Federico è il classico “caso difficile”: disagio sociale,
famiglia “a rischio”, storia di ritardo scolastico, frequenza irregolare. Più
grande dei compagni, tende a collocarsi “sopra” di loro, a volte isolandosi
da quelli che ritiene “troppo piccoli”, a volte imponendosi con la sopraffazione
in conflitti fortuiti, o da lui stesso provocati, per affermare un dominio
sul territorio. E questo lo porta al confronto diretto con l’insegnante, che
provoca e a cui tiene testa. Ripete
la seconda media perché è prevalsa l’idea che è meglio per la scuola (?) puntare,
attraverso la bocciatura, a una riduzione della sua presenza ingombrante, in
modo da raggiungere con il minimo di rischio e di fatica l’ormai vicina età
di compimento dell’obbligo. La
strategia ha pieno successo; il secondo anno in effetti Federico dirada le
sue presenze a scuola, ma soprattutto aumenta la sua estraneità all’ambiente
in una direzione che i più accolgono con sollievo: il suo distacco dai
compagni, ancora più piccoli dell’anno precedente, fa diminuire il bisogno di
affermare una superiorità; quando è a scuola, ci sono meno conflitti, meno
provocazioni, meno atteggiamenti violenti. È
un ricordo lontano: di una storia mi restano solo episodi, immagini,
colorazioni emotive, ma forse la selettività dell’oblio restituisce dei
significati attuali. L’immagine
che ho più viva è quella di una mattina “normale”: io propongo un lavoro, i
compagni preparano il materiale. Federico è in fondo, nel suo angolo, accanto
a un’altra “ripetente” con la quale spesso si immerge in fitte e discrete
conversazioni private. È ciò che fa anche adesso e vedo che sposta la sedia
in modo da trovarsi di fronte alla compagna, voltandomi le spalle. L’immagine
che mi sorge è quella di un tavolino al bar, per questo sono sicuro che il
suo gesto risponde a una ricerca di intimità e non a una intenzione provocatoria:
ciò che accade in questo luogo gli è estraneo, profondamente. Per un momento rievoco la sofferenza dell’anno precedente.
Per la prima volta nella mia storia di insegnante non riuscivo a vincere
quella sorta di combattimenti ritualizzati (nelle specie animali si concludono
con la sottomissione del più debole) e l’escalation
simmetrica non si chiudeva (c’è un limite nell’esibizione di forza che
l’insegnante non può superare e che, diversamente dagli animali, si colloca
molto al disotto dello scontro fisico). E
ora perché “svegliare il can che dorme”, come dicono i miei colleghi? che
cosa voglio di più da un Federico che si fa i fatti suoi senza dare fastidio
a nessuno? Voglio che partecipi al lavoro scolastico per imparare, perché
questo è il significato dello stare a scuola, semplicemente. Questo gli
dico mentre gli chiedo di girarsi e fisso il mio sguardo nel suo, decisamente
sconcertato. Qualche anno dopo, a una cena di ex alunni, qualcuno mi
dice di avere incontrato Federico e di avere parlato con lui dei vecchi tempi.
Ed ecco la sorpresa: Federico mi ha ricordato come il migliore dei suoi
“prof”. Che
cosa dunque fa “mentire” la memoria di Federico portandolo nei tempi lunghi
della vita a giudicare come positiva una relazione che nell’immediato si
poneva con modi di fare soggettivamente persecutori? C’è stato un
cambiamento, un apprendimento. Che cosa ha imparato dunque Federico? Mi
consola pensare che la risposta abbia a che fare proprio con il mio non
“lasciarlo perdere”, che da questo abbia imparato qualcosa che ha
a che fare con l’organizzazione sociale prima che con l’etica o la
psicologia. Ecco
il paradosso: l’apprendimento dei ragazzi dipende e non dipende
dall’insegnante. Di qui il principio: l’insegnante deve comportarsi come se
da lui dipendesse e non dipendesse l’apprendimento dei ragazzi. L’insegnante
deve agire come se ci fosse sempre una strategia di insegnamento possibile
per qualsiasi ragazzo/a in qualsiasi contesto. Perciò l’insegnante modifica
continuamente il suo agire in dipendenza delle risposte dei ragazzi,
nella circolarità nella relazione di insegnamento-apprendimento (questo
significa “strategia”, in contrapposizione a “metodo”). Ma,
d’altra parte, l’insegnante non può far dipendere il suo impegno
o la sua rinuncia da quelle che lui/lei ritiene risposte positive o
negative da parte dei ragazzi, modificando il suo atteggiamento di fondo, la
sua responsabilità. Non si tratta solo di “attendersi gli imprevisti”, questo
fa parte della strategia, ma più profondamente di essere consapevoli che ciò
che un alunno apprende, quando e come, non dipende dall’insegnante: non siamo
padroni della loro vita. Quella di apprendere è la loro responsabilità,
intenzionale o no. Ci
sono molti modi in cui un insegnante si sottrae alla propria responsabilità
di cercare comunque una strategia più adeguata: se dare la colpa del mancato
apprendimento alle incapacità del ragazzo o alle proprie è un errore
epistemologico perché colloca dentro le persone ciò che sta nella relazione,
attribuire l’insuccesso alle condizioni psicologiche e sociali significa rinunciare
al potere (ovvero possibilità di azione) che viene dalla professionalità
per esentarsi oppure per assumersi un’area di
responsabilità impossibile. Oltretutto se la difficoltà del compito fa
sentire buoni e/o potenti, la sua impossibilità garantisce frustrazione o
autocompiacimento consolatorio. Quanto
all’inadeguatezza del contesto scolastico, fa parte della professionalità
educativa il fare di ogni limite una risorsa; in altre parole ci sono sempre
almeno due possibilità, due modi di fare le cose di cui una migliore
dell’altra. Resta un aspetto relativo alla domanda di fondo “si può
insegnare a chi non vuole imparare?”: se un alunno “non vuole imparare” per
ciò stesso entra in conflitto con l’insegnante, per ragioni strutturali,
per ciò che fa di una relazione una relazione “educativa”. Se
vi è conflitto tra insegnante e alunno è nel merito dell’apprendimento,
di tutto ciò che è oggetto di apprendimento in quel contesto; a partire dal
centro di significato della sua specificità e quindi, se sono un “insegnante di
matematica”, a partire dalla matematica, comprendendo tutti gli elementi
della materialità educativa (tempi, spazi, strumenti, azioni, corpi, oggetti,
linguaggi, regole…) e delle rappresentazioni culturali “latenti”. E le dinamiche
affettive implicate nel conflitto sono quelle specifiche della relazione educativa
(e sarebbe ora che nelle nostre “mappe” imparassimo a riconoscerle e
analizzarle invece di trasferire indebitamente e pericolosamente, attraverso
il linguaggio psicologico, rappresentazioni che sono pertinenti al contesto
familiare, come il “codice materno” o “paterno”). L’insegnante di fronte al conflitto corre due pericoli
opposti. Uno è quello di sfuggirvi. Spesso lo fa proponendo una relazione
caratterizzata da buoni sentimenti, attraverso prediche o attraverso una
pratica amicale basata sulla parità e l’accondiscendenza. La dinamica
dell’equilibrio, quando non è solitario, si basa su un gioco di azione-reazione
in cui si ha bisogno della forza dell’altro: perciò questo atteggiamento
sottrae alla relazione il sostegno di cui il bambino o l’adolescente hanno
bisogno nella propria ricerca di identità attraverso la prova, il confronto,
e quindi anche il conflitto. Dal
lato opposto il pericolo è quello di accettare la prova di forza come tale,
come competizione sul territorio della relazione (e questo oltretutto
riporterebbe a una implicita simmetria), usando la a-simmetria di forza che
sta nell’essere adulto per imporre dipendenza. Ma a scuola la a-simmetria non
riguarda la relazione “in sé” (come se essa potesse esistere nella realtà, al
di fuori delle mappe psicologiche), ma la relazione di insegnamento-apprendimento
nel contesto scolastico. Perciò, rispetto al conflitto, l’apprendimento è
l’oggetto, non un pretesto. |