Sommario: biologia e fenomeni socioculturali –
livelli di organizzazione dei sistemi e livelli di spiegazione - un contesto
educativo osservato come sistema autopoietico: metabolismo, confine,
autonomia – la “società dei bambini”: educazione e autonomia. Parole-chiave: autopoiesi,
improvvisazione, “territorio del gioco”, “società dei bambini”, relazione
educativa, accoglienza, responsabilità, autonomia, setting pedagogico. Che
cosa significa per un biologo “sistema vivente”? L’accento dovrebbe essere su
“sistema”, dal momento che diamo per scontato che il biologo si occupi della
vita; escludendone però ciò che si ritiene caratteristica specifica della
sola vita umana, oggetto della psicologia, della sociologia,
dell’antropologia, della storia... Ma è solo alla fine del Settecento che, nella Storia Naturale, dalla
classificazione ci si sposta verso l’anatomia, verso l’organismo come sistema di dipendenze funzionali interne
(Cuvier). Due secoli dopo, la teoria dell’autopioesi (Maturana –
Varela, 1980), alla domanda “che cosa è comune a tutti i
sistemi viventi?” risponde: l’essere un sistema organizzato capace di riprodurre, anche materialmente, la
propria organizzazione. Ma,
per occuparmi delle conseguenze che questa idea comporta, devo
problematizzare proprio ciò che all’inizio ho dato per scontato: perché un
biologo dovrebbe non occuparsi
degli umani? Già Linneo aveva classificato l’uomo
nell’ordine dei Primati, e Darwin, riferimento ineludibile per tutta la
biologia, ha scritto il seguito del suo testo principale occupandosi de
“l’origine dell’uomo” (Darwin, 1871): da quel momento l’uomo, con le sue
specificità, è compreso nella biologia e nell’evoluzione. Se poi
il biologo di mestiere fa l’insegnante e il formatore, in gioco sono due
significati di “sistema vivente”, caratterizzati dai diversi contesti del
discorso: da una parte la biologia, che si occupa, attraverso le somiglianze
e le differenze tra i viventi, delle generalità del fenomeno vita, nelle sue
relazioni e funzioni; dall’altra il sistema vivente umano, nella sua
specificità di organismo
individuale che apprende all’interno di sistemi simbolici e culturali nei
quali vivono le organizzazioni sociali.
Per un biologo “organismo” e “organizzazione” non sono metafore sociologiche
applicate alla biologia, né metafore biologiche applicate alla sociologia, ma
fenomeni oggetti di studio. E dunque nel mio caso vorrei specificare la
problematica così: per me, biologo e formatore, come entrano in relazione
certi significati di “sistema vivente” utilizzati in biologia con altri
significati utilizzati nelle scienze della formazione? Livelli di organizzazione e di
spiegazione Prima di proseguire però devo provare a
rispondere a una domanda legittima: perché far ricorso alla biologia per
qualcosa che ha a che fare con la cultura e quindi con lo specifico umano,
che è direttamente spiegato dalla psicologia o dalla sociologia? Non è questa
una forma di riduzionismo? Una prima risposta è che un principio
epistemologico che caratterizza la prassi della scienza induce a preferire
spiegazioni che utilizzano meno principi e “leggi” per campi più vasti di fenomeni.
So che ogni livello di organizzazione ha un suo pertinente livello di
spiegazione e che fare riferimento al livello sottostante significa entrare
in dettagli inutili fino all’insignificanza. Ciò non vuol dire però che la
realtà al livello superiore cessi di obbedire ai principi che regolano il livello
sottostante: ad esempio la gravità non solo opera sugli esseri viventi ma
condiziona le forme della loro organizzazione. Vuol dire anche che la
variazione quantitativa di qualche variabile può produrre differenze
qualitative perché esistono effetti di soglia (un esempio: dalle uova di alligatore nascono femmine se la
temperatura dell’incubazione si mantiene sotto i 29°, maschi se li supera). Perciò, laddove è pertinente, una
spiegazione che non esclude il livello sottostante, ma addirittura vi
si radica, è per me più efficace. Una seconda ragione ha a che fare con la
necessità di evitare l’errore di rappresentarsi una discontinuità
“ontologica” tra la natura umana e il resto del mondo vivente, che porta nel
vicolo cieco della conseguente contrapposizione tra natura e cultura, che ci
ha già fatto perdere un sacco di tempo e di energie, oltre a produrre danni
irreparabili nel rapporto tra umanità e “mondo naturale”. La scienza
evoluzionistica ha già mostrato ampiamente come la socialità, la
comunicazione e poi forme di cultura (comportamenti appresi e non trasmessi
per via genetica), addirittura di etica, siano già presenti negli animali
(Per la socialità e la comunicazione si veda: Wilson, 2012; per la cultura:
Cavalli Sforza, 2004; per l’etica: Bekoff – Pierce,
2009). Per Gregory Bateson
la discontinuità che interessa i sistemi viventi è tra il mondo della materia
e delle forze in cui il cambiamento è la reazione a un’azione (applicazione
di una forza) ed è calcolabile a partire dalle condizioni di partenza
conoscendo le leggi della fisica, e il mondo del vivente, che reagisce anche ai significati (l’esempio classico è un colpo dato a un cane
confrontato con un colpo dato a una palla) attraverso una catena di trasformazioni di differenze di
variabili, ovvero di informazioni
(Bateson,
1972). In questo quadro quella caratteristica degli
umani che è la rappresentazione
(con tutti suoi corollari, come l’autocoscienza, la finalità cosciente, la
progettazione...) è un sistema più sofisticato di reazione alle informazioni;
ma già l’organizzazione sociale delle formiche lo è: “... se un’operaia si
imbatte in una larva affamata nella camera della covata, le offrirà del cibo,
ma se la incontra altrove – a prescindere dal fatto che essa sia o meno
affamata - la riporta insieme alle altre nella nursery.” (Hölldobler – Wilson, 2009, pag. 31). Il comportamento
osservato nelle formiche ci appare consapevole e intenzionale, frutto di riflessione
e decisione, e questo naturalmente ci mette in seria difficoltà: non essendo
disposti ad ammettere un’
“intelligenza” elevata in organismi che hanno un cervello con circa 50.000
volte meno neuroni di quello umano, preferiamo ricorrere a spiegazioni
magico-spiritualistiche. In realtà
la difficoltà nasce dalle nostre premesse epistemologiche inadeguate, come la
proiezione su altri sistemi della finalità cosciente specifica degli
umani e l’ignoranza delle catene causali e del funzionamento dei dispositivi
biologici, che non ci permettere di riconoscere la loro adeguatezza a
produrre i processi necessari a sostenere funzioni “complesse”. Nel caso
delle formiche, nel cervello “non
vi è alcuna rappresentazione di un progetto dell’ordine sociale. Non esiste
un supervisore che esegua questo piano
generale nella propria testa, né una casta che agisca da ‘cervello’.
Piuttosto la vita della colonia è il prodotto dell’autoorganizzazione. Il
superorganismo esiste nelle singole risposte programmate degli organismi che
lo compongono. Le istruzioni di assemblaggio eseguite dagli organismi sono da
un lato gli algoritmi dello sviluppo che hanno dato luogo alle caste,
dall’altro gli algoritmi comportamentali, responsabili del comportamento
degli individui all’interno delle caste istante per istante.” (Hölldobler –
Wilson, 2009, pag. 32). Se vogliamo farci una ragione biologica, e
quindi materiale, degli “algoritmi” responsabili di un comportamento come quello descritto sopra, non possiamo
semplicemente credere a ciò che ci suggeriscono le nostre convinzioni, ovvero
i pregiudizi culturali assimilati con il latte materno o i biscotti del
Mulino Bianco, o le semplificazioni della “divulgazione”, che al Mulino Bianco
cercano di riportare le spiegazioni scientifiche; dobbiamo avere la pazienza,
l’umiltà forse, di studiare, o anche solo di leggere e capire, le 600 pagine
di Il superorganismo
(Hölldobler – Wilson, 2009), che riassume un mondo
enormemente più vasto di ricerche scientifiche. Se non ne abbiamo il tempo o
la disposizione, allora potremmo fermarci a un salutare dubbio o alle domande
che ci suggerisce il non sapere. Sistemi autopoietici, culturali, educativi E qui riprendo
l’autopoiesi. Un vivente è in grado di
rigenerare (anche, e prima di tutto, materialmente) le proprie parti in modo
che sia conservata la propria organizzazione (il sistema di relazioni
che connettono i componenti), che, reciprocamente, è ciò che rende possibile
l’attività auto-riproduttiva. Un vivente si identifica per la sua attività di
auto-produzione. Un nodo centrale di questa teoria è che i sistemi autopoietici
subordinano tutti i cambiamenti al mantenimento della propria organizzazione:
se la perdessero, cesserebbero di essere ciò che sono (perderebbero la loro
identità). Per mantenere la propria organizzazione, i viventi, di fronte a perturbazioni
che possono giungere dall’esterno o dall’interno, possono andare incontro a
dei cambiamenti della propria struttura (ciò che in questo momento
materialmente e individualmente costituisce la loro organizzazione). Ogni unità autopoietica ha un campo di
possibilità di azione e può modificare la propria struttura interagendo con un ambiente. L’organismo e il suo
ambiente si comportano come sorgenti reciproche di perturbazioni che innescano cambiamenti di
struttura (apprendimenti): Maturana e Varela chiamano questo processo continuo “accoppiamento
strutturale”. Nelle reciproche
interazioni, la perturbazione che dall'ambiente arriva all’organismo non
contiene già una determinazione di quali saranno i suoi effetti, ma è
l'essere vivente con la propria struttura che determina la forma, la direzione,
la modalità del proprio cambiamento in rapporto alla perturbazione. Dunque l'ambiente innesca
solamente i cambiamenti strutturali. Tutto ciò ha un
senso in educazione. Se la perturbazione che proviene dall’esterno innesca ma
non determina il cambiamento di un organismo e l’accoppiamento strutturale è
la possibilità di essere reciprocamente fonte di perturbazioni che innescano
cambiamenti, allora, in un contesto educativo, il contenuto del cambiamento
non sta nella formazione, ma nell'esito del processo di ristrutturazione del
soggetto che essa può mettere in moto (la forma e l’esito del processo
dipendono dall'identità, dalla storia del soggetto); educatore ed educandi
sono fonti di perturbazioni reciproche che provocano apprendimenti. Ma questo trasferimento dalla biologia all’educazione è una legittima
applicazione a un campo specifico o è solo una metafora (con tutti i limiti e
i rischi delle metafore)? Dunque, prima di procedere, provo a specificare la
domanda precedente: un gruppo di bambini che gioca è un sistema vivente, uno
specifico sistema autopoietico? In termini di sistemi, l’autopoiesi
si manifesta a livelli ricorsivi di organizzazione: le cellule sono
sistemi autopoietici di primo ordine e
i loro accoppiamenti strutturali rendono possibile l’organizzazione di
organismi pluricellulari (sistemi di secondo ordine) che reciprocamente costituiscono
l’ambiente di realizzazione dell’autopoiesi cellulare. Coordinazioni
comportamentali tra organismi, a partire da quelli riproduttivi e di cura
della prole, sono alla base dei gruppi sociali (sistemi di terzo ordine),
che reciprocamente sono l’ambiente necessario di vita degli organismi
individuali. Noi osservatori chiamiamo “comunicazione” la reciproca induzione di
comportamenti coordinati. Quelli comunicativi sono comportamenti pertinenti
ai gruppi sociali; reciprocamente, nel contesto della comunicazione sociale
vengono acquisiti nello sviluppo individuale, per apprendimento dunque, dei
comportamenti culturali,
stabili attraverso le generazioni. L'imitazione e la continua selezione comportamentale all'interno del
gruppo rendono possibile lo stabilirsi dell'accoppiamento strutturale fra
giovani e adulti, attraverso cui si genera un certo sviluppo individuale
caratterizzato culturalmente (nell’ambito umano lo chiamiamo educazione). Tra i sistemi sociali,
caratterizzati da comportamenti
comunicativi, quelli umani si distinguono perché entrano in gioco significati: le interazioni sono linguistiche.
I comportamenti comunicativi hanno un aspetto di coordinamento dei
comportamenti; proprio per questo
all'osservatore appaiono avere
un significato e
quindi egli può trattarne gli elementi come fossero parole di un linguaggio.
Le parole possono riferirsi a oggetti, stati d'animo, intenzioni ecc., che
fanno parte del dominio di interazione. Nel caso degli esseri umani si
realizza un salto di livello logico: ricorsivamente, anche le parole entrano a far parte del
dominio delle interazioni sociali. Solo attraverso questo passaggio la
comunicazione diventa linguaggio e anche il sistema dei significati (dominio
semantico) diventa parte dell'ambiente in cui l'essere umano vive. Dunque le manifestazioni della cultura
umana, sopra a tutte il linguaggio oltre naturalmente all’educazione, sono
fenomeni biologici. È per questo che l’autopoiesi mi fornisce uno sfondo
interpretativo su cui proiettare i fenomeni educativi che osservo, ad esempio
in un contesto di autoorganizzazione sociale di bambini. Un’occasione per
esplorare questo tema mi è stata offerta da una ludoteca il cui progetto
educativo era di non far giocare i bambini, nel senso di non
proporre, organizzare, dirigere il loro gioco, bensì di lasciare che
giocassero come accadeva nei cortili di una volta (per l’idea che sta alla
base del progetto della ludoteca l’Aquilone di Amelia (TR), nei suoi
aspetti educativi e sociali, si veda: Cornacchia, 1998). Il mio tentativo
a questo punto è di trovare, nelle osservazioni fatte nel corso di una
ricerca svolta in quel contesto (Monzio Compagnoni,
2000; Sala, 2004), elementi che caratterizzino la ludoteca come sistema
vivente in termini di autopoiesi e, reciprocamente trovare, nel riferimento
alla teoria dell’autopoiesi, chiavi di comprensione delle dinamiche
educative. In una scienza
dell’educazione, prima ancora di fornire possibili suggestioni per la gestione
di strategie di intervento, il riferimento biologico apre uno sguardo sugli
eventi educativi, illumina l’osservazione. Propongo alcuni elementi
emersi durante la ricerca. Metabolismo Assumendo la cellula come sistema autopoietico di primo ordine, una
delle domande dell’osservatore è: come
funziona? Si tratta di descrivere fenomeni come la successione
delle reazioni nelle catene biochimiche e soprattutto l'ordine gerarchico
delle regolazioni enzimatiche. Stiamo parlando delle dinamiche delle trasformazioni
biochimiche (metabolismo cellulare)
che mantengono e reintegrano i materiali di cui la cellula è fatta e
della loro organizzazione. Se una ludoteca è un’unità autopoietica di terzo livello, come
descrivere il suo “funzionamento”? Dal “diario di osservazione”: -
Lea e Salvo
parlano con Roberto [l'obiettore in servizio alla ludoteca]. -
Lea inizia a
girare per il giardino. -
Salvo la segue a
distanza. - Lea si aggrappa a una rete di corda sospesa. -
Salvo si
aggrappa dalla parte opposta. Uno da una parte e una dall'altra la tirano
alternativamente ciascuno verso dì sé. - Salvo lascia la rete e girando per il giardino si imbatte in un
badile. Comincia a scavare con il badile, poi lo depone e torna nei pressi di
chi sta raccogliendo pinoli. - Arriva Dora e dà una voce a Chiara che la informa sul numero dei
pinoli che ha raccolto. - Arriva Lisa e Chiara le va incontro e le
comunica il numero di pinoli raccolti. - Lisa va all'interno e Chiara la segue. - Gregorio continua a cercare pinoli e a contarli ad alta voce. - Dopo una decina di minuti, Chiara esce e Gregorio le mostra il
bicchiere con i pinoli. - Dora e Vanessa si avvicinano alla casetta e cominciano a interagire
con i vari elementi (pneumatico sospeso, serie di
pneumatici, scivolo, scala ecc.) e intanto parlano. - Arrivano alla casetta Chiara e Lisa. - Chiara e Dora si mettono a rompere pinoli sulla piattaforma della
casetta e a mangiarli. - Vanessa lascia il pneumatico e si scambia di posto con
Dora. - Massimiliano [l'educatore responsabile della ludoteca] esce in giardino e si
imbatte in Salvo che gira solo, lo invita a giocare a pallone con lui.
Si avviano verso il campetto e iniziano
a tirarsi il pallone. - Poco dopo arrivano altri bambini e si uniscono al gioco. - Nuccia compare da dentro la casetta; scende e va a vedere giocare a pallone. - Massimiliano lascia i bambini che continuano a giocare pallone. - Vanessa va alle corde pendenti e si mette a oscillare. - Gridando “Vengo anch’io” Dora segue Vanessa. - Arrivano alla casetta Romeo e Mauro, che cominciano a scendere dallo scivolo. - Nuccia torna alla casetta e si aggrega agli scivolatori. - Chiara lascia i pinoli e va alle corde pendenti, chiedendo a Roberto di spingerla. - Gregorio osserva gli scivolatori, ma
continua a contare i pinoli. - Dopo un poco Gregorio va a recuperare la bicicletta dentro la casetta
inferiore, ma senza abbandonare il bicchiere con i pinoli. Quando
Massimiliano gli si avvicina, gli mostra i
pinoli nei bicchiere. Nel tentativo di riconoscere un ordine e un senso in questo
“guazzabuglio” di azioni, avevamo trovato nella pratica teatrale qualche
possibile organizzatore. Il termine “improvvisazione” si riferisce a
una dimensione di continuità (“flusso”) fatta di azioni dell'attore, precise
nella loro struttura fisica, che sono re-azioni ad altre azioni, proprie o
altrui, e che, a loro volta,
suscitano re-azioni; una continuità che mantiene il corpo in uno stato di
attenzione vigile, aperto agli stimoli: ne risultano corpi che sembrano
seguire una partitura tanto evidente quanto in-prevista (Barba, 1993). Anche in ludoteca avevamo
l’impressione di una improvvisazione: i gruppi si componevano e si
scomponevano; i giochi si costituivano, si dilatavano elasticamente, si
suddividevano o si dissolvevano; spazi, strutture e oggetti venivano
investiti di intenzione e abbandonati; interazioni si intrecciavano e si
sovrapponevano; il tutto come all'interno di un unico flusso soggetto a modulazioni ma che mai si interrompeva. In questo senso l'insieme dei soggetti in azione, o la dinamica delle azioni dei soggetti appare un sistema
autopoietico, un insieme
di organismi in accoppiamento strutturale, che, nella continua
trasformazione in reazione alle reciproche perturbazioni, mantiene la
propria autonomia organizzativa,
purché si intenda “organizzazione” come un fenomeno intrinseco alla struttura
delle relazioni sistemiche e non come una
disposizione ordinata di tempi, spazi, attività, ruoli, diretta
dall’esterno. Confine Il metabolismo cellulare produce componenti che vanno a integrare la
stessa rete che li ha
prodotti: alcuni vanno a costituire un contorno, la membrana cellulare, che
contiene l’organizzazione e garantisce l'identità spaziale della cellula. -
Gregorio,
appena entrato in ludoteca, inizia a girare con la propria bicicletta che si
è portato da casa. Si ferma davanti alla casetta e issa con fatica la
bicicletta sulla piattaforma inferiore. -
Dalla casetta esce Nuccia, fa qualche giro in giardino,
poi comincia a guardare in terra. Fa qualche passo poi
raccoglie un pinolo, continua a camminare guardando in basso e ogni tanto
raccoglie un pinolo. -
Nuccia camminando si avvicina alla rete di recinzione
della ludoteca, vede il cane dei vicini in strada e lo chiama. -
Arriva Chiara, si avvicina a Nuccia e anche lei si
rivolge al cane. Il cane si allontana. Nuccia e Chiara parlano
tra di loro, poi iniziano a camminare vicine cercando i pinoli a terra. -
Si allontanano una dall'altra. Chiara: “Ne ho trovato un
altro!". Stando distanti si tengono informate sullo sviluppo della ricerca. -
Gregorio le osserva. Un gioco poteva iniziare in modi diversi, e, una volta avviato, si poteva trasferire in luoghi
diversi, poteva allargare o
restringere la sua superficie d'azione; poteva anche occupare uno spazio
fisicamente discontinuo, sovrapposto e
intrecciato con spazi di altri giochi. La composizione del gruppo non era stabile: qualcuno poteva entrare e qualcuno uscire senza che
il gioco perdesse la sua continuità. Di fronte a questa estrema fluidità, era difficile
comprendere la situazione dal punto di vista delle dinamiche autoorganizzative all'interno del flusso dell'improvvisazione; eppure, al di là degli spostamenti nello spazio, delle
interruzioni nel tempo, delle modulazioni
nell'azione, delle aggiunte, sottrazioni o variazioni di oggetti, e anche
delle variazioni nella composizione del gruppo, era possibile percepire
la continuità del gioco, la sua
identità, la sua struttura, la sua natura di sistema caratterizzato da una autonoma organizzazione: era dunque
possibile identificare un “territorio del gioco”, un dentro e un fuori. I confini del
territorio erano chiaramente percepiti dai bambini, che ne gestivano
l'attraversamento: -
I gemelli
Enrico e Pietro stanno
giocando sotto la "tenda canadese" di legno. -
Gregorio vorrebbe uno dei tanti secchielli che i due
hanno sotto la tenda, ma i gemelli non acconsentono. Gregorio inizia ad
alterarsi. -
Massimiliano [l'educatore] si affaccia all'imboccatura della tenda e chiede ai
due se possono dare un secchiello a Gregorio La
risposta è negativa e Pietro aggiunge che non possono giocare con Gregorio
"perché stanno lavorando". -
Massimiliano
accompagna Gregorio a cercare un altro secchiello. -
Gregorio torna alla “tenda” e, senza
esplicitare verbalmente una richiesta di entrare nel gioco, di fatto si
propone con i gesti e con gli oggetti (porta nuovi attrezzi); propriamente
non “entra” nel gioco dei due, ma ne rimane “sulla soglia” (sta anche
fisicamente sulla soglia della “tenda”). -
Enrico dice a Pietro che non è possibile
fare giocare Gregorio, Pietro dice invece che Gregorio può “lavorare” per
loro. - Enrico dà indicazioni di lavoro a Gregorio che
Gregorio esegue. -
Enrico
chiede esplicitamente a Gregorio di aiutarli a “lavorare”. La domanda che si potrebbe porre è se anche
un gioco può essere considerato un sistema, o
almeno un processo, autopoietico
dal momento che è soggetto a una dinamica di ristrutturazione che
mantiene, attraverso i cambiamenti, una continuità e un’identità. Autonomia Abbiamo visto che
in un sistema autopoietico i cambiamenti sono orientati al
mantenimento della sua organizzazione, ovvero della sua identità. Questo
rimanda al tema forse più importante dal punto di vista dell’educazione,
quello dell’autonomia. Il discorso vale
innanzitutto per i sistemi autopoietici di secondo livello, ovvero per gli
organismi individuali, per i quali vorrei mettere a fuoco qui l’aspetto dell’autonomia
affettiva; purché si rispetti la premessa che non può esistere una “sfera” affettiva e relazionale separata da
una “sfera” cognitiva e da una “biologica”. Ogni separazione sta non nella
realtà, ma nel dominio cognitivo dell’osservatore che, nel contesto di un suo
discorso, può trovare utile questa delimitazione di campo osservativo. Nella ludoteca le relazioni affettive erano
naturalmente fondamentali, purché non si faccia l’errore di ridurre
l'affettività ai buoni sentimenti; per i bambini il gioco era qualcosa di
molto più ampio e complesso: sperimentavano la relazione nelle sue forme variabili, anche conflittuali,
con le relative ricadute emotive, anche dolorose, e la formazione dei sentimenti come costruzione di
consapevolezza delle reazioni emotive che a quella sperimentazione erano legate. - Alcune bambine più grandi dondolano sulle corde spinte
da Roberto [l'obiettore]. A un certo punto si avvicina alle corde Nuccia (6
anni) che chiede “Posso salire anch’io?". - Iside e le altre
glielo vietano. - Nuccia allora chiede a Roberto di poter satire anche
lei. - Roberto
propone di fare i turni. - A questo punto Iside e le sue amiche scendono dalle
corde e si allontanano. - Nuccia le segue con lo sguardo. - Roberto
le dice “Allora Nuccia, vuoi salire?” - Nuccia
si gira, guarda Roberto, sale sulle corde, ma con lo sguardo continua a guardare
le tre che si allontanano. - Si
fa poi dondolare per un poco e poi scende e si allontana. Era
interessante osservare in quali modi
Nuccia cercasse di perseguire lo scopo di farsi accettare in un
gruppo di più grandi, prima attraverso un atteggiamento accattivante che
riconosceva la superiorità altrui, poi cercando di “usare” anche l'adulto,
poi rielaborando in solitudine la sconfitta. La
bambina costruiva una propria autonomia affettiva attraverso prove di questo
genere, in cui poteva acquisire la capacità di accettare una frustrazione, ma
anche imparare dall'esperienza
a rendere più efficace la propria strategia. Questo senza l'intervento dell'adulto che tende a sottrarre il bambino
alla prova prima ancora che abbia potuto mettere in campo le proprie risorse e
misurarsi con il mondo. L'esperienza dell'insuccesso, del conflitto, del dolore,
è altrettanto formativa quanto quella del successo, della cooperazione, del
piacere, se avviene in condizioni in cui sia possibile mettersi alla prova. Dal diario di osservazione ecco un esempio di conflitto autogestito: -
Gregorio (4 anni), porta in ludoteca la sua bicicletta e l’appoggia
all’ingresso mentre gioca a raccogliere i pinoli. -
Romeo (7 anni) trova la bicicletta di Gregorio, vi sale e comincia a
girare per il giardino. -
Gregorio lo vede, gli grida qualcosa con aria adirata, ma poi torna a
spaccare i pinoli. -
Finito questo suo lavoro, inizia a seguire Romeo in modo minaccioso:
vuole riavere la sua bicicletta. -
Gregorio raggiunge Romeo, lo blocca e i due iniziano un’interazione
verbale. -
Gregorio ora non ha più un’aria adirata, anche se rimane serio e
continua a seguire Romeo che nel frattempo è ripartito con la bici, ma non
tenta né di fermarlo né di riprendersi la bici. -
A un certo punto Romeo si ferma e scende dalla bicicletta. -
Mauro (7 anni) tenta di salirci lui; Gregorio allora lancia uno
strillo violento e Mauro gli lascia la bicicletta. Sia che fosse presente l’adulto oppure no,
nella ludoteca sembrava comunque essere rispettata una regola non
esplicitata: il conflitto non deve superare i limiti oltre i quali il sistema
andrebbe incontro a una alterazione irreversibile della sua integrità autoorganizzativa. Anche se prendeva forme culturali e sociali,
come quelle della ritualizzazione, la regolazione sembrava rispondere a una
legge “biologica” di sopravvivenza. Il fatto, apparentemente paradossale, che
in presenza dell'adulto l’energia degli scontri sembrava essere più alta si
può allora interpretare come una maggiore possibilità di resistenza alla
disgregazione da parte del sistema quando comprendeva anche l'adulto. Ciò che si notava nella ludoteca, dove ai bambini era intenzionalmente
garantita un’autonomia, era una maggiore creatività nella gestione dei
conflitti, cioè una maggiore libertà rispetto a schemi di comportamento
determinati e ripetitivi, una flessibilità nel comportamento a seconda
dell'interlocutore, una modulazione delle modalità di interazione, dei
registri di comunicazione. Il discorso di tipo educativo che
di solito si fa a proposito di autonomia dei bambini per lo più riguarda il
come rispettarla o contenerla, svilupparla o limitarla, e così via, dando per
scontato cosa essa sia. Ma le
forme dell’autonomia dei bambini appartengono al dominio delle interazioni di un sistema autopoietico con una propria identità prima che a quello delle descrizioni dell’osservatore.
è chiaro che questa ipotesi
comporta un modo diverso di porsi nella relazione educativa, come si vedrà
più avanti. Autonomia e “società dei bambini” L’autonomia (affettiva, ma non solo) è
riferibile anche a fenomenologie il cui soggetto può essere considerato il
gruppo (sistema autopoietico di terzo livello). Dinamiche relazionali e affettive sono
essenziali nella organizzazione dei gruppi, ma a noi interessava cogliere,
attraverso l’osservazione delle azioni e interazioni, l’identità del sistema
nella sua fenomenologia, considerando la ricorsività che si manifesta nei diversi
livelli di organizzazione autopoietica. Le differenze che osservavamo, nella
risoluzione dei conflitti come nello sviluppo del flusso del gioco, quando
non interveniva direttamente l’educatore adulto oppure proprio
nell’interazione con lui, ci portavano a ritenere giustificata l’idea di una “società
dei bambini” come sotto-sistema autoorganizzato
della ludoteca. Gli esempi più facili sono quelli delle
reazioni difensive nei confronti di “intrusioni”: - Arriva la “maestra di palla rilanciata”,
come annunciato da un volantino affisso. Prende accordi con Massimiliano [l’educatore] che gira annunciando l'inizio
dell'attività: invita i bambini "se vogliono" a parteciparvi. -
Poco alla volta si raccoglie una decina di
bambini. -
Massimiliano presenta la maestra. -
La maestra inizia a spiegare e a dare
indicazioni. -
Massimiliano si allontana. -
I bambini ascoltano, ma il ritmo è lento,
l’aria annoiata, i bambini non sembrano divertirsi molto. -
Il gioco guidato prosegue. Qualche bambino
si allontana, qualcuno si aggiunge. -
Alcuni, in particolare Sante (10 anni), si
muovono in parte seguendo le indicazioni, in parte prendendo iniziative
proprie dentro lo spazio del gioco. -
La maestra cerca di contenerli, alcuni
bambini protestano al loro indirizzo, ma intanto il gioco prosegue. -
La maestra fa lanciare la palla a turno da
ogni bambino, chiedendogli prima come si chiama. Arriva il turno di una
bambina che si chiama Nina, ma la maestra ripete “Mina”: i bambini si
guardano e ridono; poi tutti insieme e in modo confuso urlano: “si chiama
Nina”, e ridono. -
La maestra fa ripetere il nome alla bambina
ma capisce “Lina”; a questo punto i bambini si scatenano, urlano, ridono…
gridano: “Non ha capito, non ha capito!” - La
maestra li guarda piuttosto accigliata e solo con grande fatica riesce
riportare l’ordine. C’era una evidente
complicità del gruppo dei bambini nel mettere in difficoltà una persona
“estranea” utilizzando proprio la sua non conoscenza del contesto; era la
classica dinamica psicologica del gruppo che si compatta contro l’estraneo
nella difesa della propria identità, ma è interessante domandarsi, per
comprendere che cosa sia l’identità di un gruppo, in che cosa consistesse
questa estraneità da cui difendersi. A noi osservatori appariva come una
differenza culturale; quel sistema sociale era individuato da una storia e da
una cultura comune: l’insegnare qualcosa, il dirigere un gioco, era
qualcosa di estraneo alla cultura “locale”, specifica della ludoteca, dove
regola istitutiva era il rispetto dell’autonomia dei bambini nel gioco. Educazione e
autonomia Se un gruppo sociale di bambini in un
contesto educativo può essere considerato un sistema autopoietico, la domanda
“come si realizza l’accoppiamento strutturale tra un educatore e il
sistema sociale dei bambini e quali ristrutturazioni reciproche ne
conseguono?” diventa nel contesto della ludoteca “quali forme assume la
relazione educativa in relazione all'autonomia dei bambini?”. Provo a
introdurre elementi significativi attraverso alcuni esempi. Da un’intervista
all’educatore: D - Ho notato una cosa sulla
ritualizzazione: lo fai volontariamente o…? È evidente quella della
accoglienza: quando arriva un bambino,
in qualunque momento, tu lo saluti per nome, in genere vai verso il cancello,
lo saluti… R - Si voglio vedere chi c’è, chi non c’è,
un po' perché ho il terrore che sparisca qualcuno… Il rito
dell'accoglienza non era solo un atteggiamento sentimentale, aveva anche una
funzione di controllo: pronunciare ad alta voce i nomi dei bambini che
arrivavano serviva per tenere un registro mentale delle presenze. Questa
considerazione non contraddice il significato affettivo del rito, di cui
l’educatore si dimostrava perfettamente cosciente, ma suggerisce che separare
i due aspetti sarebbe un’operazione dell'osservatore che non appartiene al dominio
di interazioni del sistema. L’atteggiamento dell’educatore realizzava una
presa in carico della situazione; era un “curarsi di”. Le sfide
quotidiane che i bambini lanciavano agli adulti erano perturbazioni che
provocavano risposte sulla base delle quali veniva riaggiustato il dominio
delle interazioni reciproche: -
Gregorio (4 anni), appena arrivato in ludoteca, si avvia alla “tenda
canadese” di legno su cui il giorno precedente è stato applicato un
rivestimento di assi e un intonaco di fango. -
Sono presenti la sorella Nuccia (6 anni) e Antonio (6 anni). -
Gregorio manifesta le sue intenzioni di continuare la costruzione della
casa. -
Nuccia dice: “Gioca anche Antonio”. -
Gregorio non vuole e sorge una disputa su chi debba essere il "capo
del gioco". -
Arriva Massimiliano e, rivolto a Gregorio: “Tu sei il capo del gioco,
ma non si gioca con l’acqua”. -
Gregorio inizia a protestare, Massimiliano: ”Adesso fa ancora freddo;
più tardi quando c’è il sole…” -
A gioco avviato, più volte Gregorio manifesta la volontà di prendere
l’acqua e Massimiliano si oppone. -
Quando il sole spunta dal tetto e illumina il giardino, dà il permesso.
Questo episodio è
cruciale per leggere la relazione tra educatore e autonomia dei bambini.
Massimiliano non entrava nel merito della organizzazione del gioco (l’uso da
parte sua dell’espressione “capo del gioco” era segno di un rispetto per la
cultura della “società dei bambini”). La sua autorità si esercitava su un
altro dominio di interazione, là dove era lui “il capo”, dove erano in
questione l’incolumità e la salute, che non rientrano nel campo della autonomia
di bambini ancora piccoli, ma appartengono alla responsabilità dell’adulto. L’essere
referente affettivo è fondamentale nel rapporto con i bambini, ma un bambino
può interagire con un adulto sulla base di quella che chiamiamo “fiducia” se
l’adulto gli dà sicurezza; e dà sicurezza se dimostra forza. L’adultità nella relazione è chiamata in gioco soprattutto
nelle funzioni di regolazione e contenimento, là dove il sistema
autopoietico, sottoposto alle perturbazioni provenienti dal suo interno o
dall’esterno, può non essere in grado di rispondere con ristrutturazioni
adeguate e rischia di perdere la propria organizzazione, di disintegrarsi
nella propria identità. È quello che sarebbe successo ad esempio se, a
seguito di un conflitto, fosse diventata impossibile la convivenza nella
ludoteca per qualcuno dei bambini. L’educatore
interveniva personalmente nella gestione dei conflitti soltanto quando
valutava che essi sarebbero stati distruttivi. La modalità dell'intervento
privilegiava la dimensione corporea rispetto a quella verbale, mentre
l'attenzione all'effetto concreto delle azioni era accompagnata da una
tonalità relazionale che potevamo definire “leggerezza”. Questo dava sicurezza
ai bambini, tanto quanto l’atteggiamento apparentemente opposto del non
intervenire nella maggior parte dei conflitti, che l’educatore lasciava si
risolvessero all’interno della “società dei bambini”. In entrambi i casi
“proteggeva” il loro spazio di autonomia, rendendolo disponibile alla
sperimentazione, e faceva loro attraversare un'esperienza anche se era fonte
di disagio. Sono proprio le perturbazioni (la parola contiene la
stessa radice di “turbare”) a innescare le ristrutturazioni, i cambiamenti,
quelli che, con il nome di “apprendimenti”, sono oggetto dell'educazione. D - Non intervieni sulle parolacce? R - Sì, sulle bestemmie. Però, ad esempio,
faccio molto finta di niente: se passo e uno dice una parolaccia, faccio
finta di niente, nonostante io veda e senta tutto, però lavoro molto a non
vedere e non sentire... perché vedere significherebbe riprendere,.. D - Perché non intervieni? R - Perché penso faccia parte di un flusso e
poi la cosa possa rientrare; se invece quella cosa è fuori dal flusso allora
intervengo subito... lo lavoro molto a non impedire... molto spesso le
parolacce di Iside sono fatte per “impedire” e io devo interrompere, devo
intervenire... lo per l'ottanta per cento di quello che vedo e sento non
intervengo, ma invece sento, e loro si stupiscono molto quando io arrivo... Abbiamo visto da
dove venga il termine"flusso", ma quello che vorrei sottolineare
è che è pertinente al dominio di interazioni del sistema osservato, un
termine che il sistema userebbe per descrivere se stesso. Rispetto alla
“società di bambini” l’educatore è un osservatore. Data la sua propria struttura
cognitiva, corre il rischio di non comprendere il sistema e di conseguenza di
non saper interagire con esso, se non utilizza le strutture cognitive che
sono pertinenti alla struttura organizzativa del sistema stesso. Ecco
perché il riferimento dell'educatore della ludoteca al “flusso” mi sembra
cruciale per il suo rapporto con l'autonomia del bambini. D - In che cosa consiste il tuo lavoro? R - Nel creare un clima. D - In che senso? R - Nel senso che... a parte - diciamo - le
cose pratiche, io mi do questa indicazione precisa: creare nel tempo un
clima, in cui ogni bambino si possa… possa essere, tra virgolette, “libero”
di organizzare ciò che vuote, di interagire con gli altri, di sentirsi in
qualche modo anche lui libero lì dentro. Se il bambino
deve fare esperienza del mondo, l'educatore non può decidere per lui quali
sentimenti deve provare, ma lo protegge dagli effetti distruttivi che
potrebbero avere. La relazione tra
l'azione dell'educatore e il gioco dei bambini nella ludoteca era complessa,
manifestava in modo inestricabile la co-presenza di due intenzionalità, due
modalità di intervento. Per la prima, di nuovo cercando un linguaggio
adeguato al dominio cognitivo del sistema, parlerei, più che di “rispettare
la libertà” dei bambini, di “riconoscere il territorio del gioco", di
“non interferire nel flusso dell'improvvisazione”. Anche gli interventi di
inserimento, di accompagnamento, si arrestavano quando l'attenzione del
bambino, rassicurato, si spostava dalla ricerca di relazione
privilegiata con l'adulto al gioco e agli altri bambini. La seconda
intenzionalità potrebbe essere definita un condizionamento esterno,
intendendo con questo la costruzione di condizioni che rendessero
possibile l'autoorganizzazione del gioco dei bambini. Erano condizioni le
regole, in gran parte implicite, che venivano esplicitate dall'educatore solo
quando il flusso si interrompeva, altrimenti affidate a una ritualizzazione
non enfatizzata; erano condizioni i limiti che egli poneva a garanzia della
sicurezza e dell'incolumità; erano condizioni gli spazi, le strutture e gli
oggetti, la cui manutenzione offriva ai bambini ambienti, possibilità e
strumenti; ma soprattutto era condizione il clima complessivo, che
era meno definibile ma non per questo meno concreto, meno percepibile o meno
investibile di intenzioni. Tutto questo costituiva il setting
pedagogico (Massa,
1997) di cui l'educatore
si faceva garante e attivo costruttore. BIBLIOGRAFIA Barba Eugenio, 1993, La canoa di carta, Il
Mulino, Bologna. Bateson Gregory, 1972, ed. it. Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 2000. Bekoff Marc – Pierce Jessica, 2009, Giustizia
selvaggia. La vita morale degli animali, ed. it.
Badini Castoldi Dalai,
Milano 2010. Cavalli Sforza Luigi Luca, 2004, L’evoluzione della cultura, Codice,
Torino. Cornacchia Stefania, 1998, Vecchi cortili,
in Cooperazione Educativa n.
2/1998, La Nuova Italia Firenze. Darwin Charles, 1871, L’origine
dell’uomo e la selezione sessuale, ed. it. Newton Compton, Roma 2006 Hölldobler Bert – Wilson Edward O., 2009, ed.
it. Il superorganismo, Adelphi, Milano
2011. Massa Riccardo, 1997, Cambiare
la scuola, Laterza, Roma-Bari Maturana Humberto – Varela
Francisco, 1980, ed. it. Autopoiesi e cognizione, Marsilio, Venezia 1985. Monzio Compagnoni Giuliana, 2000, Autoorganizzazione
dei bambini e relazione educativa in una ludoteca, tesi di laurea
(relatrice Prof.sa Anna Rezzara) presso l’Istituto
di Pedagogia dell’Università degli Studi di Milano. Sala Marcello, 2004, L’arte di
(non) insegnare, Change, Torino. Sala Marcello, 2009, Incertezza
e arte di (non) insegnare, in Riflessioni
Sistemiche, AIEMS n. 1. Sala Marcello, 2012, Il
prendersi cura nel dispositivo formativo, in Riflessioni Sistemiche, AIEMS n. 7. Wilson Edward O.,
2012, ed. it. La conquista
sociale della Terra, Cortina, Milano 2013. |