati all’inizio della vita sulle terre emerse, perché si dovrebbe supporre che le quattro dita siano derivate da un numero originario di cinque?

Per ipotizzare quali trasformazioni intervengano tra il modello ancestrale e le forme discendenti occorre domandarsi prima quale sia la “logica” del processo che genera la struttura dell’arto e quindi il numero di dita, nello sviluppo embrionale.

Shubin e Alberch nel 1986 hanno proposto che la struttura dell’arto dei tetrapodi sia il risultato di interazioni tra tre processi: la ramificazione, la segmentazione e la condensazione di elementi. Nel corso dello sviluppo embriologico l’arto viene costruito a partire dal tronco verso l’esterno; il processo inizia con un singolo elemento (omero, femore); una ramificazione produce l’elemento successivo (radio-ulna, tibia-perone); è una ramificazione asimmetrica: solo l’osso minore (ulna, perone) dà origine ad una ulteriore ramificazione negli elementi del polso-tarso prima e della mano-piede poi.

Secondo la visione classica un asse centrale parte dall’ulna (perone) e da esso si separano i rami laterali; le dita quindi rappresentano rami diversi. Shubin e Alberch invece sostengono che l’asse di sviluppo passa per le ossa basali di tutte le dita in sequenza; la posizione spaziale sarebbe un contrassegno di un ordine temporale: per primo si svilupperebbe il IV dito mentre ultimo sarebbe il pollice-alluce (il V sarebbe originato da una diramazione secondaria).

 Questo modello fornisce una spiegazione semplice alla morfologia dei tetrapodi (fino al dito unico dei cavalli): se le dita si formano da dietro in avanti nell’ordine temporale, la riduzione da un numero originario maggiore di cinque può essere l’effetto di un arresto anticipato dello sviluppo (‘fermarsi prima’ sarebbe il principio generale). E infatti il primo dito a sparire è proprio il I mentre i mutanti con dita in soprannumero le formano in posizione anteriore al I.

Invece gli animali che presentano un VI dito non come mutazione, ma come condizione normale, lo formano in modo diverso, come prosecuzione della sequenza non ramificata che origina dal radio (tibia) oppure, come nel panda, come estensione delle ossa del polso (falso “pollice”).

Sembra dunque che il numero di cinque sia una condizione comunque privilegiata per le dita. La spiegazione darwiniana invoca l’adattamento: la pentadattilia sarebbe la configurazione ottimale di compromesso tra la locomozione e la necessità di reggere il peso del corpo, la sfida più gravosa nel passaggio dall’acqua alla terra. La spiegazione sarebbe confortata dal fatto che la pentadattilia si è sviluppata due volte separatamente nelle due divisioni dei tetrapodi. Ma allora perché nell’uomo l’arto destinato sia al sostegno che alla locomozione si evolve su un modello non simmetrico con l’ultimo elemento (il I dito) come principale sostegno?

La spiegazione potrebbe essere che la configurazione a cinque è il risultato di una contingenza “storica”, come dimostrerebbero gli antenati a sette e otto dita, nata per caso e premiata dalla funzionalità.

STRUTTURE CHE CONNETTONO

Questa soluzione sarebbe piaciuta a Gregory Bateson?

Gould, nello sviluppare il problema delle dita, si pone due domande molto “batesoniane”: quale processo conduce alla forma? quale forma ha il processo? Per Gould, nel contesto della teoria dell’evoluzione, la problematica forma-processo è cruciale, nei termini della predominanza della forma che vincola la funzione (strutturalismo) o della funzione che genera la forma (adattazionismo).

Bateson considera “ciò che accade nella biosfera (il mondo del processo mentale) come un’interazione tra struttura (o forma) da un lato e processo (o flusso) dall’altro”  [23].

È il problema dell’origine dell’ordine, che Bateson considera immanente nella natura e nella mente; è l’idea della struttura che connette, “quel più ampio sapere che è la colla che tiene insieme le stelle e gli anemoni di mare, le foreste di sequoie e le commissioni e i consigli umani.” [24].

E il modo di Gould di affrontare i problemi è quello di “raccontare storie”; ovvero il discorso sulle dita della mano è un esempio, “ma un esempio di che cosa?” [25]; dell’idea, direbbe Bateson, che l’evoluzione è un processo mentale:

“Il contesto e la pertinenza debbono essere caratteristici non solo di tutto il cosiddetto comportamento (le storie che si manifestano all’esterno in ‘azione’), ma anche di tutte le storie interne, le sequenze del processo costitutivo dell’anemone di mare. La sua embriologia dev’essere fatta in qualche modo della sostanza di cui son fatte le storie. E risalendo più indietro, il processo evolutivo che, attraverso milioni di generazioni, ha generato l’anemone di mare così come ha generato voi e me, anche questo processo dev’essere fatto della sostanza di cui son fatte le storie. In ogni gradino della filogenesi e fra i vari gradini dev’esserci pertinenza.”  [26]

Il “processo mentale” (e questo riguarda il parallelismo tra evoluzione e apprendimento) risponde, secondo Bateson, a dei “criteri”, tra cui il fatto che l’interazione tra le parti di un sistema è attivata dalle differenze e non dalle forze, che le informazioni sono “notizie di differenze” di un “territorio”, e sono organizzate in una sua “mappa”, che le informazioni, come effetti delle differenze, si trasmettono da un sistema all’altro tramite codici (“ingiunzioni”, “ricordi”): questo è il “linguaggio” del vivente. In questo caso ci si interroga su come (con quale linguaggio) il sistema genetico comunichi le sue disposizioni al soma attraverso le dinamiche dello sviluppo embrionale (nel caso proposto da Gould un esempio sarebbe il “fermarsi prima”).

Non mi risulta che Gould citi mai Gregory Bateson, ma sembra che il pensiero di quest’ultimo sia un contesto per le sue idee, così come quello di William Bateson lo è stato per le idee di Gregory.

Come quelle su evoluzione progresso e finalità: Gould, come “riformatore” della teoria dell’evoluzione, critica del darwinismo la quasi assoluta prevalenza della selezione naturale come causa dell’evoluzione; egli è diffidente nei confronti della tendenza a credere che tutti gli organismi siano perfetti e che in essi tutto esista per una funzione; l’adattamento come unica spiegazione introduce nell’evoluzione una teleologia che assomiglia a quella che Bateson chiama “finalità cosciente”. L’exaptation, introdotta da Gould, è la possibilità che la selezione naturale, anziché soltanto modellare direttamente caratteri funzionali, possa anche cooptare per una nuova funzione caratteri originati o per una funzione diversa o come effetti strutturali collaterali non adattativi di caratteri adattativi; questa idea pone al centro dell’evoluzione la contingenza storica e lo fa sulla base di un pensiero strutturalista, perché l’exaptation implica che ogni cambiamento di un carattere imponga dei vincoli strutturali (non necessariamente adattativi) sulla base della organizzazione sistemica dell’organismo.

È ciò che Gregory Bateson attribuiva al meccanismo “interno” della selezione, al carattere conservativo dello sviluppo dell’embrione (epigenesi), ai vincoli che il livello genetico, come deposito della storia evolutiva, pone alla “cronaca” del rapporto attuale adattativo con l’ambiente (il meccanismo “esterno”). Dagli anni Ottanta del Novecento si sa molto di più sulle dinamiche dello sviluppo e sui loro rapporti con la genetica, su come, all’interno di queste, i geni “esprimono” le loro informazioni codificate. Gould insiste sull’esempio dei geni che, ben al di là del vecchio motto “un gene un carattere”, modulano l’espressione di altri geni in una rete complessa di regolazioni (abbiamo già citato i geni Hox come base di omologie profonde tra organismi appartenenti a phyla molto distanti, per dire che proprio geni a funzione regolatrice appartengono alla parte più antica e quindi più conservativa del genoma). Questo di nuovo ha a che fare con il problema di come si trasmettono le informazioni dal sistema genetico al sistema fisiologico dell’organismo, cioè ha a che fare con il “linguaggio” del vivente.

C’è un’altra critica di Gould al darwinismo che richiama i livelli logici dell’adattamento di Bateson, e riguarda l’esclusività del livello di organizzazione dell’organismo come bersaglio e quindi come livello causale della evoluzione. L’ “azione riformatrice” di Gould rispetto alla teoria dell’evoluzione propone che l’evoluzione si dispieghi a diversi livelli gerarchici, ognuno caratterizzato da una diversa tipologia di “individui” (geni, organismi, popolazioni, specie, cladi) e che in ognuno la selezione agisca con modalità specifiche. Ma i diversi sistemi sono integrati, per cui ciò che la selezione promuove ad un livello è la base per cambiamenti evolutivi ad un livello superiore. Così la selezione a livello di geni favorisce la duplicazione e quindi le ridondanze (DNA “di scarto”) e questo rende possibili exaptations (ad esempio le “cristalline”, proteine strutturali che costituiscono le lenti per la visione negli organismi sono variazioni di enzimi, tutt’ora presenti, che hanno funzioni metaboliche [27]).

Ma il lavoro di Gould non è l’unico, in ambito biologico evoluzionistico, in cui si possono riconoscere connessioni con le idee di Bateson.

L’importanza attribuita da Gregory Bateson al linguaggio di comunicazione tra gene e soma, che si manifesta nell’epigenesi, per comprendere l’evoluzione trova uno sviluppo nel filone di ricerca dell’ “evo-devo”, già citato a proposito delle idee di William Bateson: il funzionamento di geni che regolano la differenziazione cellulare, presenti in phyla molto distanti, può fornire la base materiale per spiegare quel rapporto tra uniformità e differenza che è il cuore stesso dell’evoluzione.

Ricerche sul rapporto tra funzioni mentali e organizzazione del sistema nervoso, tra le quali la Teoria della Selezione dei Gruppi Neuronali di Edelman, forniscono una base materiale e funzionale al rapporto tra l’apprendimento, come attività della mente individuale, e l’evoluzione, che produce e diversifica le strutture materiali degli organismi che di tali attività sono il supporto; sia nel senso che le caratteristiche neuro-anatomiche di una data specie sono il prodotto di processi dinamici di sviluppo che hanno luogo durante la fase embrionale, e quindi su base genetica, sia per l’ipotesi che la formazione di molti circuiti nervosi, basata sul rafforzamento o indebolimento di popolazioni di sinapsi, sia frutto di processi selettivi determinati dal comportamento.

L’idea che il contesto culturale che costituisce la “nicchia ecologica” della specie umana possa addirittura retroagire sulla nostra costituzione biologica e neurale è sostenuta anche dallo scienziato cognitivo Terrence Deacon: siamo “naturali per cultura”, perché la nostra natura è quella di una specie simbolica, ma anche siamo “culturali per natura”, cioè figli di una filogenesi naturale che ha fatto della materia grigia la base dell’immaginazione. Secondo l’epistemologa americana Susan Oyama, le dimensioni di natura e cultura, di innato e acquisito, di eredità ancestrale e apprendimento, sono intrecciate inscindibilmente in un unico “sistema di sviluppo”.

 



[1] Gregory Bateson (1979), Mente e natura, Adelphi Milano 1984, pag. 210.

[2]  Sthepen J. Gould (2002), La struttura della teoria dell’evoluzione, Codice edizioni Torino 2003, pag. 512.

[3]  Gregory Bateson (1977), “Gli uomini sono erba. La metafora e il mondo del processo mentale”, in: Una sacra unità, Adelphi Milano  1997, p. 364.

[4]  Gregory Bateson (1977), “La nascita di una matrice, ovvero il doppio vincolo e l’epistemologia”, in: Una sacra unità, Adelphi Milano  1997, p. 305.

[5]  Gregory Bateson (1979), Mente e natura, Adelphi Milano 1984, pag. 15.

[6]  Stocastico = processo che opera una selezione su una variabilità casuale.

[7]  Gregory Bateson (1979), “I grandi processi stocastici”, in Mente e natura, Adelphi Milano 1984.

[8]  Gregory Bateson (1979), “I grandi processi stocastici”, e “Il tempo è fuori squadra”, in Mente e natura, Adelphi Milano 1984, pag. 234 e pag. 289.

[9]  Gregory Bateson (1968), “Finalità cosciente e natura”, in Verso un’ecologia della mente, Adelphi Milano 1976, pag. 466.

[10]  Gregory Bateson (1979), Né soprannaturale né meccanico, in Dove gli angeli esitano, Adelphi Milano 1989, pag. 98.

[11] Gregory Bateson (1959), “I requisiti minimi di una teoria della schizofrenia”, in Verso un’ecologia della mente, Adelphi Milano 1976, pag. 298.

[12] Gregory Bateson (1977), “Gli uomini sono erba. La metafora e il mondo del processo mentale”, in: Una sacra unità, Adelphi Milano  1997, p. 364.

[13]  ibidem.

[14]  Vedi nota a pag. 5.

[15]  Gregory Bateson (1959), “I requisiti minimi di una teoria della schizofrenia”, in Verso un’ecologia della mente, Adelphi Milano 1976.

[16]  Gregory Bateson (1979), “I grandi processi stocastici”, in Mente e natura, Adelphi Milano 1984.

[17] Gregory Bateson (1975), “Intelligenza, esperienza ed evoluzione”, in Una sacra unità, Adelphi Milano 1997.

[18] Schismogenetico = che amplifica una relazione “simmetrica” (es. una competizione) o “complementare” (es. di dominanza-dipendenza).

[19] Gregory Bateson (1979), “I grandi processi stocastici”, in Mente e natura, Adelphi Milano 1984.

[20] Gregory Bateson (1978), Apologie della fede , in Dove gli angeli esitano, Adelphi Milano 1989.

[21] Stephen J. Gould (1998), “Fratellanza per invesione (ovvero come si rivoltarono i vermi)”, in I fossili di Leonardo e il pony di Sophia, Il Saggatore 2004, pag. 332.

[22] Sthepen J. Gould (1993), “Otto piccoli porcellini”, in Otto piccoli porcellini, Il Saggiatore Milano 2003.

[23] Gregory Bateson (1987), Il modello , in Dove gli angeli esitano, Adelphi Milano 1989, pag. 63.

[24] Gregory Bateson (1979),  Mente e natura, Adelphi Milano 1984, pag. 17.

[25] Gregory Bateson (1971), “(Introduzione.) La scienza della mente e dell’ordine”, in Verso un’ecologia della mente, Adelphi Milano 1976, pag. 22.

[26]  Gregory Bateson (1979),  Mente e natura, Adelphi Milano 1984, pag. 28-29.

[27]  Sthepen J. Gould (2002), La struttura della teoria dell’evoluzione, Codice edizioni Torino 2003.