Marcello Sala

SISTEMI AUTOPOIETICI

E CONTESTI EDUCATIVI

-pubblicato in-

Riflessioni Sistemiche n. 9 / 2013

AIEMS

 

 

Sommario:  biologia e fenomeni socioculturali – livelli di organizzazione dei sistemi e livelli di spiegazione - un contesto educativo osservato come sistema autopoietico: metabolismo, confine, autonomia – la “società dei bambini”: educazione e autonomia.

Parole-chiave: autopoiesi, improvvisazione, “territorio del gioco”, “società dei bambini”, relazione educativa, accoglienza, responsabilità, autonomia, setting pedagogico.

 

Che cosa significa per un biologo “sistema vivente”? L’accento dovrebbe essere su “sistema”, dal momento che diamo per scontato che il biologo si occupi della vita; escludendone però ciò che si ritiene caratteristica specifica della sola vita umana, oggetto della psicologia, della sociologia, dell’antropologia, della storia...

Ma è solo alla fine del Settecento che, nella Storia Naturale, dalla classificazione ci si sposta verso l’anatomia, verso l’organismo come sistema di dipendenze funzionali interne (Cuvier). Due secoli dopo, la teoria dell’autopioesi (MaturanaVarela, 1980), alla domanda “che cosa è comune a  tutti i sistemi viventi?” risponde: l’essere un sistema organizzato capace di riprodurre, anche materialmente, la propria organizzazione.

Ma, per occuparmi delle conseguenze che questa idea comporta, devo problematizzare proprio ciò che all’inizio ho dato per scontato: perché un biologo dovrebbe non occuparsi degli umani? Già Linneo aveva classificato l’uomo nell’ordine dei Primati, e Darwin, riferimento ineludibile per tutta la biologia, ha scritto il seguito del suo testo principale occupandosi de “l’origine dell’uomo” (Darwin, 1871): da quel momento l’uomo, con le sue specificità, è compreso nella biologia e nell’evoluzione.

Se poi il biologo di mestiere fa l’insegnante e il formatore, in gioco sono due significati di “sistema vivente”, caratterizzati dai diversi contesti del discorso: da una parte la biologia, che si occupa, attraverso le somiglianze e le differenze tra i viventi, delle generalità del fenomeno vita, nelle sue relazioni e funzioni; dall’altra il sistema vivente umano, nella sua specificità di organismo individuale che apprende all’interno di sistemi simbolici e culturali nei quali vivono le organizzazioni sociali. Per un biologo “organismo” e “organizzazione” non sono metafore sociologiche applicate alla biologia, né metafore biologiche applicate alla sociologia, ma fenomeni oggetti di studio. E dunque nel mio caso vorrei specificare la problematica così: per me, biologo e formatore, come entrano in relazione certi significati di “sistema vivente” utilizzati in biologia con altri significati utilizzati nelle scienze della formazione?

Livelli di organizzazione e di spiegazione

Prima di proseguire però devo provare a rispondere a una domanda legittima: perché far ricorso alla biologia per qualcosa che ha a che fare con la cultura e quindi con lo specifico umano, che è direttamente spiegato dalla psicologia o dalla sociologia? Non è questa una forma di riduzionismo?

Una prima risposta è che un principio epistemologico che caratterizza la prassi della scienza induce a preferire spiegazioni che utilizzano meno principi e “leggi” per campi più vasti di fenomeni. So che ogni livello di organizzazione ha un suo pertinente livello di spiegazione e che fare riferimento al livello sottostante significa entrare in dettagli inutili fino all’insignificanza. Ciò non vuol dire però che la realtà al livello superiore cessi di obbedire ai  principi che regolano il livello sottostante: ad esempio la gravità non solo opera sugli esseri viventi ma condiziona le forme della loro organizzazione. Vuol dire anche che la variazione quantitativa di qualche variabile può produrre differenze qualitative perché esistono effetti di soglia (un esempio: dalle uova di alligatore nascono femmine se la temperatura dell’incubazione si mantiene sotto i 29°, maschi se li supera). Perciò, laddove è pertinente, una spiegazione che non esclude il livello sottostante, ma addirittura vi si radica, è per me più efficace.

Una seconda ragione ha a che fare con la necessità di evitare l’errore di rappresentarsi una discontinuità “ontologica” tra la natura umana e il resto del mondo vivente, che porta nel vicolo cieco della conseguente contrapposizione tra natura e cultura, che ci ha già fatto perdere un sacco di tempo e di energie, oltre a produrre danni irreparabili nel rapporto tra umanità e “mondo naturale”. La scienza evoluzionistica ha già mostrato ampiamente come la socialità, la comunicazione e poi forme di cultura (comportamenti appresi e non trasmessi per via genetica), addirittura di etica, siano già presenti negli animali (Per la socialità e la comunicazione si veda: Wilson, 2012; per la cultura: Cavalli Sforza, 2004; per l’etica: Bekoff – Pierce, 2009).

Per Gregory Bateson la discontinuità che interessa i sistemi viventi è tra il mondo della materia e delle forze in cui il cambiamento è la reazione a un’azione (applicazione di una forza) ed è calcolabile a partire dalle condizioni di partenza conoscendo le leggi della fisica, e il mondo del vivente, che reagisce anche ai significati (l’esempio classico è un colpo dato a un cane confrontato con un colpo dato a una palla) attraverso una catena di trasformazioni di differenze di variabili, ovvero di informazioni (Bateson, 1972).

In questo quadro quella caratteristica degli umani che è la rappresentazione (con tutti suoi corollari, come l’autocoscienza, la finalità cosciente, la progettazione...) è un sistema più sofisticato di reazione alle informazioni; ma già l’organizzazione sociale delle formiche lo è:

“... se un’operaia si imbatte in una larva affamata nella camera della covata, le offrirà del cibo, ma se la incontra altrove – a prescindere dal fatto che essa sia o meno affamata - la riporta insieme alle altre nella nursery.” (Hölldobler – Wilson, 2009, pag. 31).

Il comportamento osservato nelle formiche ci appare consapevole e intenzionale, frutto di riflessione e decisione, e questo naturalmente ci mette in seria difficoltà: non essendo disposti ad ammettere un’ “intelligenza” elevata in organismi che hanno un cervello con circa 50.000 volte meno neuroni di quello umano, preferiamo ricorrere a spiegazioni magico-spiritualistiche. In realtà la difficoltà nasce dalle nostre premesse epistemologiche inadeguate, come la proiezione su altri sistemi della finalità cosciente specifica degli umani e l’ignoranza delle catene causali e del funzionamento dei dispositivi biologici, che non ci permettere di riconoscere la loro adeguatezza a produrre i processi necessari a sostenere funzioni “complesse”. Nel caso delle formiche, nel cervello

non vi è alcuna rappresentazione di un progetto dell’ordine sociale. Non esiste un supervisore che esegua  questo piano generale nella propria testa, né una casta che agisca da ‘cervello’. Piuttosto la vita della colonia è il prodotto dell’autoorganizzazione. Il superorganismo esiste nelle singole risposte programmate degli organismi che lo compongono. Le istruzioni di assemblaggio eseguite dagli organismi sono da un lato gli algoritmi dello sviluppo che hanno dato luogo alle caste, dall’altro gli algoritmi comportamentali, responsabili del comportamento degli individui all’interno delle caste istante per istante.” (Hölldobler – Wilson, 2009, pag. 32).

Se vogliamo farci una ragione biologica, e quindi materiale, degli “algoritmi” responsabili di un comportamento come quello descritto sopra, non possiamo semplicemente credere a ciò che ci suggeriscono le nostre convinzioni, ovvero i pregiudizi culturali assimilati con il latte materno o i biscotti del Mulino Bianco, o le semplificazioni della “divulgazione”, che al Mulino Bianco cercano di riportare le spiegazioni scientifiche; dobbiamo avere la pazienza, l’umiltà forse, di studiare, o anche solo di leggere e capire, le 600 pagine di Il superorganismo (Hölldobler – Wilson, 2009), che riassume un mondo enormemente più vasto di ricerche scientifiche. Se non ne abbiamo il tempo o la disposizione, allora potremmo fermarci a un salutare dubbio o alle domande che ci suggerisce il non sapere.

Sistemi autopoietici, culturali, educativi

E qui riprendo l’autopoiesi. Un vivente è in grado di rigenerare (anche, e prima di tutto, materialmente) le proprie parti in modo che sia conservata la propria organizzazione (il sistema di relazioni che connettono i componenti), che, reciprocamente, è ciò che rende possibile l’attività auto-riproduttiva. Un vivente si identifica per la sua attività di auto-produzione.

Un nodo centrale di questa teoria è che i sistemi autopoietici subordinano tutti i cambiamenti al mantenimento della propria organizzazione: se la perdessero, cesserebbero di essere ciò che sono (perderebbero la loro identità). Per mantenere la propria organizzazione, i viventi, di fronte a perturbazioni che possono giungere dall’esterno o dall’interno, possono andare incontro a dei cambiamenti della propria struttura (ciò che in questo momento materialmente e individualmente costituisce la loro organizzazione).

Ogni unità autopoietica ha un campo di possibilità di azione e può modificare la propria struttura interagendo con un ambiente. L’organismo e il suo ambiente si comportano come sorgenti reciproche di perturbazioni che innescano cambiamenti di struttura (apprendimenti): Maturana e Varela chiamano questo processo continuo accoppiamento strutturale”.

Nelle reciproche interazioni, la perturbazione che dall'ambiente arriva all’organismo non contiene già una determinazione di quali saranno i suoi effetti, ma è l'essere vivente con la propria struttura che determina la forma, la direzione, la modalità del proprio cambiamento in rapporto alla perturbazione. Dunque l'ambiente innesca solamente i cambiamenti strutturali.

Tutto ciò ha un senso in educazione. Se la perturbazione che proviene dall’esterno innesca ma non determina il cambiamento di un organismo e l’accoppiamento strutturale è la possibilità di essere reciprocamente fonte di perturbazioni che innescano cambiamenti, allora, in un contesto educativo, il contenuto del cambiamento non sta nella formazione, ma nell'esito del processo di ristrutturazione del soggetto che essa può mettere in moto (la forma e l’esito del processo dipendono dall'identità, dalla storia del soggetto); educatore ed educandi sono fonti di perturbazioni reciproche che provocano apprendimenti.

Ma questo trasferimento dalla biologia all’educazione è una legittima applicazione a un campo specifico o è solo una metafora (con tutti i limiti e i rischi delle metafore)? Dunque, prima di procedere, provo a specificare la domanda precedente: un gruppo di bambini che gioca è un sistema vivente, uno specifico sistema autopoietico?

In termini di sistemi, l’autopoiesi si manifesta a livelli ricorsivi di organizzazione: le cellule sono sistemi autopoietici di primo ordine e i loro accoppiamenti strutturali rendono possibile l’organizzazione di organismi pluricellulari (sistemi di secondo ordine) che reciprocamente costituiscono l’ambiente di realizzazione dell’autopoiesi cellulare. Coordinazioni comportamentali tra organismi, a partire da quelli riproduttivi e di cura della prole, sono alla base dei gruppi sociali (sistemi di terzo ordine), che reciprocamente sono l’ambiente necessario di vita degli organismi individuali.

Noi osservatori chiamiamo “comunicazione” la reciproca induzione di comportamenti coordinati. Quelli comunicativi sono comportamenti pertinenti ai gruppi sociali; reciprocamente, nel contesto della comunicazione sociale vengono acquisiti nello sviluppo individuale, per apprendimento dunque, dei comportamenti culturali, stabili attraverso le generazioni.

L'imitazione e la continua selezione comportamentale all'interno del grup­po rendono possibile lo stabilirsi dell'accoppiamento strutturale fra giovani e adulti, attraverso cui si genera un certo sviluppo individuale caratterizzato culturalmente (nell’ambito umano lo chiamiamo educazione). Tra i si­stemi sociali, caratterizzati da comportamenti comunicativi, quelli umani si distinguono perché entrano in gioco significati: le interazioni sono linguistiche.

I comportamenti comunicativi hanno un aspetto di coordinamento dei comportamenti; pro­prio per questo all'osservatore appaiono avere un significato e quindi egli può trattarne gli elementi come fossero parole di un linguaggio. Le parole possono riferirsi a oggetti, stati d'animo, intenzioni ecc., che fanno parte del dominio di intera­zione. Nel caso degli esseri umani si realizza un salto di livello logico: ricorsivamente, anche le parole entrano a far parte del dominio delle interazioni sociali. Solo attraverso questo passaggio la comunicazione diventa linguaggio e anche il si­stema dei significati (dominio semantico) diventa parte dell'ambiente in cui l'essere umano vive.

Dunque le manifestazioni della cultura umana, sopra a tutte il linguaggio oltre naturalmente all’educazione, sono fenomeni biologici. È per questo che l’autopoiesi mi fornisce uno sfondo interpretativo su cui proiettare i fenomeni educativi che osservo, ad esempio in un contesto di autoorganizzazione sociale di bambini.

Un’occasione per esplorare questo tema mi è stata offerta da una ludoteca il cui progetto educativo era di non far giocare i bambini, nel senso di non proporre, organizzare, dirigere il loro gioco, bensì di lasciare che giocassero come accadeva nei cortili di una volta (per l’idea che sta alla base del progetto della ludoteca l’Aquilone di Amelia (TR), nei suoi aspetti educativi e sociali, si veda: Cornacchia, 1998).

Il mio tentativo a questo punto è di trovare, nelle osservazioni fatte nel corso di una ricerca svolta in quel contesto (Monzio Compagnoni, 2000; Sala, 2004), elementi che caratterizzino la ludoteca come sistema vivente in termini di autopoiesi e, reciprocamente trovare, nel riferimento alla teoria dell’autopoiesi, chiavi di comprensione delle dinamiche educative. 

In una scienza dell’educazione, prima ancora di fornire possibili suggestioni per la gestione di strategie di intervento, il riferimento biologico apre uno sguardo sugli eventi educativi, illumina l’osservazione. Propongo alcuni elementi emersi durante la ricerca.

Metabolismo

Assumendo la cellula come sistema autopoietico di primo ordine, una delle domande dell’osservatore è: come funziona? Si tratta di descrivere fenomeni come la successione delle reazioni nelle catene biochimiche e soprattutto l'ordine gerarchico delle regolazioni enzimatiche. Stiamo parlando delle dinamiche delle tra­sformazioni biochimiche (metabolismo cellulare) che mantengono e reintegrano i materiali di cui la cellula è fatta e della loro organizzazione.

Se una ludoteca è un’unità autopoietica di terzo livello, come descrivere il suo “funzionamento”? Dal “diario di osservazione”:

-      Lea e Salvo parlano con Roberto [l'obiettore in servizio alla ludoteca].

-      Lea inizia a girare per il giardino.

-      Salvo la segue a distanza.

-      Lea si aggrappa a una rete di corda sospesa.

-      Salvo si aggrappa dalla parte opposta. Uno da una parte e una dall'altra la tirano alternativamente ciascu­no verso dì sé.

-      Salvo lascia la rete e girando per il giardino si imbatte in un badile. Comincia a scavare con il badile, poi lo depone e torna nei pressi di chi sta raccogliendo pinoli.

-      Arriva Dora e dà una voce a Chiara che la informa sul numero dei pinoli che ha raccolto.

-      Arriva Lisa e Chiara le va incontro e le comunica il numero di pinoli raccolti.

-      Lisa va all'interno e Chiara la segue.

-      Gregorio continua a cercare pinoli e a contarli ad alta voce.

-      Dopo una decina di minuti, Chiara esce e Gregorio le mostra il bicchiere con i pinoli.

-      Dora e Vanessa si avvicinano alla casetta e cominciano a interagire con i vari elementi (pneumatico so­speso, serie di pneumatici, scivolo, scala ecc.) e intanto parlano.

-      Arrivano alla casetta Chiara e Lisa.

-      Chiara e Dora si mettono a rompere pinoli sulla piattaforma della casetta e a mangiarli.

-      Vanessa lascia il pneumatico e si scambia di posto con Dora.

-      Massimiliano [l'educatore responsabile della ludoteca] esce in giardino e si imbatte in Salvo che gira solo, lo invita a giocare a pallone con lui. Si avviano verso il campetto e iniziano a tirarsi il pallone.

-      Poco dopo arrivano altri bambini e si uni­scono al gioco.

-      Nuccia compare da dentro la casetta; scende e va a vedere giocare a pallone.

-      Massimiliano lascia i bambini che continuano a giocare pallone.

-      Vanessa va alle corde pendenti e si mette a oscillare.

-      Gridando “Vengo anch’io” Dora segue Vanessa.

-      Arrivano alla casetta Romeo e Mauro, che cominciano a scendere dallo scivolo.

-      Nuccia torna alla casetta e si aggrega agli scivolatori.

-      Chiara lascia i pinoli e va alle corde pendenti, chiedendo a Roberto di spingerla.

-      Gregorio osserva gli scivolatori, ma continua a contare i pinoli.

-      Dopo un poco Gregorio va a recuperare la bicicletta dentro la casetta inferiore, ma senza abbandonare il bicchiere con i pinoli. Quando Massimiliano gli si avvicina, gli mostra i pinoli nei bicchiere.

Nel tentativo di riconoscere un ordine e un senso in questo “guazzabuglio” di azioni, avevamo trovato nella pratica teatrale qualche possibile organizzatore. Il termine “improvvisazione” si riferisce a una dimensione di continuità (“flusso”) fatta di azioni dell'attore, precise nella loro struttura fisica, che sono re-azioni ad altre azioni, proprie o altrui, e che, a loro volta, suscitano re-azioni; una continuità che mantiene il corpo in uno stato di attenzione vigile, aperto agli stimoli: ne risultano corpi che sembrano seguire una partitura tanto evidente quanto in-prevista (Barba, 1993). Anche in ludoteca avevamo l’impressione di una improvvisazione: i gruppi si componevano e si scomponevano; i giochi si costituivano, si dilatavano elasticamente, si suddividevano o si dissolveva­no; spazi, strutture e oggetti venivano investiti di intenzione e abbandonati; interazioni si intrecciavano e si sovrapponevano; il tutto come all'interno di un unico flusso soggetto a modulazioni ma che mai si interrompe­va.

In questo senso l'insieme dei soggetti in azione, o la dina­mica delle azioni dei soggetti appare un sistema autopoietico, un insieme di organismi in accoppiamento strutturale, che, nella continua trasformazione in reazione alle reciproche perturbazioni, mantiene la propria autonomia organizzativa, purché si intenda “organizzazione” come un fenomeno intrinseco alla struttura delle relazioni sistemiche e non come una disposizione ordinata di tempi, spazi, attività, ruoli, diretta dall’esterno.

Confine

Il metabolismo cellulare produce componenti che vanno a integrare la stessa rete che li ha prodotti: alcuni vanno a costituire un contorno, la membrana cellulare, che contiene l’organizzazione e garantisce l'identità spaziale della cellula.

Nella ludoteca c’è qualcosa che può essere utilmente (dal punto di vista educativo) ricondotta  a questa idea di confine?

-      Gregorio, appena entrato in ludoteca, inizia a girare con la propria bicicletta che si è portato da casa. Si ferma davanti alla casetta e issa con fatica la bicicletta sulla piattaforma inferiore.

-      Dalla casetta esce Nuccia, fa qualche giro in giardino, poi comincia a guardare in terra. Fa qualche passo poi raccoglie un pinolo, continua a camminare guardando in basso e ogni tanto raccoglie un pinolo.

-      Nuccia camminando si avvicina alla rete di recinzione della ludoteca, vede il cane dei vicini in strada e lo chiama.

-      Arriva Chiara, si avvicina a Nuccia e anche lei si rivolge al cane. Il cane si allontana. Nuccia e Chiara par­lano tra di loro, poi iniziano a camminare vicine cercando i pinoli a terra.

-      Si allontanano una dall'altra. Chiara: “Ne ho trovato un altro!". Stando distanti si tengono informate sullo sviluppo della ricerca.

-      Gregorio le osserva.

Un gioco poteva iniziare in modi diversi, e, una volta avviato, si poteva trasferire in luoghi diversi, poteva allargare o restringere la sua superficie d'azione; poteva anche occupare uno spazio fisicamente discon­tinuo, sovrapposto e intrecciato con spazi di altri giochi. La composizione del gruppo non era stabile: qualcuno poteva entrare e qualcuno uscire senza che il gioco perdesse la sua continuità.

Di fronte a questa estrema fluidità, era difficile comprendere la situazione dal punto di vista delle dinamiche autoorganiz­zative all'interno del flusso dell'improvvisazione; eppure, al di là degli spostamenti nello spazio, delle interruzioni nel tempo, delle modulazioni nell'azione, delle aggiunte, sottrazioni o variazioni di oggetti, e anche delle variazioni nella composizione del gruppo, era possibile percepire la continuità del gioco, la sua identità, la sua struttura, la sua natura di sistema carat­terizzato da una autonoma organizzazione: era dunque possibile identificare un “territorio del gioco”, un dentro e un fuori. I confini del territorio erano chiaramente percepiti dai bambini, che ne gestivano l'attraversamento:

-      I gemelli Enrico e Pietro stanno giocando sotto la "tenda canadese" di legno.

-      Gregorio vorrebbe uno dei tanti secchielli che i due hanno sotto la tenda, ma i gemelli non acconsentono. Gregorio inizia ad alterarsi.

-      Massimiliano [l'educatore] si affaccia all'imboccatura della tenda e chiede ai due se possono dare un sec­chiello a Gregorio La risposta è negativa e Pietro aggiunge che non possono giocare con Gregorio "per­ché stanno lavorando".

-      Massimiliano accompagna Gregorio a cercare un altro secchiello.

-      Gregorio torna alla “tenda” e, senza esplicitare verbalmente una richiesta di entrare nel gioco, di fatto si propone con i gesti e con gli oggetti (porta nuovi attrezzi); propriamente non “entra” nel gioco dei due, ma ne rimane “sulla soglia” (sta anche fisicamente sulla soglia della “tenda”).

-      Enrico dice a Pietro che non è possibile fare giocare Gregorio, Pietro dice invece che Gregorio può “lavorare” per loro.

-      Enrico dà indicazioni di lavoro a Gregorio che Gregorio esegue.

-      Enrico chiede esplicitamente a Gregorio di aiutarli a “lavorare”.

La domanda che si potrebbe porre è se anche un gioco può essere considerato un sistema, o almeno un processo, autopoietico dal momento che è soggetto a una dinamica di ristrutturazione che mantiene, attraverso i cambiamenti, una continuità e un’identità.

Autonomia

Abbiamo visto che in un sistema autopoietico i cambiamenti sono orientati al mantenimento della sua organizzazione, ovvero della sua identità. Questo rimanda al tema forse più importante dal punto di vista dell’educazione, quello dell’autonomia.

Il discorso vale innanzitutto per i sistemi autopoietici di secondo livello, ovvero per gli organismi individuali, per i quali vorrei mettere a fuoco qui l’aspetto dell’autonomia affettiva; purché si rispetti la premessa che non può esistere una “sfera” affettiva e relazionale separata da una “sfera” cognitiva e da una “biologica”. Ogni separazione sta non nella realtà, ma nel dominio cognitivo dell’osservatore che, nel contesto di un suo discorso, può trovare utile questa delimitazione di campo osservativo.

Nella ludoteca le relazioni affettive erano naturalmente fondamentali, purché non si faccia l’errore di ridurre l'affettività ai buoni sentimenti; per i bambini il gioco era qualcosa di molto più ampio e complesso: sperimentavano la re­lazione nelle sue forme variabili, anche conflittuali, con le relative ricadute emotive, anche dolorose, e la for­mazione dei sentimenti come costruzione di consapevolezza delle reazioni emotive che a quella sperimentazio­ne erano legate.

-      Alcune bambine più grandi dondolano sulle corde spinte da Roberto [l'obiettore]. A un certo punto si avvicina alle corde Nuccia (6 anni) che chiede “Posso salire anch’io?".

-      Iside e le altre glielo vietano.

-      Nuccia allora chiede a Roberto di poter satire anche lei.

-      Roberto propone di fare i turni.

-      A questo punto Iside e le sue amiche scendono dalle corde e si allontanano.

-      Nuccia le segue con lo sguardo.

-      Roberto le dice “Allora Nuccia, vuoi salire?”

-      Nuccia si gira, guarda Roberto, sale sulle corde, ma con lo sguardo continua a guardare le tre che si allon­tanano.

-      Si fa poi dondolare per un poco e poi scende e si allontana.

Era interessante osservare in quali modi Nuccia cercasse di perseguire lo scopo di farsi accettare in un gruppo di più grandi, prima attraverso un atteggiamento accattivante che ricono­sceva la superiorità altrui, poi cercando di “usare” anche l'adulto, poi rielaborando in solitudine la sconfitta.

La bambina costruiva una propria autonomia affettiva attraverso prove di questo genere, in cui poteva acquisire la capacità di accet­tare una frustrazione, ma anche imparare dall'esperienza a rendere più efficace la propria strategia. Questo senza l'intervento dell'adulto che tende a sottrarre il bambino alla prova prima ancora che abbia potuto mettere in campo le proprie risorse e misurarsi con il mondo. L'esperienza dell'insuccesso, del conflitto, del dolore, è altrettanto formativa quanto quella del suc­cesso, della cooperazione, del piacere, se avviene in condizioni in cui sia possibile mettersi alla prova.

Dal diario di osservazione ecco un esempio di conflitto autogestito:

-        Gregorio (4 anni), porta in ludoteca la sua bicicletta e l’appoggia all’ingresso mentre gioca a raccogliere i pinoli.

-        Romeo (7 anni) trova la bicicletta di Gregorio, vi sale e comincia a girare per il giardino.

-        Gregorio lo vede, gli grida qualcosa con aria adirata, ma poi torna a spaccare i pinoli.

-        Finito questo suo lavoro, inizia a seguire Romeo in modo minaccioso: vuole riavere la sua bicicletta.

-        Gregorio raggiunge Romeo, lo blocca e i due iniziano un’interazione verbale.

-        Gregorio ora non ha più un’aria adirata, anche se rimane serio e continua a seguire Romeo che nel frattempo è ripartito con la bici, ma non tenta né di fermarlo né di riprendersi la bici.

-        A un certo punto Romeo si ferma e scende dalla bicicletta.

-        Mauro (7 anni) tenta di salirci lui; Gregorio allora lancia uno strillo violento e Mauro gli lascia la bicicletta.

Sia che fosse presente l’adulto oppure no, nella ludoteca sembrava comunque essere rispettata una regola non esplicitata: il conflitto non deve superare i limiti oltre i quali il sistema andrebbe incontro a una alterazione irreversibile della sua integrità autoorganizzativa. Anche se prendeva forme culturali e sociali, come quelle della ritualizzazione, la regolazione sembrava rispondere a una legge “biologica” di sopravvivenza. Il fatto, apparentemente paradossale, che in presenza dell'adulto l’energia degli scontri sembrava essere più alta si può allora interpretare come una maggiore possibilità di resistenza alla disgregazione da parte del sistema quando comprendeva anche l'adulto.

Ciò che si notava nella ludoteca, dove ai bambini era intenzionalmente garantita un’autonomia, era una maggiore creatività nella gestione dei conflitti, cioè una maggiore libertà rispetto a schemi di comportamento determinati e ripetitivi, una flessibilità nel comportamento a seconda dell'interlocutore, una modulazione delle modalità di interazione, dei registri di comunicazione.

Il discorso di tipo educativo che di solito si fa a proposito di autonomia dei bambini per lo più riguarda il come rispettarla o contenerla, svilupparla o limitarla, e così via, dando per scontato cosa essa sia. Ma le forme dell’autonomia dei bambini appartengono al dominio delle interazioni di un sistema autopoietico con una propria identità prima che a quello delle descrizioni dell’osservatore. è chiaro che questa ipotesi comporta un modo diverso di porsi nella relazione educativa, come si vedrà più avanti.

Autonomia e “società dei bambini”

L’autonomia (affettiva, ma non solo) è riferibile anche a fenomenologie il cui soggetto può essere considerato il gruppo (sistema autopoietico di terzo livello).

Dinamiche relazionali e affettive sono essenziali nella organizzazione dei gruppi, ma a noi interessava cogliere, attraverso l’osservazione delle azioni e interazioni, l’identità del sistema nella sua fenomenologia, considerando la ricorsività che si manifesta nei diversi livelli di organizzazione autopoietica. Le differenze che osservavamo, nella risoluzione dei conflitti come nello sviluppo del flusso del gioco, quando non interveniva direttamente l’educatore adulto oppure proprio nell’interazione con lui, ci portavano a ritenere giustificata l’idea di una “società dei bambini” come sotto-sistema autoorganizzato della ludoteca.

Gli esempi più facili sono quelli delle reazioni difensive nei confronti di “intrusioni”:

- Arriva la “maestra di palla rilanciata”, come annunciato da un volantino affisso. Prende accordi con Massimiliano [l’educatore] che gira annunciando l'inizio dell'attività: invita i bambini "se vogliono" a parteciparvi.

-      Poco alla volta si raccoglie una decina di bambini.

-      Massimiliano presenta la maestra.

-      La maestra inizia a spiegare e a dare indicazioni.

-      Massimiliano si allontana.

-      I bambini ascoltano, ma il ritmo è lento, l’aria annoiata, i bambini non sembrano divertirsi molto.

-      Il gioco guidato prosegue. Qualche bambino si allontana, qualcuno si aggiunge.

-      Alcuni, in particolare Sante (10 anni), si muovono in parte seguendo le indicazioni, in parte prendendo iniziative proprie dentro lo spazio del gioco.

-      La maestra cerca di contenerli, alcuni bambini protestano al loro indirizzo, ma intanto il gioco prosegue.

-      La maestra fa lanciare la palla a turno da ogni bambino, chiedendogli prima come si chiama. Arriva il turno di una bambina che si chiama Nina, ma la maestra ripete “Mina”: i bambini si guardano e ridono; poi tutti insieme e in modo confuso urlano: “si chiama Nina”, e ridono.

-      La maestra fa ripetere il nome alla bambina ma capisce “Lina”; a questo punto i bambini si scatenano, urlano, ridono… gridano: “Non ha capito, non ha capito!”

-      La maestra li guarda piuttosto accigliata e solo con grande fatica riesce riportare l’ordine.

C’era una evidente complicità del gruppo dei bambini nel mettere in difficoltà una persona “estranea” utilizzando proprio la sua non conoscenza del contesto; era la classica dinamica psicologica del gruppo che si compatta contro l’estraneo nella difesa della propria identità, ma è interessante domandarsi, per comprendere che cosa sia l’identità di un gruppo, in che cosa consistesse questa estraneità da cui difendersi. A noi osservatori appariva come una differenza culturale; quel sistema sociale era individuato da una storia e da una cultura comune: l’insegnare qualcosa, il dirigere un gioco, era qualcosa di estraneo alla cultura “locale”, specifica della ludoteca, dove regola istitutiva era il rispetto dell’autonomia dei bambini nel gioco.  

Educazione e autonomia

Se un gruppo sociale di bambini in un contesto educativo può essere considerato un sistema autopoietico, la domanda “come si realizza l’accoppiamento strutturale tra un educatore e il sistema sociale dei bambini e quali ristrutturazioni reciproche ne conseguono?” diventa nel contesto della ludoteca “quali forme assume la relazione educativa in relazione all'autonomia dei bambini?”. Provo a introdurre elementi significativi attraverso alcuni esempi.

Da un’intervista all’educatore:

D - Ho notato una cosa sulla ritualizzazione: lo fai volontariamente o…? È evidente quella della accoglienza: quando arriva  un bambino, in qualunque momento, tu lo saluti per nome, in genere vai verso il cancello, lo saluti…

R - Si voglio vedere chi c’è, chi non c’è, un po' perché ho il terrore che sparisca qualcuno…

Il rito dell'accoglienza non era solo un atteggiamento sentimentale, aveva anche una funzione di controllo: pronunciare ad alta voce i nomi dei bambini che arrivavano serviva per tenere un registro mentale delle presenze. Questa considerazione non contraddice il significato affettivo del rito, di cui l’educatore si dimostrava perfettamente cosciente, ma suggerisce che separare i due aspetti sarebbe un’operazione dell'osservatore che non appartiene al dominio di interazioni del sistema. L’atteggiamento dell’educatore realizzava una presa in carico della situazione; era un “curarsi di”.

Le sfide quotidiane che i bambini lanciavano agli adulti erano perturbazioni che provocavano risposte sulla base delle quali veniva riaggiustato il dominio delle interazioni reciproche:

-       Gregorio (4 anni), appena arrivato in ludoteca, si avvia alla “tenda canadese” di legno su cui il giorno precedente è stato applicato un rivestimento di assi e un intonaco di fango.

-       Sono presenti la sorella Nuccia (6 anni) e Antonio (6 anni).

-       Gregorio manifesta le sue intenzioni di continuare la costruzione della casa.

-       Nuccia dice: “Gioca anche Antonio”.

-       Gregorio non vuole e sorge una disputa su chi debba essere il "capo del gioco".

-       Arriva Massimiliano e, rivolto a Gregorio: “Tu sei il capo del gioco, ma non si gioca con l’acqua”.

-       Gregorio inizia a protestare, Massimiliano: ”Adesso fa ancora freddo; più tardi quando c’è il sole…”

-       A gioco avviato, più volte Gregorio manifesta la volontà di prendere l’acqua e Massimiliano si oppone.

-       Quando il sole spunta dal tetto e illumina il giardino, dà il permesso.

Questo episodio è cruciale per leggere la relazione tra educatore e autonomia dei bambini. Massimiliano non entrava nel merito della organizzazione del gioco (l’uso da parte sua dell’espressione “capo del gioco” era segno di un rispetto per la cultura della “società dei bambini”). La sua autorità si esercitava su un altro dominio di interazione, là dove era lui “il capo”, dove erano in questione l’incolumità e la salute, che non rientrano nel campo della autonomia di bambini ancora piccoli, ma appartengono alla responsabilità dell’adulto.

L’essere referente affettivo è fondamentale nel rapporto con i bambini, ma un bambino può interagire con un adulto sulla base di quella che chiamiamo “fiducia” se l’adulto gli dà sicurezza; e dà sicurezza se dimostra forza. L’adultità nella relazione è chiamata in gioco soprattutto nelle funzioni di regolazione e contenimento, là dove il sistema autopoietico, sottoposto alle perturbazioni provenienti dal suo interno o dall’esterno, può non essere in grado di rispondere con ristrutturazioni adeguate e rischia di perdere la propria organizzazione, di disintegrarsi nella propria identità. È quello che sarebbe successo ad esempio se, a seguito di un conflitto, fosse diventata impossibile la convivenza nella ludoteca per qualcuno dei bambini.

L’educatore interveniva personalmente nella gestione dei conflitti soltanto quando valutava che essi sareb­bero stati distruttivi. La modalità dell'intervento privilegiava la dimensione corporea rispetto a quella verbale, mentre l'attenzione all'effetto concreto delle azioni era accompagnata da una tonalità relazionale che potevamo definire “leggerezza”. Questo dava sicurezza ai bambini, tanto quanto l’atteggiamento apparentemente opposto del non intervenire nella maggior parte dei conflitti, che l’educatore lasciava si risolvessero all’interno della “società dei bambini”. In entrambi i casi “proteggeva” il loro spazio di autonomia, rendendolo disponibile alla sperimentazione, e faceva loro attraversare un'esperienza anche se era fonte di disagio. Sono pro­prio le perturbazioni (la parola contiene la stessa radice di “turbare”) a innescare le ristrutturazioni, i cambiamenti, quelli che, con il nome di “apprendimenti”, sono oggetto dell'educazione.

D - Non intervieni sulle parolacce?

R - Sì, sulle bestemmie. Però, ad esempio, faccio molto finta di niente: se passo e uno dice una parolaccia, fac­cio finta di niente, nonostante io veda e senta tutto, però lavoro molto a non vedere e non sentire... perché vedere significherebbe riprendere,..

D - Perché non intervieni?

R - Perché penso faccia parte di un flusso e poi la cosa possa rientrare; se invece quella cosa è fuori dal flusso allora intervengo subito... lo lavoro molto a non impedire... molto spesso le parolacce di Iside sono fatte per “impedire” e io devo interrompere, devo intervenire... lo per l'ottanta per cento di quello che vedo e sento non intervengo, ma invece sento, e loro si stupiscono molto quando io arrivo...

Abbiamo visto da dove venga il termine"flusso", ma quello che vorrei sottolinea­re è che è pertinente al dominio di interazioni del sistema osservato, un termine che il sistema userebbe per descrivere se stesso.

Rispetto alla “società di bambini” l’educatore è un osservatore. Data la sua propria struttura cognitiva, corre il rischio di non comprendere il sistema e di conseguenza di non saper interagire con esso, se non utilizza le strutture cogni­tive che sono pertinenti alla struttura organizzativa del sistema stesso. Ecco perché il riferimen­to dell'educatore della ludoteca al “flusso” mi sembra cruciale per il suo rapporto con l'autonomia del bambini.

D - In che cosa consiste il tuo lavoro?

R - Nel creare un clima.

D - In che senso?

R - Nel senso che... a parte - diciamo - le cose pratiche, io mi do questa indicazione precisa: creare nel tempo un clima, in cui ogni bambino si possa… possa essere, tra virgolette, “libero” di organizzare ciò che vuo­te, di interagire con gli altri, di sentirsi in qualche modo anche lui libero lì dentro.

Se il bambino deve fare esperienza del mondo, l'educatore non può decidere per lui quali sen­timenti deve provare, ma lo protegge dagli effetti distruttivi che potrebbero avere.

La relazione tra l'azione dell'educatore e il gioco dei bambini nella ludoteca era complessa, ma­nifestava in modo inestricabile la co-presenza di due intenzionalità, due modalità di intervento. Per la prima, di nuovo cercando un linguaggio adeguato al dominio cognitivo del sistema, parlerei, più che di “rispettare la libertà” dei bambini, di “riconoscere il territorio del gioco", di “non inter­ferire nel flusso dell'improvvisazione”. Anche gli interventi di inserimento, di accompagnamento, si arre­stavano quando l'attenzione del bambino, rassicurato, si spostava dalla ricerca di relazione privilegiata con l'adulto al gioco e agli altri bambini.

La seconda intenzionalità potrebbe essere definita un condizionamento esterno, intendendo con questo la costruzione di condizioni che rendessero possibile l'autoorganizzazione del gioco dei bambini. Erano condizioni le regole, in gran parte implicite, che venivano esplicitate dall'educatore solo quando il flusso si interrompeva, altrimenti affidate a una ritualizzazione non enfatizzata; erano condizioni i limiti che egli poneva a garanzia della sicurezza e dell'incolumità; erano condizioni gli spazi, le strutture e gli oggetti, la cui manutenzione offriva ai bambini ambienti, possibilità e strumenti; ma soprattutto era condizione il clima com­plessivo, che era meno definibile ma non per questo meno concreto, meno percepibile o meno investibile di intenzioni. Tutto questo costituiva il setting pedagogico (Massa,  1997) di cui l'educatore si faceva garante e attivo costruttore.

 

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