Marcello Sala

“SVEGLIARE IL CAN CHE DORME”

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INSEGNARE n. 8-9 / 2002

Paravia Bruno Mondadori

 

Federico è il classico “caso difficile”: disagio sociale, famiglia “a rischio”, storia di ritardo scolastico, frequenza irregolare. Più grande dei compagni, tende a collocarsi “sopra” di loro, a volte isolandosi da quelli che ritiene “troppo piccoli”, a volte imponendosi con la sopraffazione in conflitti fortuiti, o da lui stesso provocati, per affermare un dominio sul territorio. E questo lo porta al confronto diretto con l’insegnante, che provoca e a cui tiene testa.

Ripete la seconda media perché è prevalsa l’idea che è meglio per la scuola (?) puntare, attraverso la bocciatura, a una riduzione della sua presenza ingombrante, in modo da raggiungere con il minimo di rischio e di fatica l’ormai vicina età di compimento dell’obbligo.

La strategia ha pieno successo; il secondo anno in effetti Federico dirada le sue presenze a scuola, ma soprattutto aumenta la sua estraneità all’ambiente in una direzione che i più accolgono con sollievo: il suo distacco dai compagni, ancora più piccoli dell’anno precedente, fa diminuire il bisogno di affermare una superiorità; quando è a scuola, ci sono meno conflitti, meno provocazioni, meno atteggiamenti violenti.

È un ricordo lontano: di una storia mi restano solo episodi, immagini, colorazioni emotive, ma forse la selettività dell’oblio restituisce dei significati attuali.

L’immagine che ho più viva è quella di una mattina “normale”: io propongo un lavoro, i compagni preparano il materiale. Federico è in fondo, nel suo angolo, accanto a un’altra “ripetente” con la quale spesso si immerge in fitte e discrete conversazioni private. È ciò che fa anche adesso e vedo che sposta la sedia in modo da trovarsi di fronte alla compagna, voltandomi le spalle. L’immagine che mi sorge è quella di un tavolino al bar, per questo sono sicuro che il suo gesto risponde a una ricerca di intimità e non a una intenzione provocatoria: ciò che accade in questo luogo gli è estraneo, profondamente.

Per un momento rievoco la sofferenza dell’anno precedente. Per la prima volta nella mia storia di insegnante non riuscivo a vincere quella sorta di combattimenti ritualizzati (nelle specie animali si concludono con la sottomissione del più debole) e l’escalation simmetrica non si chiudeva (c’è un limite nell’esibizione di forza che l’insegnante non può superare e che, diversamente dagli animali, si colloca molto al disotto dello scontro fisico).

E ora perché “svegliare il can che dorme”, come dicono i miei colleghi? che cosa voglio di più da un Federico che si fa i fatti suoi senza dare fastidio a nessuno? Voglio che partecipi al lavoro scolastico per imparare, perché questo è il significato dello stare a scuola, semplicemente. Questo gli dico mentre gli chiedo di girarsi e fisso il mio sguardo nel suo, decisamente sconcertato.

Qualche anno dopo, a una cena di ex alunni, qualcuno mi dice di avere incontrato Federico e di avere parlato con lui dei vecchi tempi. Ed ecco la sorpresa: Federico mi ha ricordato come il migliore dei suoi “prof”.

Che cosa dunque fa “mentire” la memoria di Federico portandolo nei tempi lunghi della vita a giudicare come positiva una relazione che nell’immediato si poneva con modi di fare soggettivamente persecutori? C’è stato un cambiamento, un apprendimento. Che cosa ha imparato dunque Federico? Mi consola pensare che la risposta abbia a che fare proprio con il mio non “lasciarlo perdere”, che da questo abbia imparato qualcosa che ha a che fare con l’organizzazione sociale prima che con l’etica o la psicologia.

Ecco il paradosso: l’apprendimento dei ragazzi dipende e non dipende dall’insegnante. Di qui il principio: l’insegnante deve comportarsi come se da lui dipendesse e non dipendesse l’apprendimento dei ragazzi.

L’insegnante deve agire come se ci fosse sempre una strategia di insegnamento possibile per qualsiasi ragazzo/a in qualsiasi contesto. Perciò l’insegnante modifica continuamente il suo agire in dipendenza delle risposte dei ragazzi, nella circolarità nella relazione di insegnamento-apprendimento (questo significa “strategia”, in contrapposizione a “metodo”).

Ma, d’altra parte, l’insegnante non può far dipendere il suo impegno o la sua rinuncia da quelle che lui/lei ritiene risposte positive o negative da parte dei ragazzi, modificando il suo atteggiamento di fondo, la sua responsabilità. Non si tratta solo di “attendersi gli imprevisti”, questo fa parte della strategia, ma più profondamente di essere consapevoli che ciò che un alunno apprende, quando e come, non dipende dall’insegnante: non siamo padroni della loro vita. Quella di apprendere è la loro responsabilità, intenzionale o no.

Ci sono molti modi in cui un insegnante si sottrae alla propria responsabilità di cercare comunque una strategia più adeguata: se dare la colpa del mancato apprendimento alle incapacità del ragazzo o alle proprie è un errore epistemologico perché colloca dentro le persone ciò che sta nella relazione, attribuire l’insuccesso alle condizioni psicologiche e sociali significa rinunciare al potere (ovvero possibilità di azione) che viene dalla professionalità per esentarsi oppure per assumersi un’area di  responsabilità impossibile. Oltretutto se la difficoltà del compito fa sentire buoni e/o potenti, la sua impossibilità garantisce frustrazione o autocompiacimento consolatorio.

Quanto all’inadeguatezza del contesto scolastico, fa parte della professionalità educativa il fare di ogni limite una risorsa; in altre parole ci sono sempre almeno due possibilità, due modi di fare le cose di cui una migliore dell’altra.

Resta un aspetto relativo alla domanda di fondo “si può insegnare a chi non vuole imparare?”: se un alunno “non vuole imparare” per ciò stesso entra in conflitto con l’insegnante, per ragioni strutturali, per ciò che fa di una relazione una relazione “educativa”.

Se vi è conflitto tra insegnante e alunno è nel merito dell’apprendimento, di tutto ciò che è oggetto di apprendimento in quel contesto; a partire dal centro di significato della sua specificità e quindi, se sono un “insegnante di matematica”, a partire dalla matematica, comprendendo tutti gli elementi della materialità educativa (tempi, spazi, strumenti, azioni, corpi, oggetti, linguaggi, regole…) e delle rappresentazioni culturali “latenti”. E le dinamiche affettive implicate nel conflitto sono quelle specifiche della relazione educativa (e sarebbe ora che nelle nostre “mappe” imparassimo a riconoscerle e analizzarle invece di trasferire indebitamente e pericolosamente, attraverso il linguaggio psicologico, rappresentazioni che sono pertinenti al contesto familiare, come il “codice materno” o “paterno”).

L’insegnante di fronte al conflitto corre due pericoli opposti. Uno è quello di sfuggirvi. Spesso lo fa proponendo una relazione caratterizzata da buoni sentimenti, attraverso prediche o attraverso una pratica amicale basata sulla parità e l’accondiscendenza. La dinamica dell’equilibrio, quando non è solitario, si basa su un gioco di azione-reazione in cui si ha bisogno della forza dell’altro: perciò questo atteggiamento sottrae alla relazione il sostegno di cui il bambino o l’adolescente hanno bisogno nella propria ricerca di identità attraverso la prova, il confronto, e quindi anche il conflitto.

Dal lato opposto il pericolo è quello di accettare la prova di forza come tale, come competizione sul territorio della relazione (e questo oltretutto riporterebbe a una implicita simmetria), usando la a-simmetria di forza che sta nell’essere adulto per imporre dipendenza. Ma a scuola la a-simmetria non riguarda la relazione “in sé” (come se essa potesse esistere nella realtà, al di fuori delle mappe psicologiche), ma la relazione di insegnamento-apprendimento nel contesto scolastico. Perciò, rispetto al conflitto, l’apprendimento è l’oggetto, non un pretesto.