La realtà e le rappresentazIoni
della realtà sono contesti diversi dell'esperienza. Che cosa succede alla conoscenza
quando vengono sovrapposti? La
scena è ormai usuale nelle sedi (convegni corsi...) dove si parla di
didattica; sullo schermo di fronte al pubblico scorrono le immagini di un
bambino seduto di fronte allo schermo di un computer. Il bambino è
chiaramente a suo agio mentre segue sul monitor i risultati del suoi "smanettamenti" e contemporaneamente illustra, con aria
di compiaciuta competenza, il suo lavoro all'intervistatore: "Clicco e
ottengo una informazione" dice mentre preme il
pulsante del "mouse" e vede comparire sullo schermo un testo. “Vado a nord e viaggio verso la
Norvegia" commenta mentre fa scorrere il
"mouse" e vede una freccia che si sposta sullo schermo verso l’alto su una mappa dell’Europa. Il
filmato che stiamo vedendo illustra l’utilizzo in ambito scolastico di un "ipertesto"
di geografia. Quello che sto vedendo e sentendo io è che la prima
rappresentazione che il bambino verbalizza è adeguata all’esperienza che sta
facendo: mentre parla sta effettivamente
premendo il pulsante del "mouse" dopo averlo fatto scorrere
sul piano del tavolo in modo da ottenere lo spostamento corrispondente di una
freccia sullo schermo e il risultato è quello di far comparire un testo. La
seconda rappresentazione verbalizzata non è invece adeguata per due diversi
motivi: il primo è che egli non sta viaggiando
(è seduto in un'aula di scuola)
e quindi non sta andando a nord; il
secondo è che il nord non si trova in alto
(e tanto meno la Norvegia che, rispetto al bambino che parla, si trova
lungo una direzione orientata, cioè una semiretta, che passa sottoterra). Perché
la rappresentazione sia adeguata debbono intervenire alcune operazioni di trasformazione:
1) bambino ®
freccia luminosa sullo schermo: solo se il bambino fosse la freccia sullo
schermo starebbe effettivamente "andando"; 2) territorio ® mappa: solo se il bambino‑freccia
potesse percepire l’immagine non come proveniente da uno schermo ma
direttamente da un paesaggio egli starebbe effettivamente
"viaggiando". Ma la 2) implica altre due trasformazioni; 3)
orizzontale ®
verticale: solo se il paesaggio si estendesse su un piano verticale il
bambino‑freccia potrebbe effettivamente "viaggiare" nel
territorio anche quando va verso l’alto (cosa che non può fare un normale
viaggiatore terrestre); 4) nord ®
alto: solo se la direzione topografica "nord" del territorio
coincidesse con la direzione orientata "alto" della mappa il bambino‑freccia
potrebbe effettivamente "andare verso nord" quando va verso l’alto
(non è obbligatorio, anzi per gli australiani è irritante, che le carte
geografiche verticali abbiano il nord e non, ad esempio, il sud in alto). Qualcuno
forse starà pensando che la faccio troppo lunga: in fondo, quando il bambino
dice "viaggio verso nord” operando su una mappa sta solo usando una
metafora del tutto congrua al significato della mappa. Certo si tratta di una
metafora, ma il valore cognitivo di una metafora non può prescindere dalla
consapevolezza che se ne ha: ridiamo di chi prende alla lettera le metafore,
e ciò che ci fa ridere è la sua inadeguatezza nel mettere in relazione due
livelli distinti della realtà. La disinvoltura con cui quel bambino usa la metafora
del viaggio davanti allo schermo del computer mi fa domandare quale sia la
sua consapevolezza nel "qui e
ora" dell'esperienza. Potrei anche essere tranquillo sul fatto che
il bambino sa che non sta realmente viaggiando,
ma sono quasi certo, per esperienza di scuola, che non sa che quella non è la direzione nord. La questione essenziale per me sta comunque
nel dubbio se egli sia conscio della differenza di livello tra agire nel
territorio e agire sulla mappa. Quando
i bambini hanno poche occasioni di viaggiare realmente, stando cioè in un circuito senso‑motorio di
relazione con il mondo reale, e passano molto del loro tempo davanti ai
libri, alla TV, al computer o ai videogiochi, stando cioè in un circuito senso‑motorio
di relazione con paesaggi artificiali o addirittura virtuali [1], io
mi pongo qualche problema su che cosa essi possano strutturare nella loro
mente come "realtà". In
un convegno [2] sull’uso di prodotti multimediali
in relazione all’educazione, cui ho partecipato, la mia attenzione è stata
colpita dalla successione di tre interventi, che ho collegato alla questione
epistemologica, molto cara a chi si occupa di pensiero ecosistemico
o di complessità, e che ho schematizzato come pericolo di confondere
"mappa e territorio". Il primo di quei tre prodotti ipermediali aveva come contenuto una guida ambientalistica
di una regione, il secondo lo studio della geografia a scuola, il terzo una riflessione
sulla costruzione di ipertesti. Dunque un ipertesto sul territorio, un
ipertesto sulla mappa, un ipertesto sull’ipertesto. Tre "livelli
logici" distesi tra esperienza e rappresentazione, intendendo per esperienza
quella che avviene nei nostri circuiti senso‑motori‑emotivi
nell’interazione con il mondo. La
domanda di fondo che mi pongo come educatore è: qual è il luogo della conoscenza
tra esperienza e rappresentazione? Le risposte che mi trovo intorno svariano
su tutto l’arco delle possibilità. La risposta della scuola è “la conoscenza
è nella rappresentazione" tant'è vero che l’esperienza come contatto
diretto con le realtà che si vogliono conoscere non è prevista o addirittura
ostacolata (come si può facilmente verificare ad esempio dal mutamento della
normativa e della prassi scolastica sulle "uscite"). Un'altra
risposta è quella di considerare la conoscenza come rappresentazione e
l’esperienza come sua condizione indispensabile. Ancora una possibilità è
quella di considerare entrambe come luoghi di conoscenze di tipo diverso.
Questo semplificando e senza entrare nello specifico di ipotesi come quella
del costruttivismo ecc. Questo
ha a che fare, ad esempio, con la domanda relativa al valore dell'uso del software
nell’educazione ambientale: che cosa va a sostituire nell’esperienza
scolastica dei bambini, nella concretezza dell’impiego del tempo‑scuola?
va a sostituire il libro di testo o
va a sostituire la relazione diretta con l’ambiente, quale si può realizzare
in una uscita sul campo? Ogni
esperienza è connotata da aspetti emotivi globali corporei. Si può fare
esperienza anche quando si lavora con materiali super‑astratti, come
quando si costruisce un ipertesto che tratta di costruzione di ipertesti per
l’educazione ambientale. L’importante è porsi la domanda "esperienza di che?" e non rispondere
"esperienza di viaggio” quando si
"naviga” in un ipertesto di geografia. E un problema di "tipi
logici", di livelli di esperienza e di rappresentazione, che non vanno
confusi se si vuole che abbiano un valore positivo in termini di conoscenza. Il
problema dei luoghi della conoscenza tra esperienza e rappresentazione
attiene anche a un altro aspetto che emerge nel dibattito sull’uso di
software nell'educazione ambientale e cioè l’accento posto sulla separazione
tra osservazione e interpretazione. Ad esempio si è sottolineato il passaggio
tra osservazione qualitativa, legata anche a fattori emotivi, e osservazione
quantitativa, che è anche passaggio tra percezione e misurazione. Qui il
"dato" è il grande protagonista: si parla di raccolta ed elaborazione
di dati; si dice che
l’informatica e la telematica possono essere supporti alla educazione
ambientale se possono organizzare e comunicare dati. Del resto la comunicazione, soprattutto quella scientifica,
in qualche modo implica una standardizzazione del linguaggio non solo a
livello sintattico, ma anche e soprattutto semantico, cioè di categorizzazione
del pensiero. L’enfatizzazione
del "dato" riporta immediatamente a due dei capisaldi della scienza
classica: la "neutralità" dell’osservatore e l’oggettività. E
questo mi fa entrare in collisione con una epistemologia della complessità e
con una cultura ecosistemica. Non mi convince
innanzitutto il considerare la rappresentazione come risultato di un processo
di astrazione che, partendo dalla percezione, la libererebbe delle
connotazioni soggettive ed emotive per arrivare a una oggettività. Si
dimentica la circolarità tra percezione e rappresentazione: si dimentica che
anche la percezione è condizionata dalla rappresentazione (si pensi alle
"illusioni ottiche" in cui si percepisce ciò che non esiste perché
non è possibile evitare che i dati sensoriali vengano organizzati in uno
schema rappresentativo, ad esempio quello della tridimensionalità, e quindi
attraverso di esso interpretati), che "vedo ciò che voglio vedere"
ovvero che "vedo ciò che penso". Allora,
se è vero che osservo ciò che nel mio sviluppo cognitivo mi sono organizzato
a osservare, gli strumenti con cui organizzo la rappresentazione diventano
condizionanti rispetto alla percezione. Al convegno di cui sopra è stato
presentato un ipertesto di sostegno alla ricerca ambientale, che i bambini
utilizzano al rientro dalle uscite sul campo: esso è predisposto ad
accogliere i dati in un certo schema
organizzativo, in cui ad esempio le emozioni sono previste ma devono essere
collocate in una apposita casella. E io mi chiedo: i bambini come si
muoveranno sul campo nelle uscite successive? Saranno libere le porte della
loro percezione? Non
dico nulla di nuovo se affermo che gli strumenti veicolano una cultura. Posso
convenire che, per chi organizza la propria conoscenza e il proprio pensiero
in modo sistemico, l’ipertesto può essere uno strumento per comunicare
migliore di quanto lo sia un testo tradizionale strutturato in modo lineare. Ma
mi tengo le mie perplessità in merito a una ecologia dell'educazione, oltre
che a una educazione all'ecologia, rispetto all’idea che, poiché l’ipertesto
è organizzato in maniera reticolare anziché lineare, allora usare l’ipertesto educa a pensare in maniera sistemica. |
[1] La distinzione,
ovvero la transizione, tra artificiale e virtuale, è data dalla possibilità di
percepire la fonte degli stimoli sensoriali (e quindi l’origine delle reazioni
emotive) come qualcosa di distinto dalla realtà in cui è inserito e con cui si
interagisce (ad esempio lo schermo TV come oggetto nella stanza): quando la
fonte artificiale di stimoli occupa tutto il campo percettivo e soprattutto il
campo dell'interazione senso‑motoria
allora siamo nel campo del "virtuale". Si veda: Marcello Sala, “Reale artificiale virtuale”, in Cooperazione
Educativa n. 11/1993.
[2] Convegno internazionale Ecosoft
'94, Perugia, novembre 1994.