Circolo Bateson Roma
novembre 2004 “Forma e processo
nel vivente” Che cosa ha
a che fare questo con l’evoluzione? E qui è
necessaria una premessa su cos’è l’evoluzione. L’evoluzione è una risposta
alla domanda: perché esiste la diversità biologica? È una risposta che poggia
su 4 pilastri (Cavalli Sforza): mutazione, selezione, deriva, migrazione. Le forme
(strutture, funzioni) degli esseri viventi sono l’espressione del materiale
genetico che si trasmette dai genitori alla prole. Variazioni del materiale
genetico producono diversità di forme all’interno di una specie. La
differenza degli ambienti e l’isolamento riproduttivo possono far sì che la
selezione naturale amplifichi le divergenze e, se si supera la soglia
della interfecondità, si arriva ad avere specie diverse. Se le
popolazioni che si separano sono piccole, aumenta la differenza tra di loro e
diminuisce la differenza al loro interno, e questo è il fenomeno della “deriva”.
La migrazione, attraverso gli incroci tra membri di popolazioni
diverse, riduce le differenze tra le popolazioni, aumentando invece
quelle interne alle popolazioni. Le forze opposte della deriva e della
migrazione creano un equilibrio. (Un effetto di questa dinamica: assumendo
l’ipotesi che le razze umane esistano, la variazione tra razze è il 10% di
quella interna alle popolazioni della stessa razza). Il nostro
problema riguarda il primo pilastro, la mutazione: le variazioni sulle
quali agisce la selezione si originano da “errori” di riproduzione o di
riassemblaggio del materiale genetico e si trasmettono di generazione in
generazione perché portate fisicamente dal DNA. Ma il meccanismo principale
della selezione agisce sui corpi: in che modo dunque le informazioni
contenute nel DNA, che portano la differenza, si esprimono in forme, funzioni
e comportamenti diversi dei corpi. Gregory Bateson non si
interessa della base fisica di questi processi (trascrizione DNA-RNA, traduzione
RNA-proteine, funzioni proteiche che determinano la struttura dei corpi o il
loro funzionamento), bensì della forma dei messaggi, la loro
semantica: Bateson sta
ponendo il problema di quale sia il sistema di significati in cui è
organizzato il rapporto tra DNA (genotipo) e corpo (fenotipo). Nelle
situazioni concrete di trasmissione di “ingiunzioni” vediamo in azione non
diverse lingue ma diversi linguaggi, diversi sistemi di significati applicati
allo stesso oggetto; Bateson direbbe: diverse “descrizioni”. Questo modo
di porre i problemi, prima che di trovare risposte, si colloca dentro un
contesto storico e culturale in cui William Bateson, il padre di Gregory, ha
una parte non secondaria. Le idee del padre possono essere cioè considerate un
contesto per quelle del figlio (e dicendo “le idee” del padre allontano
ogni sospetto di interpretazioni psicoanalitiche, per collocare il rapporto
padre-figlio in un contesto culturale, che è quello pertinente). Nella sua opera principale,
Materiali per uno studio della variazione (del 1894, un insuccesso
editoriale), WB sostiene che lamarckismo e darwinismo sono entrambi
meccanismi adattazionisti (fuzionalisti), ma l’adattamento non spiega il
fatto che la diversità delle forme delle specie viventi nel quadro
tassonomico è discontinua mentre gli ambienti variano con continuità nello
spazio e nel tempo, digradando uno nell’altro (WB però dimentica la
spiegazione di Darwin: l’estinzione). La causa dell’evoluzione deve essere
ricercata non nella selezione ma nella variazione, nei meccanismi interni
dell’ereditarietà. Mancando dati sperimentali, WB raccoglie e classifica i fatti
della variazione. Per lui gradualismo e continuità (il “natura non facit
saltus” di Leibnitz e Linneo) sono pregiudizi: nella variazione
discontinua va cercata la causa dell’evoluzione. Per WB ci
sono due tipi di variazione: quella continua (di cui non si occupa) e quella “meristica” (“saltazionale”) che
riguarda strutture simmetriche, che si ripetono in serie (es. i segmenti
degli anellidi o degli artropodi, le vertebre...); variazione che procede per
comparsa o scomparsa di interi elementi: “il tarso [arto della blatta] a quattro segmenti, che
ricorre sporadicamente come una varietà, è costruito in modo non meno
perfetto del tipo a cinque segmenti e le proporzioni delle sue diverse
articolazioni non sono meno costanti. Non è quasi nemmeno necessario notare
che questi fatti non sostengono affatto la tesi secondo cui l’esattezza o la
perfezione con cui vengono preparate le proporzioni della forma normale sono
una conseguenza della selezione. Sembra piuttosto che ci siano due possibili
condizioni, l’una a cinque segmenti e l’altra a quattro, essendo ciascuna una
posizione di stabilità organica. Il tarso può avere ambedue le forme e,
sebbene si possa ipotizzare che la scelta finale venga fatta dalla selezione,
non si può però supporre che siano opera della selezione l’accuratezza e la
completezza con cui una delle due condizioni viene raggiunta, dato che quella
‘anomala’ è tanto definita quanto quella normale.” Secondo WB la discontinuità meristica è
l’espressione fenotipica di una sottostante regolarità meccanica (onde e
vibrazioni) ed è la causa della discontinuità tassonomica; su di essa agisce
la selezione, che quindi non è “creativa”. Il suo strutturalismo lo porta a
preferire spiegazioni che implicano condizioni riproducibili (forze
meccaniche) e non la storia; il suo empirismo britannico lo porta a giudicare
gli adattamenti come frutto dell’
“abitudine adattazionista a ‘raccontar storie‘ come misero
sostituto dell’esperimento e della prova” [2].
In realtà la sua critica si rivolge piuttosto verso il “migliorismo” alla
Pangloss del Candide di Voltaire (“Tutto quello che doveva essere
fatto per sviluppare la teoria dell’evoluzione era scoprire il buono in ogni
cosa”) e verso la premessa finalistica (“sono piuttosto sicuro che
interpreteremmo più correttamente i fatti della natura se cessassimo di
aspettarci di trovare un’ intenzione ogni qualvolta riscontriamo
strutture o schemi definiti” ). In un’altra critica
all’adattazionismo WB sostiene che le forme nella loro organizzazione non
possono essere il risultato di una selezione che agisce sui singoli
caratteri; c’è qui una idea forte di sistema: “…
una verità assiomatica il fatto che nessuna variazione, per quanto piccola,
possa avvenire in una qualsiasi parte senza che avvengano altre variazioni ad
essa correlate in tutte le altre parti: o, piuttosto, che nessun sistema, in
cui la variazione di una parte sia avvenuta senza questa corrispondente
variazione in tutte le altre, possa continuare a essere un sistema.” (nel 1888). WB sostiene
la necessità di integrare il metodo dei naturalisti (descrizione della
variazione) con quello degli sperimentatori (ricerca delle cause), ma a quei
tempi manca una base sperimentale alla ereditarietà (lui propone esperimenti
di incrocio), finché non si riscoprirà il lavoro di Mendel (1900). È lui a
inventare il termine “genetica” (1905), a scoprire l’epistasi (effetto di un
gene sull’espressione di un altro) e il linkage (tendenza di certi
caratteri a presentarsi associati), ma non mette in relazione la
discontinuità della variazione con la mutazione, perché continua ad
attribuire la causa materiale dell’ereditarietà a fenomeni di tipo
ondulatorio (fisico) e non corpuscolare (chimico); non afferra l’idea che le
particelle mendeliane possano determinare la variazione meristica
controllando la velocità dei processi. Nel 1913
esprime la speranza che si possa applicare la matematica alla morfologia
(ricerca di pattern, cioè di strutture, di configurazioni regolari);
ciò che farà D’Arcy Thompson nel 1917. Nel 1922,
poiché genetisti e naturalisti non collaborano tra loro, si dice “agnostico”
sul futuro della teoria dell’evoluzione e la dichiarazione viene
strumentalizzata dai creazionisti. Nello specifico della sua
ricerca, WB è affascinato da mutazioni, che definisce “omeotiche”, che hanno
l’effetto di far sviluppare un elemento seriale in una localizzazione diversa
al posto di un altro elemento della stessa serie (ad esempio, nella Drosophila,
un secondo paio di ali al posto di bilancieri). Più di mezzo secolo dopo, con
Lewis nel 1978 nascerà quel filone di ricerca che prenderà il nome di ”evo-devo”
(evolution-development): le mutazioni omeotiche verranno spiegate
dalla azione di alcuni geni regolatori. La presenza di più copie di geni
regolatori denominati Hox permette un gradiente di regolazione lungo
l’asse antero-posteriore del corpo, da cui può dipendere il numero di
segmenti corporei. Negli anni Ottanta la scoperta della omologia di geni Hox
in organismi appartenenti a phyla distanti (invertebrati e vertebrati)
darà una base genetica al fenomeno del “parallelismo” (strutture analoghe
prodotte da supposti generatori omologhi), distinto dalla “convergenza”
(analogia per adattamento a condizioni simili). Si possono
qui individuare alcuni nodi che tornano spesso nelle opere Gregory Bateson.
Su alcuni si può cogliere una continuità tra idee del padre e del figlio,
come nella ricerca di sintesi tra discipline diverse o nell’attenzione
sistemica, o nella critica alla teleologia che in Gregory diventa critica
alla “finalità cosciente”, o come nell’interesse di fondo per la forma
(significativo il riferimento a D’Arcy Thompson): lo “strutturalismo” di
William si riferisce soprattutto alla forma degli esseri viventi, in Gregory
l’attenzione alla forma dei processi, biologici e mentali, delle idee,
diventa una “direzione dello sguardo” che interroga e attraversa l’evoluzione
ma allo stesso modo l’antropologia e l’etologia, i problemi della
comunicazione e la psicopatologia, la cibernetica e l’epistemologia alla
ricerca della “struttura che connette” tutto il mondo vivente. Su altre
questioni William e Gregory la pensano diversamente. Ad esempio al
“raccontare storie” Gregory dà un grande valore epistemologico perché le
storie individuano pertinenze, connettono in una struttura temporale e fanno
emergere significati in relazione ad un contesto. Gregory non può condividere l’idea del
padre di attribuire a forze fisiche la causa delle variazioni genetiche, dal
momento che lui opera una fondamentale distinzione tra il mondo del non
vivente, dove gli eventi sono effetti lineari di cause fisiche, e il mondo
vivente che funziona sulla base di informazioni (dare un calcio ad un
cane produce effetti diversi che darlo ad una palla). Ma Gregory dice: “Naturalmente
io penetro in questo campo armato di molti strumenti che mio padre non
possedette mai. Forse mette conto di farne un rapido elenco: c’è tutta la
cibernetica, tutta la teoria dell’informazione e quel dominio correlato che
forse si potrebbe chiamare teoria della comunicazione… ” [3]. Ma ecco
come Gregory stesso parla del padre nel contesto di ricerca che li accomuna: “Mio padre era una sorta di genetista ancor prima che le
memorie di Mendel fossero riscoperte. Era un genetista, per cosi dire, della
morfogenesi. Nutriva un interesse particolare per i fenomeni della simmetria,
che è la segmentazione di un organismo in due parti, immagini speculari l’una
dell'altra, e in genere per tutti i tipi di segmentazione, che fosse quella
radiale della stella marina o quella lineare del lombrico, dell'aragosta e
dell'uomo. Perché, a ben vedere, anche noi siamo animali segmentati: le
nostre costole si ripetono, le nostre vertebre si ripetono e cosi via. Questo strano, e assai rigoroso, padre
zoologico nutriva un profondo scetticismo su molte delle cose dette da
Darwin. [...] Dunque
ho il mio nome per via di Gregor Mendel. Ma quando fui abbastanza grande per
capire queste faccende, in casa nostra si respirava già una cert'aria di
delusione latente, perché il mendelismo non si era affatto rivelato il
fondamento dell'evoluzione. Nonostante
tutto ciò, comunque, restava la scoperta predarwiniana dell'omologia, cioè la
confrontabilità formale tra le parti o meglio tra le relazioni
delle parti; era questa la caratteristica straordinaria del quadro evolutivo.
Ma anche se oggi so che tutti i formalismi biologici immanenti sono,
in un certo senso, idee, la teoria darwiniana m'impedì di aderire
anche alla fase iniziale di tale eresia. (Se avessi visto tutto ciò con
chiarezza non avrei mai abbandonato la zoologia per l’antropologia). [...] Già allora dunque avevo in testa un bel
po' di domande sui problemi che doveva risolvere la morfogenesi, e già a
quel tempo la soluzione di questi problemi si stava allontanando da un
linguaggio (o da un'epistemologia zoologica) tradizionale, in cui i determinanti
sarebbero stati chiamati ‘fattori’ o ‘forze’ e cosi via, per dirigersi verso
un modo di esprimersi diversissimo, in cui sembrava che alle forme si
arrivasse grazie a un qualche uso di idee o ingiunzioni. Il problema
principale, naturalmente, era come queste idee o ingiunzioni potessero
mettersi in relazione con la materia interagente di cui è fatto il corpo. E
Cartesio?” [4] Per quanto
riguarda le idee sull’evoluzione e sui suoi intrecci con la genetica, la
questione continuità/discontinuità, che è centrale nel lavoro di William, mi
sembra “dello stesso tipo” di quella che Gregory pone nei termini
quantità/struttura e che è quella esemplificata nel problema delle dita della
mano (William, come abbiamo visto, si era occupato del numero di segmenti nei
tarsi delle blatte). IL FIGLIO Vediamo più
da vicino le idee di Gregory Bateson sull’evoluzione; esse si coagulano,
attorno ad alcuni temi: i livelli logici dell’adattamento, il
meccanismo “interno” e quello “esterno” dell’adattamento, il
parallelismo tra evoluzione e apprendimento, evoluzione/progresso e
finalità. Il meccanismo “interno” e quello “esterno” dell’adattamento
(apprendimento). Secondo Bateson,
per raggiungere la sopravvivenza-riproduzione ci sono due modalità di
adattamento, due meccanismi stocastici [6]:
uno in relazione all’interno dell’organismo, alle regolarità dello sviluppo e
alla fisiologia, uno in relazione all’esterno, alle richieste dell’ambiente. Il parallelismo tra evoluzione e apprendimento (il
“processo mentale”). Lamarck capovolse
la tradizionale scala esplicativa dell’essere (“in discesa” da Dio agli
animali passando per l’uomo): è la scala biologica dai batteri all’uomo che
deve spiegare l’emergere della mente; i processi mentali devono avere una
rappresentazione materiale [9].
GLI OTTO
PICCOLI PORCELLINI DI GOULD Il problema
posto da Gregory Bateson su quale sia il linguaggio della comunicazione tra
genotipo e soma, quale sia la forma delle “ingiunzioni” che il DNA
trasmette al corpo, interessa anche a Stephen Jay Gould: “In che modo il codice genetico aiuta a orchestrare il
grandissimo miracolo della biologia quotidiana, cioè la produzione regolare,
di solito priva di errori, della complessità dell’adulto a partire dall’aspetto
apparentemente informe di un minuscolo uovo fecondato?” [21] Gould
propone una soluzione nel suo scritto “Otto piccoli porcellini” [22],
dove il titolo fa riferimento alla filastrocca in cui ogni dito della mano
viene identificato con un piccolo porcellino che compie una diversa azione:
quanto segue ne è una sintesi. Richard
Owen a metà dell’Ottocento sviluppò il concetto di archetipo per
spiegare le evidenti somiglianze tra i viventi. L’archetipo è un modello
astratto (platonico) cui Darwin sostituisce un antenato in carne e ossa;
resta comunque l’idea che animali appartenenti ad uno stesso sottoinsieme si
possano collegare, nonostante le diversità, essenzialmente attraverso
caratteri scheletrici. L’idea di
archetipo non richiede che ogni animale di un certo gruppo presenti tutti
caratteri canonici, bensì che essi siano punti di partenza da cui si generano
per trasformazione i tipi anatomici reali. Nell’archetipo dei tetrapodi
(vertebrati terrestri) l’arto ha cinque dita. Benché non
ci fossero prove fossili i tetrapodi più antichi (e più vicini ai pesci, come
Ichthyostega) furono ricostruiti con cinque dita. Ma nel 1984 furono
trovati fossili con sei dita e oggi disponiamo di reperti di Ichthyostega
i cui arti posteriori presentano sette dita e di Acanthostega con otto
dita anteriori: la pentadattilia sarebbe allora, semmai, una stabilizzazione
secondaria. La
documentazione fossile suggerisce un’antica ramificazione dei tetrapodi in
due rami: anfibi da una parte e amnioti (rettili, uccelli, mammiferi) dall’altra;
gli amnioti presentano il modello canonico a cinque dita, mentre gli anfibi
hanno cinque dita agli arti posteriori e solo quattro agli anteriori. Se i
tetrapodi ancestrali avevano più di cinque dita e gli anfibi si sono separati
all’inizio della vita sulle terre emerse, perché si dovrebbe supporre che le
quattro dita siano derivate da un numero originario di cinque? Per
ipotizzare quali trasformazioni intervengano tra il modello ancestrale e le
forme discendenti occorre domandarsi prima quale sia la “logica” del processo
che genera la struttura dell’arto e quindi il numero di dita, nello
sviluppo embrionale. Shubin e
Alberch nel 1986 hanno proposto che la struttura dell’arto dei tetrapodi sia
il risultato di interazioni tra tre processi: la ramificazione, la
segmentazione e la condensazione di elementi. Nel corso dello sviluppo
embriologico l’arto viene costruito a partire dal tronco verso l’esterno; il
processo inizia con un singolo elemento (omero, femore); una ramificazione
produce l’elemento successivo (radio-ulna, tibia-perone); è una ramificazione
asimmetrica: solo l’osso minore (ulna, perone) dà origine ad una ulteriore
ramificazione negli elementi del polso-tarso prima e della mano-piede poi. Secondo la
visione classica un asse centrale parte dall’ulna (perone) e da esso si
separano i rami laterali; le dita quindi rappresentano rami diversi. Shubin e
Alberch invece sostengono che l’asse di sviluppo passa per le ossa basali di
tutte le dita in sequenza; la posizione spaziale sarebbe un contrassegno di
un ordine temporale: per primo si svilupperebbe il IV dito mentre
ultimo sarebbe il pollice-alluce (il V sarebbe originato da una diramazione
secondaria). Questo modello fornisce una spiegazione
semplice alla morfologia dei tetrapodi (fino al dito unico dei cavalli): se
le dita si formano da dietro in avanti nell’ordine temporale, la riduzione da
un numero originario maggiore di cinque può essere l’effetto di un arresto
anticipato dello sviluppo (‘fermarsi prima’ sarebbe il principio generale). E
infatti il primo dito a sparire è proprio il I mentre i mutanti con dita in
soprannumero le formano in posizione anteriore al I. Invece gli
animali che presentano un VI dito non come mutazione, ma come condizione
normale, lo formano in modo diverso, come prosecuzione della sequenza non
ramificata che origina dal radio (tibia) oppure, come nel panda, come
estensione delle ossa del polso (falso “pollice”). Sembra
dunque che il numero di cinque sia una condizione comunque privilegiata per
le dita. La spiegazione darwiniana invoca l’adattamento: la pentadattilia
sarebbe la configurazione ottimale di compromesso tra la locomozione e la
necessità di reggere il peso del corpo, la sfida più gravosa nel passaggio
dall’acqua alla terra. La spiegazione sarebbe confortata dal fatto che la
pentadattilia si è sviluppata due volte separatamente nelle due divisioni dei
tetrapodi. Ma allora perché nell’uomo l’arto destinato sia al sostegno che
alla locomozione si evolve su un modello non simmetrico con l’ultimo elemento
(il I dito) come principale sostegno? La
spiegazione potrebbe essere che la configurazione a cinque è il risultato di
una contingenza “storica”, come dimostrerebbero gli antenati a sette e otto
dita, nata per caso e premiata dalla funzionalità. STRUTTURE
CHE CONNETTONO Questa
soluzione sarebbe piaciuta a Gregory Bateson? Gould,
nello sviluppare il problema delle dita, si pone due domande molto
“batesoniane”: quale processo conduce alla forma? quale forma ha il processo?
Per Gould, nel contesto della teoria dell’evoluzione, la problematica
forma-processo è cruciale, nei termini della predominanza della forma che
vincola la funzione (strutturalismo) o della funzione che genera la forma
(adattazionismo). Bateson
considera “ciò che accade nella biosfera (il mondo del processo mentale)
come un’interazione tra struttura (o forma) da un lato e processo
(o flusso) dall’altro” [23]. È il
problema dell’origine dell’ordine, che Bateson considera immanente nella
natura e nella mente; è l’idea della struttura che connette, “quel più
ampio sapere che è la colla che tiene insieme le stelle e gli anemoni di
mare, le foreste di sequoie e le commissioni e i consigli umani.” [24]. E il modo
di Gould di affrontare i problemi è quello di “raccontare storie”; ovvero il
discorso sulle dita della mano è un esempio, “ma un esempio di che cosa?” [25];
dell’idea, direbbe Bateson, che l’evoluzione è un processo mentale:
“Il contesto e la pertinenza debbono essere caratteristici
non solo di tutto il cosiddetto comportamento (le storie che si manifestano
all’esterno in ‘azione’), ma anche di tutte le storie interne, le sequenze
del processo costitutivo dell’anemone di mare. La sua embriologia dev’essere
fatta in qualche modo della sostanza di cui son fatte le storie. E risalendo
più indietro, il processo evolutivo che, attraverso milioni di generazioni,
ha generato l’anemone di mare così come ha generato voi e me, anche questo
processo dev’essere fatto della sostanza di cui son fatte le storie. In ogni
gradino della filogenesi e fra i vari gradini dev’esserci pertinenza.” [26] Il
“processo mentale” (e questo riguarda il parallelismo tra evoluzione e
apprendimento) risponde, secondo Bateson, a dei “criteri”, tra cui il
fatto che l’interazione tra le parti di un sistema è attivata dalle differenze
e non dalle forze, che le informazioni sono “notizie di differenze” di un
“territorio”, e sono organizzate in una sua “mappa”, che le informazioni,
come effetti delle differenze, si trasmettono da un sistema all’altro tramite
codici (“ingiunzioni”, “ricordi”): questo è il “linguaggio” del
vivente. In questo caso ci si interroga su come (con quale linguaggio) il
sistema genetico comunichi le sue disposizioni al soma attraverso le
dinamiche dello sviluppo embrionale (nel caso proposto da Gould un esempio
sarebbe il “fermarsi prima”). Non mi
risulta che Gould citi mai Gregory Bateson, ma sembra che il pensiero di
quest’ultimo sia un contesto per le sue idee, così come quello di
William Bateson lo è stato per le idee di Gregory. Come quelle
su evoluzione progresso e finalità: Gould, come “riformatore”
della teoria dell’evoluzione, critica del darwinismo la quasi assoluta
prevalenza della selezione naturale come causa dell’evoluzione; egli è
diffidente nei confronti della tendenza a credere che tutti gli organismi siano
perfetti e che in essi tutto esista per una funzione; l’adattamento come
unica spiegazione introduce nell’evoluzione una teleologia che assomiglia a
quella che Bateson chiama “finalità cosciente”. L’exaptation,
introdotta da Gould, è la possibilità che la selezione naturale, anziché
soltanto modellare direttamente caratteri funzionali, possa anche cooptare
per una nuova funzione caratteri originati o per una funzione diversa o come
effetti strutturali collaterali non adattativi di caratteri adattativi;
questa idea pone al centro dell’evoluzione la contingenza storica e lo fa
sulla base di un pensiero strutturalista, perché l’exaptation implica
che ogni cambiamento di un carattere imponga dei vincoli strutturali (non
necessariamente adattativi) sulla base della organizzazione sistemica
dell’organismo. È ciò che
Gregory Bateson attribuiva al meccanismo “interno” della selezione, al
carattere conservativo dello sviluppo dell’embrione (epigenesi), ai vincoli
che il livello genetico, come deposito della storia evolutiva, pone alla
“cronaca” del rapporto attuale adattativo con l’ambiente (il meccanismo
“esterno”). Dagli anni Ottanta del Novecento si sa molto di più sulle
dinamiche dello sviluppo e sui loro rapporti con la genetica, su come,
all’interno di queste, i geni “esprimono” le loro informazioni codificate.
Gould insiste sull’esempio dei geni che, ben al di là del vecchio motto “un
gene un carattere”, modulano l’espressione di altri geni in una rete
complessa di regolazioni (abbiamo già citato i geni Hox come base di
omologie profonde tra organismi appartenenti a phyla molto distanti,
per dire che proprio geni a funzione regolatrice appartengono alla parte più
antica e quindi più conservativa del genoma). Questo di nuovo ha a che fare
con il problema di come si trasmettono le informazioni dal sistema
genetico al sistema fisiologico dell’organismo, cioè ha a che fare con il
“linguaggio” del vivente. C’è
un’altra critica di Gould al darwinismo che richiama i livelli logici
dell’adattamento di Bateson, e riguarda l’esclusività del livello di
organizzazione dell’organismo come bersaglio e quindi come livello causale
della evoluzione. L’ “azione riformatrice” di Gould rispetto alla teoria
dell’evoluzione propone che l’evoluzione si dispieghi a diversi livelli
gerarchici, ognuno caratterizzato da una diversa tipologia di “individui”
(geni, organismi, popolazioni, specie, cladi) e che in ognuno la selezione
agisca con modalità specifiche. Ma i diversi sistemi sono integrati, per cui
ciò che la selezione promuove ad un livello è la base per cambiamenti
evolutivi ad un livello superiore. Così la selezione a livello di geni
favorisce la duplicazione e quindi le ridondanze (DNA “di scarto”) e questo
rende possibili exaptations (ad esempio le “cristalline”, proteine
strutturali che costituiscono le lenti per la visione negli organismi sono
variazioni di enzimi, tutt’ora presenti, che hanno funzioni metaboliche [27]). Ma il
lavoro di Gould non è l’unico, in ambito biologico evoluzionistico, in cui si
possono riconoscere connessioni con le idee di Bateson. L’importanza
attribuita da Gregory Bateson al linguaggio di comunicazione tra gene e soma,
che si manifesta nell’epigenesi, per comprendere l’evoluzione trova uno
sviluppo nel filone di ricerca dell’ “evo-devo”, già citato a proposito delle
idee di William Bateson: il funzionamento di geni che regolano la
differenziazione cellulare, presenti in phyla molto distanti, può
fornire la base materiale per spiegare quel rapporto tra uniformità e
differenza che è il cuore stesso dell’evoluzione. Ricerche
sul rapporto tra funzioni mentali e organizzazione del sistema nervoso, tra
le quali la Teoria della Selezione dei Gruppi Neuronali di Edelman, forniscono una base materiale e funzionale al rapporto tra
l’apprendimento, come attività della mente individuale, e l’evoluzione, che
produce e diversifica le strutture materiali degli organismi che di tali
attività sono il supporto; sia nel senso che le caratteristiche
neuro-anatomiche di una data specie sono il prodotto di processi dinamici di
sviluppo che hanno luogo durante la fase embrionale, e quindi su base
genetica, sia per l’ipotesi che la formazione di molti circuiti nervosi,
basata sul rafforzamento o indebolimento di popolazioni di sinapsi, sia
frutto di processi selettivi determinati dal comportamento. L’idea che
il contesto culturale che costituisce la “nicchia ecologica” della specie
umana possa addirittura retroagire sulla nostra costituzione biologica e
neurale è sostenuta anche dallo scienziato cognitivo Terrence Deacon: siamo
“naturali per cultura”, perché la nostra natura è quella di una specie
simbolica, ma anche siamo “culturali per natura”, cioè figli di una
filogenesi naturale che ha fatto della materia grigia la base dell’immaginazione.
Secondo l’epistemologa americana Susan Oyama, le dimensioni di natura e
cultura, di innato e acquisito, di eredità ancestrale e apprendimento, sono
intrecciate inscindibilmente in un unico “sistema di sviluppo”. |
[1]
Gregory Bateson (1979), Mente e natura, Adelphi Milano 1984, pag. 210.
[2] Sthepen J. Gould
(2002), La struttura della teoria dell’evoluzione, Codice edizioni
Torino 2003, pag. 512.
[3] Gregory Bateson (1977), “Gli uomini sono
erba. La metafora e il mondo del processo mentale”, in: Una sacra unità,
Adelphi Milano 1997, p. 364.
[4] Gregory Bateson (1977), “La nascita di una
matrice, ovvero il doppio vincolo e l’epistemologia”, in: Una sacra
unità, Adelphi Milano 1997, p. 305.
[5] Gregory Bateson (1979), Mente e natura,
Adelphi Milano 1984, pag. 15.
[6] Stocastico = processo che opera una selezione
su una variabilità casuale.
[7] Gregory Bateson (1979), “I grandi processi
stocastici”, in Mente e natura, Adelphi Milano 1984.
[8] Gregory Bateson (1979), “I grandi processi
stocastici”, e “Il tempo è fuori squadra”, in Mente e natura,
Adelphi Milano 1984, pag. 234 e pag. 289.
[9] Gregory Bateson (1968), “Finalità
cosciente e natura”, in Verso un’ecologia della mente, Adelphi
Milano 1976, pag. 466.
[10] Gregory Bateson (1979), “Né soprannaturale né meccanico”, in Dove gli angeli esitano,
Adelphi Milano 1989, pag. 98.
[11]
Gregory Bateson (1959), “I requisiti minimi di una teoria della
schizofrenia”, in Verso un’ecologia della mente, Adelphi Milano
1976, pag. 298.
[12]
Gregory Bateson (1977), “Gli uomini sono erba. La metafora e il mondo del
processo mentale”, in: Una sacra unità, Adelphi Milano 1997, p. 364.
[13] ibidem.
[14] Vedi nota a pag. 5.
[15] Gregory Bateson (1959), “I requisiti
minimi di una teoria della schizofrenia”, in Verso un’ecologia della
mente, Adelphi Milano 1976.
[17]
Gregory Bateson (1975), “Intelligenza, esperienza ed evoluzione”, in Una
sacra unità, Adelphi Milano 1997.
[18]
Schismogenetico = che amplifica una relazione “simmetrica” (es. una
competizione) o “complementare” (es. di dominanza-dipendenza).
[19]
Gregory Bateson (1979), “I grandi processi stocastici”, in Mente e
natura, Adelphi Milano 1984.
[21]
Stephen J. Gould (1998), “Fratellanza per invesione (ovvero come si
rivoltarono i vermi)”, in I fossili di Leonardo e il pony di Sophia,
Il Saggatore 2004, pag. 332.
[22]
Sthepen J. Gould (1993), “Otto piccoli porcellini”, in Otto piccoli
porcellini, Il Saggiatore Milano 2003.
[23]
Gregory Bateson (1987), “Il
modello” , in Dove gli angeli esitano, Adelphi
Milano 1989, pag. 63.
[24]
Gregory Bateson (1979), Mente e
natura, Adelphi Milano 1984, pag. 17.
[25]
Gregory Bateson (1971), “(Introduzione.) La scienza della mente e
dell’ordine”, in Verso un’ecologia della mente, Adelphi Milano 1976,
pag. 22.
[26] Gregory Bateson (1979), Mente e natura, Adelphi Milano 1984,
pag. 28-29.
[27] Sthepen J. Gould (2002), La struttura
della teoria dell’evoluzione, Codice edizioni Torino 2003.