Marcello Sala

PERICOLI E RISORSE DI

UNA PEDAGOGIA DELLA SCOPERTA

-pubblicato in-

INSEGNARE

n. 4 / 2007

Editoriale CIID

 

In molte scuole, soprattutto dell’infanzia ed elementari, si realizzano pratiche di educazione scientifica, o pre-scientifica, che mettono al centro la scoperta. Questo è certamente fonte di soddisfazione per chi ha a cuore uno sviluppo della conoscenza dei bambini e anche della conoscenza scientifica. Ma, a mio avviso, chi pratica una pedagogia della scoperta corre anche dei pericoli, proprio per la qualità specifica del lavoro che fa.

In cosa consiste questa qualità? Quello che osservo è che le insegnanti si occupano dell’apprendimento dei bambini e che però non proiettano sui bambini piccoli il modello dominante dell’insegnamento nella nostra cultura: la “lezione”. La lezione è trasferimento di informazioni da chi le sa a chi non le sa. Oggi non è più vero che la scuola, l’insegnante o il libro di testo sono la fonte (l’unica) delle informazioni, scientifiche nel nostro caso; quindi mi pare una saggia scelta non fare lezione.

Ma che cosa fa allora l’educatore che “non insegna”? Nella mia idea diventa la persona che “perturba” i sistemi cognitivi dei bambini; così innesca i loro processi di apprendimento, ma non ne determina la forma [1].

Ed è la persona che ascolta, tanto da poter raccontare la storia di quel processo. Le storie non si possono scrivere prima che accadano. Lavorare sullo “sfondo integratore” vuol dire istituire le condizioni che permettono ai bambini di vivere la storia del proprio apprendimento costruendolo attivamente.

La cultura psicologica che ormai è di casa nella scuola insiste sul soggetto e ci ha portato a sopravvalutare la dimensione affettiva come contesto motivante. Così succede che per inseguire le motivazioni soggettive si finisce per non utilizzare le motivazioni intrinseche della conoscenza, che riguardano il rapporto tra soggetto e oggetto (a questo ci si riferisce quando si parla de “il piacere della scoperta”).

Nell’apprendimento, oggettivo e soggettivo, intelletto e affettività non si possono separare se non nelle nostre rappresentazioni (e già il fatto che usiamo termini separati e che separano ci mette su una cattiva strada). Nel caso della scoperta ciò è particolarmente evidente:

[...] i professori sostituiscono le scoperte con delle lezioni. Una scoperta oggettiva è immediatamente una rettificazione soggettiva: io mi modifico se l’oggetto mi istruisce.

È una citazione di un grande epistemologo del Novecento (che ha fatto anche esperienza di insegnamento): Gaston Bachelard. Lo sto proponendo perché la sua lettura mi è parsa stimolante per l’esercizio di un pensiero critico che è il più profondo contributo della scienza alla storia della cultura.

E poi mi piace mettere a contatto il mondo dei bambini con quello dei grandi pensatori e degli scienziati, facendo fare un passo indietro agli insegnanti, che in questo rapporto si mettono di mezzo come mediatori. A volte, a mettersi in mezzo, si finisce per essere d’intralcio.

Bachelard tratta del passaggio da quello che chiama lo spirito pre-scientifico a quello scientifico, un passaggio che è avvenuto nella storia della nostra cultura, ma che in qualche modo si ripete nella storia dei bambini nel loro percorso di inculturazione.

Apro una parentesi sul termine “scientifico”: esso designa qualcosa che sta nella “mappa” e non nel “territorio”, ovvero nella organizzazione della nostra cultura e non nel rapporto di conoscenza del mondo da parte dei bambini, che più piccoli sono e meno si pongono limiti di aree disciplinari. Noi però possiamo costruire le premesse e riconoscere i precursori dello sviluppo di un pensiero che diventerà “scientifico” dandosi delle forme e dei confini sempre più specifici.

Ma perché parlo di pericoli della pedagogia della scoperta? Perché mi pongo il problema del perché i bambini da piccoli sono contenti di “studiare” le scienze (“si diventa scienziati da bambini” dice un bambino di 5 anni) e poi diventano refrattari allo studio; e mi pongo il problema che nel nostro paese, come ci dicono le rilevazioni degli organismi internazionali, la cultura scientifica è un disastro.

L’Italia è un paese dove si sente dire ovunque, non con vergogna ma quasi con orgoglio, “io di matematica non ci ho mai capito nulla”. All’ultimo referendum del 2005 siamo stati privati del diritto di cittadini a esprimerci su una legge che riguarda la nostra vita, perché non avevamo la minima conoscenza scientifica di ciò su cui eravamo chiamati a votare.

Ora, Bachelard non parla dei bambini piccoli e naturalmente i bambini hanno diritto ad avere uno spirito pre-scientifico e anzi quel “pre” ci avverte che si tratta di un passaggio indispensabile verso la scienza; quello che mi pare un pericolo è che noi educatori scambiamo per scientifico ciò che è pre-scientifico.

Chi insegna ai bambini più piccoli potrà dire con ragione che dobbiamo evitare di anticipare i processi cognitivi creando scompensi che poi sarebbe difficile recuperare e che perciò è indispensabile avere consapevolezza di ciò che è “naturale” per bambini piccoli; ma per non essere autoreferenziali è altrettanto importante avere anche consapevolezza della direzione di evoluzione dei processi che si mettono in moto. Sapere cosa viene dopo aiuta a fare bene quello che viene prima.

I PERICOLI

Che pericolo dunque ci può essere nella meritoria impresa di suscitare curiosità, interesse, meraviglia?

Il pericolo della facilità:

Queste teorie primitive di fenomeni tanto complessi si presentavano così come teorie facili, condizione questa indispensabile perché fossero divertenti e interessassero il pubblico.

[...] vedremo istaurarsi un’era di facilità che priverà la scienza del senso del problema, che costituisce invece la nervatura del progresso.

[...] soddisfacendo in modo immediato la curiosità e moltiplicando le occasioni di risvegliarla, non si favorisce la conoscenza scientifica ma la si intralcia. La conoscenza infatti viene sostituita dall’ammirazione, e le idee dalle immagini.

Se andate al Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano capirete queste parole di Bachelard, perché avrete l’impressione di essere ai confini del futuro, e nello stesso tempo assisterete a manifestazioni dello “spirito pre-scientifico”. Il che dimostra che anche nella storia della nostra società il passaggio allo spirito scientifico non è compiuto una volta per tutte.

Vorrei qui ricordare un episodio come riferimento emblematico per tutto il discorso che seguirà.

In un museo-laboratorio dedicato all’energia una guida mostra un exhibit a un bambino accompagnato dalla madre. Il fenomeno implica l’illuminazione di superfici metalliche e superfici nere, ma non è semplice spiegare, ovvero rispondere alla domanda “perché accade ciò che accade?”. Le parole della guida non sembrano convincere i due; i volti esprimono perplessità, lo sguardo è fisso, le fronti corrucciate. La guida se ne rende conto e fa qualche altro tentativo ma senza esito, finché, colto da un’ispirazione, dice: ”... perché il nero attira il calore”. Immediatamente i volti si illuminano: “ah, sì! “e già...!”, lo scioglimento della tensione è evidente. L’attenzione si stacca dall’oggetto, i corpi si dirigono altrove.

La spiegazione è scientificamente scorretta, ma soddisfa perché riduce la tensione legata al senso dell’ignoto riportando al noto.

Allora nella felice rottura della barriera che separa i bambini dalla scienza, nella feconda riduzione della distanza il pericolo che si annida è quello della familiarità, ovvero l’illusione di una eccessiva vicinanza tra i fenomeni scientifici e il nostro pensiero, la nostra comprensione

“Il nostro spirito”, dice giustamente Bergson, “tende irresistibilmente a considerare più chiara l’idea che gli serve più spesso”. L’idea assume così una chiarezza intrinseca abusiva.

[...] la sperimentazione deve prendere le distanze dalle normali condizioni dell’osservazione.

Alle idee che ci sono familiari ci affezioniamo troppo e finiamo per proiettare l’affettività sulla qualità delle idee: la valorizzazione affettiva di un’idea ne mette in secondo piano la verità, ovvero l’adeguatezza alla realtà

Con l’uso le idee si valorizzano indebitamente.

[...] questa valorizzazione [...] è costituita dall’adesione appassionata a certe idee primitive che trovano solo dei pretesti nel mondo oggettivo.

E poi come diventiamo di cattivo umore quando le nostre conoscenze elementari vengono contraddette, quando viene intaccato quel tesoro puerile conquistato dai nostri sforzi scolastici!

(“il nero attira il calore” ci riporta in una tranquillizzante atmosfera familiare e protettiva: lo diceva anche la mia nonnina.)

Il pericolo è quello di una illusione di evidenza che porta a semplificare e a generalizzare indebitamente

Improvvisamente, una parola risuona in noi e incontra un’eco troppo prolungata presso certe care e antiche idee; oppure un’immagine si illumina e ci convince bruscamente, di colpo e in blocco.

[...] in tutte queste imprudenti razionalizzazioni, la risposta è molto più precisa della domanda, o meglio la risposta è stata data prima che la questione fosse chiarita.

(vedi le espressioni “ah, sì! “e già...!” a proposito di “il nero attira il calore”, in una questione dove gli scienziati invece non hanno ancora ben definito di che si tratta).

E così, convinti di sapere già, si rinuncia all’esperienza, si abbandona il terreno della verifica sperimentale

[...] l’autore viene illuminato da un’evidenza primitiva [...] È inutile persino osservare bene l’esperienza e recensirne tutte le variabili [...] si è infatti convinti di possedere ormai la radice sostanziale del fenomeno osservato. Quindi non si sente alcun bisogno di far variare determinate circostanze che si reputano più o meno accidentali, più o meno superficiali.

L’immaginazione lavora malgrado l’opposizione dell’esperienza. Non ci si separa dal meraviglioso, quando gli si è dato credito.

Una dinamica di valorizzazione che mette in ombra la verità, tipica della nostra cultura, è quella che deriva dall’utilità;

[...] In ogni fenomeno viene ricercata un’utilità esclusivamente umana, e questo non solo per il vantaggio positivo che può procurare, ma anche come principio esplicativo. Trovare un’utilità significa trovare una ragione.

Il problema è particolarmente grave nel campo dell’evoluzione, dove si usano correntemente spiegazioni (false) basate sulla finalità (“i pesci svilupparono le zampe per camminare sulla terra”).

Ed è attraverso il linguaggio che passano queste dinamiche “pre-scientifiche”: possedere le parole può illudere di possedere le idee e comprendere la realtà

[...] queste leggi generali definiscono più delle parole che delle cose: la legge generale sulla caduta dei gravi definisce il termine “grave”, con un’ambiguità tale tra a priori e a posteriori che ci fa personalmente provare come una specie di vertigine logica [...] E allora tutto diventa chiaro, tutto viene identificato. A parer nostro però, tanto più è breve la procedura di identificazione, tanto più è povero il pensiero sperimentale.

(“ah, sì! “e già...!”).

Ma il linguaggio non è solo quello delle parole; più in generale si tratta della dimensione simbolica, fatta anche di immagini, analogie, metafore

[...] nella mentalità scientifica l’analogia entra in gioco dopo la teoria, mentre nella mentalità pre-scientifica essa entra in gioco prima.

Il pericolo delle metafore immediate per la formazione dello spirito scientifico è dovuto al fatto che non si tratta necessariamente di immagini che passano; esse spingono a un pensiero autonomo, e tendono a completarsi e a compiersi nel regno delle immagini.

[...] non è possibile confinare tanto facilmente le metafore nel solo regno dell’espressione, come invece si pretende. Che lo si voglia o no, le metafore seducono la ragione. Esse sono delle immagini particolari e remote che diventano insensibilmente degli schemi generali.

... l’immagine è unicamente come l’illustrazione di una storia. Da essa soltanto sarebbe praticamente impossibile dedurre qualcosa; solo se si conosce la storia si sa che cosa fare dell’immagine. (Wittgenstein, Ricerche filosofiche)

(“il nero attira  il calore” è appunto una metafora). E non dimentichiamo che ai tempi di Bachelard la “civiltà dell’immagine”  era appena nata.

LE RISORSE

Ma, come dicevo, in quella stessa qualità dell’azione educativa in cui si annidano i pericoli si possono trovare anche le risorse per superarli, gli “antidoti”.

È la pratica dell’osservazione che può preservare dal pericolo della generalizzazione indebita

[...] si generalizzano le proprie osservazioni iniziali nel momento in cui non si osserva più niente.

É l’osservazione che garantisce fedeltà ai fatti, alla realtà, attenta a non sbilanciare verso il soggetto la relazione soggetto-oggetto che costituisce la conoscenza

[...] nella conoscenza volgare i fatti vengono implicati troppo presto nelle ragioni. [...] perché un fatto venga definito e precisato, occorre un minimo di interpretazione. Ma se questa interpretazione minima corrisponde a un errore fondamentale, cosa ne resta del fatto?

Per una conoscenza scientifica essenziale è coltivare la qualità della precisione, perché permette di distinguere cogliendo differenze, anche attraverso la variazione

[...] in tutte le scienze rigorose un pensiero in ansia diffida delle identità più o meno apparenti e reclama continuamente più precisione, dunque più occasioni per distinguere.

Uno scienziato moderno cerca più di limitare il proprio dominio sperimentale che di moltiplicarne le istanze. Avendo a disposizione un fenomeno ben definito, cercherà di determinarne le variazioni, e sono queste variazioni fenomenologiche a designare le variabili matematiche del fenomeno.

Altro elemento essenziale è la consapevolezza dei contesti, ovvero delle condizioni che definiscono i limiti di validità di una conoscenza

Per inglobare nuove prove sperimentali occorrerà [...] studiare le condizioni di applicazione di tali concetti e soprattutto incorporare le condizioni di applicazione di un concetto nel senso stesso del concetto.

Una conoscenza che manchi di precisione, o meglio una conoscenza che non venga data insieme alle condizioni di una precisa determinazione, non è una conoscenza scientifica.

(nel caso dell’exhibit di cui sopra variare le condizioni potrebbe essere determinante per capire se è la luce o il calore a provocare il fenomeno).

Se si vuole aprire alla dimensione scientifica, va considerata come direzione di sviluppo l’astrazione, naturalmente tenendo conto dei limiti di questo discorso in relazione all’età dei bambini. Astrazione sia nel senso della argomentazione

Sarebbe senza dubbio più semplice insegnare solo il risultato, ma l’insegnamento dei risultati della scienza non è mai un insegnamento scientifico. Se la linea di produzione spirituale che ha portato al risultato non viene esplicitata, si può esser certi che lo studente combinerà il risultato con le sue immagini più familiari...

(“il nero attira il calore” come scorciatoia rispetto a un percorso di ricerca di spiegazioni)

Astrazione anche nel senso della formalizzazione, fino alla matematizzazione

Per rompere con la seduzione esercitata dalle forme semplici e compiute su cui possono accumularsi tante interpretazioni erronee, la cosa migliore è esplicitarne la produzione algebrica.

[...] crediamo che il pensiero matematico costituisca la base della spiegazione fisica e che le condizioni del pensiero astratto siano ormai inseparabili dalle condizioni dell’esperienza scientifica.

Nel fare scienza, come del resto avviene già nelle migliori esperienze con i bambini, l’uso di strumenti è costitutivo

Un concetto diventa scientifico nella misura in cui diventa tecnico, o viene accompagnato da una tecnica di realizzazione.

Lo scienziato [...] si avvicina a questo oggetto inizialmente mal definito. E innanzitutto si appresta a misurarlo. Egli ne discute le condizioni di studio determinando la sensibilità e la portata dei suoi strumenti, quindi descrive piuttosto il suo sistema di misura che l’oggetto della sua misurazione.

Su un altro piano, costitutiva della scienza è la socialità, che è un’altra dimensione del lavoro con i bambini: sull’interazione nel gruppo si basa l’intersoggettività su cui la comunità scientifica fonda la “verità” delle sue acquisizioni

[...] i compagni sono più importanti dei maestri. [...] Occorrerebbe quindi spingere gli studenti, presi in gruppo, alla coscienza di una ragione di gruppo, in altre parole all’istinto dell’oggettività sociale, istinto che viene in genere tralasciato per sviluppare invece di preferenza l’istinto contrario, quello dell’originalità [...]

[...] proponiamo di fondare l’oggettività sul comportamento altrui, o meglio, per svelare subito l’aspetto paradossale del nostro pensiero, pretendiamo di scegliere l’occhio altrui – sempre l’occhio altrui – per vedere la forma – la forma felicemente astratta – del fenomeno oggettivo. Dimmi ciò che vedi e ti dirò cos’è. [...]

Ho lasciato per ultimo l’elemento più importante nel “gioco” della scienza: lo spiazzamento

Un’esperienza scientifica è, insomma, un’esperienza che contraddice l’esperienza comune.

Si conosce, infatti, contro una conoscenza anteriore, distruggendo conoscenze mal fatte, superando quello che nello spirito stesso fa da ostacolo

Senza questo spiazzamento lo stimolo sarebbe valore puro. Sarebbe ebbrezza, e grazie a quell’enorme successo soggettivo costituito da un’ebbrezza costituirebbe l’errore oggettivo più difficile da rettificare.

Lo spiazzamento, ovvero la consapevolezza del fallimento delle proprie previsioni e certezze, porta sicuramente disorientamento e disagio, ma non c’è apprendimento senza cambiamento e non si cambia, non si ristruttura il proprio sistema cognitivo, se non si è costretti da un fallimento

Era così intenso il nostro bisogno di essere completamente dentro la nostra visione del mondo! Ma è proprio questo bisogno che occorre vincere. Andiamo! Non è in piena luce, ma al limite dell’ombra, che il raggio, diffrangendosi, ci confida i suoi segreti.

Risparmiare ai bambini il disagio dello spiazzamento (come fa la guida de “il nero attira il calore”) significa negare loro occasioni di apprendimento e di esercizio di autonomia. E forse sarebbe anche proiettare sui bambini un vissuto che è dell’adulto: nella mia esperienza più i bambini sono piccoli e meno soffrono per lo spiazzamento; non vanno in crisi per il fallimento delle previsioni sul mondo, perché non hanno ancora previsioni sicure; hanno meno conoscenze quindi meno pre-giudizi. Sono spregiudicati.

Nel procedere per tentativi ed errori che è proprio dell’apprendimento dei bambini, e lo caratterizza in senso evolutivo, si riconosce il germe di quello che è il cuore del pensiero scientifico, il suo valore più prezioso per la cultura umana, il pensiero critico

[...] quella prospettiva di errori rettificati che caratterizza, a nostro avviso, il pensiero scientifico.

 



[1]  Mi esprimo utilizzando il linguaggio della “autopoiesi” proposto da Humberto Maturana e Francisco Varela in: (1980), Autopoiesi e cognizione, Marsilio 1985 -  (1984), L'albero della conoscenza, Garzanti 1992.