Marcello Sala

VIAGGIO VERSO NORD

-pubblicato in- 

COOPERAZIONE EDUCATIVA n. 1 / 1998

La Nuova Italia

 

La realtà e le rappresentazIoni della realtà sono contesti diversi dell'esperienza. Che cosa succede alla conoscenza quando vengono sovrapposti?

 

La scena è ormai usuale nelle sedi (convegni corsi...) dove si parla di didattica; sullo schermo di fronte al pubblico scorrono le immagini di un bambino seduto di fronte allo schermo di un computer. Il bambino è chiaramente a suo agio mentre segue sul monitor i risultati del suoi "smanettamenti" e contemporaneamente illustra, con aria di compiaciuta competenza, il suo lavoro all'intervistatore:

"Clicco e ottengo una informazione" dice mentre preme il pulsante del "mouse" e vede comparire sullo schermo un testo.

“Vado a nord e viaggio verso la Norvegia" commenta mentre fa scorrere il "mouse" e vede una freccia che si sposta sullo schermo verso l’alto su una mappa dell’Europa.

Il filmato che stiamo vedendo illustra l’utilizzo in ambito scolastico di un "ipertesto" di geo­grafia. Quello che sto vedendo e sentendo io è che la prima rappresentazione che il bambino verbalizza è adeguata all’esperienza che sta facendo: mentre parla sta effettivamente premendo il pulsante del "mouse" dopo averlo fat­to scorrere sul piano del tavolo in modo da ottenere lo spostamento corrispondente di una freccia sullo schermo e il risultato è quello di far comparire un testo. La seconda rappresenta­zione verbalizzata non è invece adeguata per due diversi motivi: il primo è che egli non sta viaggiando seduto in un'aula di scuola) e quindi non sta andando a nord; il secondo è che il nord non si trova in alto (e tanto meno la Norvegia che, rispetto al bambino che parla, si trova lungo una direzione orientata, cioè una semiretta, che passa sottoterra).

Perché la rappresentazione sia adeguata debbono intervenire alcune operazioni di trasformazione: 1) bambino ® freccia luminosa sullo schermo: solo se il bambino fosse la freccia sullo schermo starebbe effettivamente "andando"; 2) territorio ® mappa: solo se il bambino‑freccia potesse percepire l’immagine non come proveniente da uno schermo ma direttamente da un paesaggio egli starebbe effettivamente "viaggiando". Ma la 2) implica altre due trasformazioni; 3) orizzontale ® verticale: solo se il paesaggio si estendesse su un piano verticale il bambino‑freccia potrebbe effettivamente "viaggiare" nel territorio anche quando va verso l’alto (cosa che non può fare un normale viaggiatore terrestre); 4) nord ® alto: solo se la direzione topografica "nord" del territorio coincidesse con la direzione orientata "alto" della mappa il bambino‑freccia potrebbe effettivamente "andare verso nord" quando va verso l’alto (non è obbligatorio, anzi per gli australiani è irritante, che le carte geografiche verticali abbiano il nord e non, ad esempio, il sud in alto).

Qualcuno forse starà pensando che la faccio troppo lunga: in fondo, quando il bambino dice "viagg­io verso nord” operando su una mappa sta solo usando una metafora del tutto congrua al significato della mappa. Certo si tratta di una metafora, ma il valore cognitivo di una metafora non può prescindere dalla consapevolezza che se ne ha: ridiamo di chi prende alla lettera le metafore, e ciò che ci fa ridere è la sua inadeguatezza nel mettere in relazione due livelli distinti della realtà. La disinvoltura con cui quel bambino usa la metafora del viaggio davanti allo schermo del computer mi fa domandare quale sia la sua consapevolezza nel "qui e ora" dell'esperienza. Potrei anche essere tranquillo sul fatto che il bambino sa che non sta realmente viaggiando, ma sono quasi certo, per esperienza di scuola, che non sa che quella non è la direzione nord. La questione essenziale per me sta comunque nel dubbio se egli sia conscio della differenza di livello tra agire nel territorio e agire sulla mappa.

Quando i bambini hanno poche occasioni di viaggiare realmente, stando cioè in un circuito senso‑motorio di relazione con il mondo reale, e passano molto del loro tempo davanti ai libri, alla TV, al computer o ai videogiochi, stando cioè in un circuito senso‑motorio di relazione con paesaggi artificiali o addirittura virtuali [1], io mi pongo qualche problema su che cosa essi possano strutturare nella loro mente come "realtà".

In un convegno [2] sull’uso di prodotti multimediali in relazione all’educazione, cui ho partecipato, la mia attenzione è stata colpita dalla successione di tre interventi, che ho collegato alla questione epistemologica, molto cara a chi si occupa di pensiero ecosistemico o di complessità, e che ho schematizzato come pericolo di confondere "mappa e territorio". Il primo di quei tre prodotti ipermediali aveva come contenuto una guida ambientalistica di una regione, il secondo lo studio della geografia a scuola, il terzo una riflessione sulla costruzione di ipertesti. Dunque un ipertesto sul territorio, un ipertesto sulla mappa, un ipertesto sull’ipertesto. Tre "livelli logici" distesi tra esperienza e rappresentazione, intendendo per esperienza quella che avviene nei nostri circuiti senso‑motori‑emotivi nell’interazione con il mondo.

La domanda di fondo che mi pongo come educatore è: qual è il luogo della conoscenza tra esperienza e rappresentazione? Le risposte che mi trovo intorno svariano su tutto l’arco delle possibilità. La risposta della scuola è “la conoscenza è nella rappresentazione" tant'è vero che l’esperienza come contatto diretto con le realtà che si vogliono conoscere non è prevista o addirittura ostacolata (come si può facilmente verificare ad esempio dal mutamento della normativa e della prassi scolastica sulle "uscite"). Un'altra risposta è quella di considerare la conoscenza come rappresentazione e l’esperienza come sua condizione indispensabile. Ancora una possibilità è quella di considerare entrambe come luoghi di conoscenze di tipo diverso. Questo semplificando e senza entrare nello specifico di ipotesi come quella del costruttivismo ecc.

Questo ha a che fare, ad esempio, con la domanda relativa al valore dell'uso del software nell’educazione ambientale: che cosa va a sostituire nell’esperienza scolastica dei bambini, nella concretezza dell’impiego del tempo‑scuola? va a sostituire il libro di testo o va a sostituire la relazione diretta con l’ambiente, quale si può realizzare in una uscita sul campo?

Ogni esperienza è connotata da aspetti emotivi globali corporei. Si può fare esperienza anche quando si lavora con materiali super‑astratti, come quando si costruisce un ipertesto che tratta di costruzione di ipertesti per l’educazione ambientale. L’importante è porsi la domanda "esperienza di che?" e non rispondere "esperienza di viaggio” quando si "naviga” in un ipertesto di geografia. E un problema di "tipi logici", di livelli di esperienza e di rappresentazione, che non vanno confusi se si vuole che abbiano un valore positivo in termini di conoscenza.

Il problema dei luoghi della conoscenza tra esperienza e rappresentazione attiene anche a un altro aspetto che emerge nel dibattito sull’uso di software nell'educazione ambientale e cioè l’accento posto sulla separazione tra osservazione e interpretazione. Ad esempio si è sottolineato il passaggio tra osservazione qualitativa, legata anche a fattori emotivi, e osservazione quantitativa, che è anche passaggio tra percezione e misurazione. Qui il "dato" è il grande protagonista: si parla di raccolta ed elaborazione di dati; si dice che l’informatica e la telematica possono essere supporti alla educazione ambientale se possono organizzare e comunicare dati. Del resto la comunicazione, soprattutto quella scientifica, in qualche modo implica una standardizzazione del linguaggio non solo a livello sintattico, ma anche e soprattutto semantico, cioè di categorizzazione del pensiero.

L’enfatizzazione del "dato" riporta immediatamente a due dei capisaldi della scienza classica: la "neutralità" dell’osservatore e l’oggettività. E questo mi fa entrare in collisione con una epistemologia della complessità e con una cultura ecosistemica. Non mi convince innanzitutto il considerare la rappresentazione come risultato di un processo di astrazione che, partendo dalla percezione, la libererebbe delle connotazioni soggettive ed emotive per arrivare a una oggettività. Si dimentica la circolarità tra percezione e rappresentazione: si dimentica che anche la percezione è condizionata dalla rappresentazione (si pensi alle "illusioni ottiche" in cui si percepisce ciò che non esiste perché non è possibile evitare che i dati sensoriali vengano organizzati in uno schema rappresentativo, ad esempio quello della tridimensionalità, e quindi attraverso di esso interpretati), che "vedo ciò che voglio vedere" ovvero che "vedo ciò che penso".

Allora, se è vero che osservo ciò che nel mio sviluppo cognitivo mi sono organizzato a osservare, gli strumenti con cui organizzo la rappresentazione diventano condizionanti rispetto alla percezione. Al convegno di cui sopra è stato presentato un ipertesto di sostegno alla ricerca ambientale, che i bambini utilizzano al rientro dalle uscite sul campo: esso è predisposto ad accogliere i dati in un certo schema organizzativo, in cui ad esempio le emozioni sono previste ma devono essere collocate in una apposita casella. E io mi chiedo: i bambini come si muoveranno sul campo nelle uscite successive? Saranno libere le porte della loro percezione?

Non dico nulla di nuovo se affermo che gli strumenti veicolano una cultura. Posso convenire che, per chi organizza la propria conoscenza e il proprio pensiero in modo sistemico, l’ipertesto può essere uno strumento per comunicare migliore di quanto lo sia un testo tradizionale strutturato in modo lineare. Ma mi tengo le mie perplessità in merito a una ecologia dell'educazione, oltre che a una educazione all'ecologia, rispetto all’idea che, poiché l’ipertesto è organizzato in maniera reticolare anziché lineare, allora usare l’ipertesto educa a pensare in maniera sistemica.

 



[1] La distinzione, ovvero la transizione, tra artificiale e virtuale, è data dalla possibilità di percepire la fonte degli stimoli sensoriali (e quindi l’origine delle reazioni emotive) come qualcosa di distinto dalla realtà in cui è inserito e con cui si interagisce (ad esempio lo schermo TV come oggetto nella stanza): quando la fonte artificiale di stimoli occupa tutto il campo percettivo e soprattutto il campo dell'interazione senso‑motoria allora siamo nel campo del "virtuale". Si veda: Marcello Sala, Reale artificiale virtuale”, in Cooperazione Educativa n. 11/1993.

[2]  Convegno internazionale Ecosoft '94, Perugia, novembre 1994.