In
molte scuole, soprattutto dell’infanzia ed elementari, si realizzano pratiche
di educazione scientifica, o pre-scientifica, che mettono al centro la scoperta. Questo è certamente fonte
di soddisfazione per chi ha a cuore uno sviluppo della conoscenza dei bambini
e anche della conoscenza scientifica. Ma, a mio
avviso, chi pratica una pedagogia della scoperta corre anche dei pericoli, proprio per la qualità
specifica del lavoro che fa. In cosa consiste questa qualità? Quello che osservo è che le insegnanti
si occupano dell’apprendimento dei
bambini e che però non proiettano sui bambini piccoli il modello
dominante dell’insegnamento nella nostra cultura: la “lezione”. La lezione è
trasferimento di informazioni da chi le sa a chi non le sa. Oggi non è più
vero che la scuola, l’insegnante o il libro di testo sono la fonte (l’unica)
delle informazioni, scientifiche nel nostro caso; quindi mi pare una saggia
scelta non fare lezione. Ma che cosa fa allora l’educatore che “non insegna”? Nella mia idea
diventa la persona che “perturba” i
sistemi cognitivi dei bambini; così
innesca i loro processi di apprendimento, ma non ne determina la forma [1].
Ed è la persona che ascolta,
tanto da poter raccontare la storia di
quel processo. Le storie non si possono scrivere prima che accadano. Lavorare
sullo “sfondo integratore” vuol dire istituire le condizioni che permettono
ai bambini di vivere la storia del proprio apprendimento costruendolo attivamente. La cultura psicologica che ormai è di casa nella scuola insiste
sul soggetto e ci ha portato a sopravvalutare la dimensione affettiva come
contesto motivante. Così succede che per inseguire le motivazioni soggettive
si finisce per non utilizzare le motivazioni intrinseche della conoscenza,
che riguardano il rapporto tra soggetto
e oggetto (a questo ci si riferisce quando si parla de “il piacere della scoperta”). Nell’apprendimento, oggettivo e soggettivo, intelletto e
affettività non si possono separare se non nelle nostre rappresentazioni (e
già il fatto che usiamo termini separati e che separano ci mette su una
cattiva strada). Nel caso della scoperta ciò è particolarmente evidente: [...] i professori
sostituiscono le scoperte con delle lezioni. Una scoperta oggettiva è
immediatamente una rettificazione soggettiva: io mi modifico se l’oggetto mi istruisce. È una citazione di un grande epistemologo del Novecento (che ha
fatto anche esperienza di insegnamento): Gaston Bachelard.
Lo
sto proponendo perché la sua lettura mi è parsa
stimolante per l’esercizio di un pensiero critico che è il più profondo
contributo della scienza alla storia della cultura. E poi mi piace mettere a contatto il mondo dei bambini con
quello dei grandi pensatori e degli scienziati, facendo fare un passo indietro
agli insegnanti, che in questo rapporto si mettono di mezzo come mediatori. A
volte, a mettersi in mezzo, si finisce per essere d’intralcio. Bachelard tratta del passaggio da
quello che chiama lo spirito pre-scientifico a quello scientifico, un
passaggio che è avvenuto nella storia della nostra cultura, ma che in qualche
modo si ripete nella storia dei bambini nel loro percorso di inculturazione. Apro una parentesi sul termine “scientifico”: esso designa qualcosa
che sta nella “mappa” e non nel “territorio”, ovvero nella organizzazione
della nostra cultura e non nel rapporto di conoscenza del mondo da parte dei
bambini, che più piccoli sono e meno si pongono limiti di aree disciplinari.
Noi però possiamo costruire le premesse e riconoscere i precursori dello
sviluppo di un pensiero che diventerà “scientifico” dandosi delle forme e dei
confini sempre più specifici. Ma perché parlo di pericoli
della pedagogia della scoperta? Perché mi pongo il problema del perché i
bambini da piccoli sono contenti di “studiare” le scienze (“si diventa
scienziati da bambini” dice un bambino di 5 anni) e poi diventano refrattari
allo studio; e mi pongo il problema che nel nostro paese, come ci dicono le
rilevazioni degli organismi internazionali, la cultura
scientifica è un disastro. L’Italia
è un paese dove si sente dire ovunque, non con vergogna ma quasi con orgoglio,
“io di matematica non ci ho mai capito nulla”. All’ultimo referendum del 2005
siamo stati privati del diritto di cittadini a esprimerci su una legge che
riguarda la nostra vita, perché non avevamo la minima conoscenza scientifica
di ciò su cui eravamo chiamati a votare. Ora,
Bachelard non parla dei bambini piccoli e
naturalmente i bambini hanno diritto ad avere uno spirito pre-scientifico e
anzi quel “pre” ci avverte che si tratta di un
passaggio indispensabile verso la scienza; quello che mi pare un pericolo è
che noi educatori scambiamo per
scientifico ciò che è pre-scientifico. Chi
insegna ai bambini più piccoli potrà dire con ragione che dobbiamo evitare di
anticipare i processi cognitivi creando scompensi che poi sarebbe difficile
recuperare e che perciò è indispensabile avere consapevolezza di ciò che è
“naturale” per bambini piccoli; ma per non essere autoreferenziali è
altrettanto importante avere anche consapevolezza della direzione di
evoluzione dei processi che si mettono in moto. Sapere cosa viene dopo aiuta
a fare bene quello che viene prima. I PERICOLI Che pericolo dunque ci può essere nella meritoria impresa di suscitare
curiosità, interesse, meraviglia? Il pericolo della facilità: Queste teorie primitive di fenomeni tanto complessi si presentavano
così come teorie facili, condizione questa indispensabile perché fossero
divertenti e interessassero il pubblico. [...] vedremo istaurarsi
un’era di facilità che priverà la scienza del senso del problema, che costituisce invece la nervatura del
progresso. [...] soddisfacendo in
modo immediato la curiosità e moltiplicando le occasioni di risvegliarla, non
si favorisce la conoscenza scientifica ma la si intralcia. La conoscenza
infatti viene sostituita dall’ammirazione, e le idee dalle immagini. Se andate al Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano
capirete queste parole di Bachelard, perché avrete
l’impressione di essere ai confini del futuro, e nello stesso tempo
assisterete a manifestazioni dello “spirito pre-scientifico”. Il che dimostra
che anche nella storia della nostra società il passaggio allo spirito
scientifico non è compiuto una volta per tutte. Vorrei
qui ricordare un episodio come riferimento emblematico per tutto il discorso
che seguirà. In
un museo-laboratorio dedicato all’energia una guida mostra un exhibit a
un bambino accompagnato dalla madre. Il fenomeno implica l’illuminazione di
superfici metalliche e superfici nere, ma non è semplice spiegare, ovvero rispondere alla domanda “perché accade ciò che
accade?”. Le parole della guida non sembrano convincere i due; i volti
esprimono perplessità, lo sguardo è fisso, le fronti corrucciate. La guida se
ne rende conto e fa qualche altro tentativo ma senza esito, finché, colto da
un’ispirazione, dice: ”... perché il nero attira il calore”. Immediatamente i
volti si illuminano: “ah, sì! “e già...!”, lo scioglimento della tensione è
evidente. L’attenzione si stacca dall’oggetto, i corpi si dirigono altrove. La
spiegazione è scientificamente scorretta, ma soddisfa perché riduce la tensione legata al senso dell’ignoto
riportando al noto. Allora nella felice rottura della barriera che separa i bambini
dalla scienza, nella feconda riduzione della distanza il pericolo che si annida è quello della familiarità, ovvero l’illusione di
una eccessiva vicinanza tra i
fenomeni scientifici e il nostro pensiero, la nostra comprensione “Il nostro spirito”, dice giustamente Bergson,
“tende irresistibilmente a considerare più chiara l’idea che gli serve più
spesso”. L’idea assume così una chiarezza intrinseca abusiva. [...] la sperimentazione deve prendere le
distanze dalle normali condizioni dell’osservazione. Alle idee che ci sono familiari ci affezioniamo troppo e finiamo
per proiettare l’affettività sulla qualità delle idee: la valorizzazione affettiva di un’idea ne
mette in secondo piano la verità, ovvero l’adeguatezza alla realtà Con l’uso le idee si valorizzano indebitamente. [...] questa
valorizzazione [...] è costituita
dall’adesione appassionata a certe idee primitive che trovano solo dei
pretesti nel mondo oggettivo. E poi come diventiamo di cattivo umore quando le nostre conoscenze
elementari vengono contraddette, quando viene intaccato quel tesoro puerile conquistato
dai nostri sforzi scolastici! (“il nero attira il calore” ci riporta in una tranquillizzante
atmosfera familiare e protettiva: lo diceva anche la mia nonnina.) Il pericolo è quello di una illusione di evidenza che porta a semplificare e a generalizzare indebitamente Improvvisamente, una parola risuona in noi e incontra un’eco
troppo prolungata presso certe care e antiche idee; oppure un’immagine si
illumina e ci convince bruscamente, di colpo e in blocco. [...] in tutte queste
imprudenti razionalizzazioni, la risposta è molto più precisa della domanda, o meglio la risposta è stata data prima che la questione fosse
chiarita. (vedi le espressioni “ah,
sì! “e già...!” a proposito di “il nero attira il calore”, in una questione
dove gli scienziati invece non hanno ancora ben definito di che si tratta). E così, convinti di sapere già, si rinuncia all’esperienza, si abbandona il terreno della
verifica sperimentale [...] l’autore viene
illuminato da un’evidenza primitiva [...] È inutile persino osservare bene l’esperienza e recensirne tutte le variabili
[...] si è infatti convinti di possedere
ormai la radice sostanziale del fenomeno osservato. Quindi non si sente alcun
bisogno di far variare determinate circostanze che si reputano più o meno accidentali,
più o meno superficiali. L’immaginazione lavora malgrado l’opposizione dell’esperienza.
Non ci si separa dal meraviglioso, quando gli si è dato credito. Una dinamica di valorizzazione che mette in ombra la verità,
tipica della nostra cultura, è quella che deriva dall’utilità; [...] In ogni fenomeno
viene ricercata un’utilità esclusivamente umana, e questo non solo per il
vantaggio positivo che può procurare, ma anche come principio esplicativo.
Trovare un’utilità significa trovare una ragione. Il problema è particolarmente grave nel campo dell’evoluzione, dove
si usano correntemente spiegazioni (false) basate sulla finalità (“i pesci
svilupparono le zampe per camminare
sulla terra”). Ed è attraverso il linguaggio che passano queste dinamiche
“pre-scientifiche”: possedere le parole può illudere di possedere le idee e
comprendere la realtà [...] queste leggi
generali definiscono più delle parole che delle cose: la legge generale sulla
caduta dei gravi definisce il termine “grave”, con un’ambiguità tale tra
a priori e a posteriori che ci fa personalmente provare come una
specie di vertigine logica [...] E
allora tutto diventa chiaro, tutto viene identificato. A parer nostro però, tanto più è breve la
procedura di identificazione, tanto più è povero il pensiero sperimentale. (“ah,
sì! “e già...!”). Ma il linguaggio non è solo quello delle parole; più in generale
si tratta della dimensione simbolica,
fatta anche di immagini, analogie, metafore [...] nella mentalità
scientifica l’analogia entra in gioco dopo la teoria, mentre nella mentalità pre-scientifica essa entra in
gioco prima. Il pericolo delle metafore immediate per la formazione dello spirito
scientifico è dovuto al fatto che non si tratta necessariamente di immagini
che passano; esse spingono a un pensiero autonomo, e tendono a completarsi e
a compiersi nel regno delle immagini. [...] non è possibile
confinare tanto facilmente le metafore nel solo regno dell’espressione, come
invece si pretende. Che lo si voglia o no, le metafore seducono la ragione.
Esse sono delle immagini particolari e remote che diventano insensibilmente
degli schemi generali. ... l’immagine è unicamente come
l’illustrazione di una storia. Da essa soltanto sarebbe praticamente
impossibile dedurre qualcosa; solo se si conosce la storia si sa che cosa
fare dell’immagine.
(Wittgenstein, Ricerche filosofiche) (“il nero attira il calore” è appunto una metafora). E non
dimentichiamo che ai tempi di Bachelard la “civiltà
dell’immagine” era appena nata. LE RISORSE Ma, come dicevo, in quella stessa qualità dell’azione educativa
in cui si annidano i pericoli si possono trovare anche le risorse per superarli,
gli “antidoti”. È la pratica dell’osservazione
che può preservare dal pericolo della generalizzazione indebita [...] si generalizzano le
proprie osservazioni iniziali nel momento in cui non si osserva più niente. É l’osservazione che garantisce fedeltà ai fatti, alla realtà,
attenta a non sbilanciare verso il soggetto la relazione soggetto-oggetto che
costituisce la conoscenza [...] nella conoscenza
volgare i fatti vengono implicati troppo presto nelle ragioni. [...] perché
un fatto venga definito e precisato, occorre un minimo di interpretazione. Ma
se questa interpretazione minima corrisponde a un errore fondamentale, cosa
ne resta del fatto? Per una conoscenza scientifica essenziale è coltivare la qualità
della precisione, perché permette
di distinguere cogliendo differenze, anche attraverso la variazione [...] in tutte le scienze rigorose un pensiero
in ansia diffida delle identità più
o meno apparenti e reclama continuamente più precisione, dunque più occasioni per distinguere. Uno scienziato moderno cerca più di limitare il proprio dominio
sperimentale che di moltiplicarne le istanze. Avendo a disposizione un
fenomeno ben definito, cercherà di determinarne le variazioni, e sono queste
variazioni fenomenologiche a designare le variabili matematiche del fenomeno. Altro elemento essenziale è la consapevolezza dei contesti, ovvero delle condizioni che definiscono i limiti di validità di una conoscenza Per inglobare nuove prove sperimentali occorrerà [...] studiare le
condizioni di applicazione di tali concetti e soprattutto incorporare le
condizioni di applicazione di un concetto nel senso stesso del concetto. Una conoscenza che manchi di precisione, o meglio una conoscenza
che non venga data insieme alle condizioni di una precisa determinazione, non
è una conoscenza scientifica. (nel caso dell’exhibit di cui sopra variare le condizioni potrebbe essere
determinante per capire se è la luce o il calore a provocare il fenomeno). Se si vuole aprire alla dimensione scientifica, va considerata
come direzione di sviluppo l’astrazione,
naturalmente tenendo conto dei limiti di questo discorso in relazione
all’età dei bambini. Astrazione sia nel senso della argomentazione Sarebbe senza dubbio più semplice insegnare solo il risultato, ma l’insegnamento dei risultati della scienza non è mai un insegnamento scientifico. Se la linea di
produzione spirituale che ha portato al risultato non viene esplicitata, si
può esser certi che lo studente combinerà il risultato con le sue immagini
più familiari... (“il nero attira il calore” come scorciatoia rispetto a un
percorso di ricerca di spiegazioni) Astrazione anche nel senso della formalizzazione, fino alla matematizzazione Per rompere con la seduzione esercitata dalle forme semplici e
compiute su cui possono accumularsi tante interpretazioni erronee, la cosa
migliore è esplicitarne la produzione algebrica. [...] crediamo che il
pensiero matematico costituisca la base della spiegazione fisica e che le
condizioni del pensiero astratto siano ormai inseparabili dalle condizioni
dell’esperienza scientifica. Nel fare scienza, come del resto avviene già nelle migliori esperienze
con i bambini, l’uso di strumenti è
costitutivo Un concetto diventa scientifico nella misura in cui diventa tecnico,
o viene accompagnato da una tecnica di realizzazione. Lo scienziato [...] si
avvicina a questo oggetto inizialmente
mal definito. E innanzitutto si appresta a misurarlo. Egli ne discute le
condizioni di studio determinando la sensibilità e la portata dei suoi
strumenti, quindi descrive piuttosto il suo sistema di misura che l’oggetto della sua misurazione. Su un altro piano, costitutiva della scienza è la socialità, che è un’altra dimensione
del lavoro con i bambini: sull’interazione nel gruppo si basa
l’intersoggettività su cui la comunità scientifica fonda la “verità” delle
sue acquisizioni [...] i compagni sono più
importanti dei maestri. [...]
Occorrerebbe quindi spingere gli studenti, presi in gruppo, alla coscienza di
una ragione di gruppo, in altre parole all’istinto dell’oggettività sociale,
istinto che viene in genere tralasciato per sviluppare invece di preferenza
l’istinto contrario, quello dell’originalità [...] [...] proponiamo di
fondare l’oggettività sul comportamento altrui, o meglio, per svelare subito
l’aspetto paradossale del nostro pensiero, pretendiamo di scegliere l’occhio
altrui – sempre l’occhio altrui – per vedere la forma – la forma felicemente astratta
– del fenomeno oggettivo. Dimmi ciò che vedi e ti dirò cos’è. [...] Ho lasciato per ultimo l’elemento più importante nel “gioco”
della scienza: lo spiazzamento Un’esperienza scientifica è, insomma, un’esperienza che contraddice l’esperienza comune. Si conosce, infatti, contro una conoscenza anteriore, distruggendo
conoscenze mal fatte, superando quello che nello spirito stesso fa da
ostacolo Senza questo spiazzamento lo stimolo sarebbe valore puro.
Sarebbe ebbrezza, e grazie a quell’enorme successo soggettivo costituito da
un’ebbrezza costituirebbe l’errore oggettivo più difficile da rettificare. Lo spiazzamento, ovvero la consapevolezza del fallimento delle
proprie previsioni e certezze, porta sicuramente disorientamento e disagio,
ma non c’è apprendimento senza cambiamento e non si cambia, non si
ristruttura il proprio sistema cognitivo, se non si è costretti da un
fallimento Era così intenso il nostro bisogno di essere completamente
dentro la nostra visione del mondo! Ma è proprio questo bisogno che occorre
vincere. Andiamo! Non è in piena luce, ma al limite dell’ombra, che il
raggio, diffrangendosi, ci confida i suoi segreti. Risparmiare ai bambini il disagio dello spiazzamento (come fa la
guida de “il nero attira il calore”) significa negare loro occasioni di apprendimento
e di esercizio di autonomia. E forse sarebbe anche proiettare sui bambini un
vissuto che è dell’adulto: nella mia esperienza più i bambini sono piccoli e
meno soffrono per lo spiazzamento; non vanno in crisi per il fallimento delle
previsioni sul mondo, perché non hanno ancora previsioni sicure; hanno meno conoscenze
quindi meno pre-giudizi. Sono spregiudicati. Nel procedere per
tentativi ed errori che è proprio dell’apprendimento dei bambini, e lo
caratterizza in senso evolutivo, si
riconosce il germe di quello che è il cuore del pensiero scientifico, il suo
valore più prezioso per la cultura umana, il
pensiero critico [...] quella prospettiva di errori
rettificati che caratterizza, a nostro
avviso, il pensiero scientifico. |
[1] Mi esprimo
utilizzando il linguaggio della “autopoiesi” proposto
da Humberto Maturana e Francisco Varela in: (1980), Autopoiesi e cognizione, Marsilio 1985
- (1984), L'albero della conoscenza, Garzanti 1992.