Carmen Giovanelli – Rosanna La Torraca – Marcello Sala

LA SCIENZA DEGLI STUDENTI

un “tè evoluzione” e

qualche laboratorio

-pubblicato in-

LE SCIENZE NATURALI NELLA SCUOLA

n. 51 / 2014

A.N.I.S.N.

 

 

Nell’ambito del progetto “La scienza degli studenti”, gestito in collaborazione tra la rete di Scienza under18 e l’Associazione FormaScienza di Roma, un nutrito gruppo di ragazzi del Liceo Tosi di Busto Arsizio (VA) ha sviluppato nel corso dell’anno 2009-2010 un percorso sui temi dell’evoluzione.

A raccontarlo qui non sono i ragazzi ma i docenti che hanno svolto il ruolo di tutor; e questo è un limite, perché il nucleo di senso del progetto, da cui il nome, consisteva nel costruire contesti in cui gli studenti diventassero i soggetti di proposte di comunicazione e di educazione scientifica rivolte a un pubblico.

Il percorso

I tutor si sono dati il compito di rendere gli studenti competenti di evoluzione quanto basta per fare buone domande e competenti di animazione formativa quanto basta per far fare ad altri buone domande.

In una prima fase sono stati i tutor  a condurre per gli studenti laboratori relativi ad alcuni nodi di quella rete di idee che la scienza ha costruito attorno all’evoluzione.

I “laboratori evoluzione” cercavano di mettere gli studenti nei panni degli scienziati in quella fase del loro lavoro in cui hanno a disposizione dati e rappresentazioni e cercano di rispondere alle domande che l’osservazione della natura ha suscitato.

Alla fine del laboratorio veniva condotta una meta-riflessione in cui gli studenti diventavano consapevoli dei loro percorsi cognitivi. In particolare veniva chiesto loro di annotare le idee che pensavano di avere acquisito nel contesto del laboratorio e le domande rimaste aperte, sia per ciò che mancava nel laboratorio sia perché stimolate da esso. Un aspetto della riflessione riguardava anche il contesto, in particolare il gioco interattivo del laboratorio, in cui centrali sono le domande e non le risposte. 

Gli studenti, attraverso le esperienze di laboratorio, avevano iniziato ad acquisire una base di conoscenze sull’evoluzione e si erano mostrati attivi e interessati, e i tutor hanno ritenuto che fosse il momento di fare un salto di livello rispetto agli obiettivi del progetto.

Hanno dunque proposto agli studenti di compiere delle scelte riguardo all’attività che avrebbero condotto in relazione con un pubblico esterno, in modo da contestualizzare e orientare la prosecuzione del lavoro; in particolare la scelta si è focalizzata su due possibilità: organizzare e condurre un “caffè-scienza” e condurre laboratori per alunni delle scuole elementari o medie. Li hanno anche invitati a individuare la direzione del proprio ulteriore percorso di ricerca dal punto di vista dei temi. Questo è stato fatto rielaborando le “domande aperte” accumulate nelle esperienze di laboratorio.

A questo punto gli studenti, divisisi in base all’attività finale scelta, hanno affrontato la fase di progettazione. Per facilitare questo processo, ma lasciando agli studenti autonomia sui contenuti, i tutor hanno proposto una struttura di lavoro di gruppo; ad esempio per il laboratorio per bambini:

      identificare il tema del laboratorio

      progettare 2-3 attività (stendere una sceneggiatura di massima)

      delineare i propri ruoli

      trovare un titolo da proporre al pubblico che fosse comunicativo, ovvero da una parte trasparente rispetto alla tematica proposta e dall’altra “attraente” (incuriosente spiazzante)

      alla fine ogni gruppo espone i progetti e l’altro funge da “amico critico”

Quando la progettazione è entrata nel merito dei contenuti attorno ai temi dell’evoluzione, su cui si intendeva costruire la proposta per il pubblico, i tutor hanno individuato nei prodotti degli studenti le “zone grigie” della loro conoscenza e su questi aspetti hanno proposto nuovi laboratori. L’obiettivo era potenziare le competenze degli studenti in un contesto in cui loro avevano già cominciato ad assumere il ruolo e la responsabilità di promotori culturali e non più solo di “utilizzatori finali”.

La preparazione dei materiali ha impegnato gli studenti in forme diverse: nel caso del laboratori per bambini si trattava di preparare materialmente gli oggetti per realizzare le situazioni di gioco che avevano inventato rimodellando creativamente alcune situazioni dei laboratori cui avevano partecipato come utenti; nel caso del caffè-scienza utilizzare materiali audiovisivi o performance in linguaggio teatrale per costruire una sceneggiatura in cui collocare un gioco di domande e risposte capace di coinvolgere un pubblico di adulti.

Quest’ultimo percorso ha preso il via da una rielaborazione delle domande che gli studenti avevano posto durante e alla fine dei laboratori: attraverso lavori di gruppo sono state raggruppate e messe in relazione alle tematiche, integrate, ridotte e selezionate secondo gli interessi prevalenti.

Nella preparazione dei caffè-scienza si è collocato l’incontro con uno degli scienziati che avrebbero partecipato come esperti, Marco Ferraguti, docente di teoria dell’evoluzione biologica, il quale ha coinvolto gli studenti nella ricerca che è oggetto specifico della sua professione. Forse per la prima volta da quando studiano scienze gli studenti hanno potuto avvicinare la dimensione reale del lavoro dello scienziato, sia nei suoi percorsi di ricerca, con la messa in azione contestualizzata di quel “metodo” che è una delle immagini totemiche della rappresentazione scolastica della scienza, sia nella dimensione di organizzazione sociale. Ne è uscita una rappresentazione più vicina alla realtà della scienza “normale”, difficile, a volte banale e ripetitiva nella sua quotidianità, ma anche coinvolgente per motivi intrinseci alla dimensione della scoperta, della conoscenza che sta nel cuore della cultura umana.

Prima delle performance finali i tutor hanno insistito perché venissero fatte delle prove generali, “come se…” ci fosse il pubblico. È un passaggio spesso trascurato, ma è stato essenziale per scoprire, quando ancora c’era tempo e modo per aggiustamenti e correzioni, che cosa funzionava e cosa no, sia nell’apparato materiale, sia a livello di contenuti e nell’uso del linguaggio scientifico, sia nell’effetto “teatrale” di coinvolgimento del pubblico.

Il caffè-scienza si è articolato in due serate costruite sulle domande che gli studenti avevano selezionato e “montato” in una partitura teatrale e audiovisiva; domande cui hanno risposto due esperti diversi, un biologo, Marco Ferraguti, e un epistemologo, Telmo Pievani, individuati come interlocutori sulle tematiche evolutive.

“Buon successo di pubblico” come si dice in queste occasioni, pubblico costituito da insegnanti, genitori e altri studenti, che alla fine ha rivolto altre domande agli esperti. La scelta di privilegiare l’interlocuzione con gli studenti che avevano compiuto un percorso cognitivo specifico rispondeva all’intenzione di dare un messaggio “educativo” al pubblico: in questi incontri in cui la scienza viene messa in gioco in pubblico, il gioco è “parlare quando si hanno buone domande da fare”.

I laboratori didattici per i bambini hanno avuto due repliche, la prima con classi di una scuola elementare e la seconda nell’ambito di una manifestazione ambientalista, luogo “amico” dal punto di vista culturale, ma non “protetto” dalle regole e dall’organizzazione scolastica, che ha messo gli studenti nelle condizioni ad affrontare l’imprevisto di un pubblico di bambini molto piccoli (5-7 anni).

Per far emergere una valutazione finale è stato proposto a ogni studente/essa di scegliere un episodio avvenuto durante il percorso, valutato soggettivamente come di successo o insuccesso, e di individuare ancora le  idee acquisite e le domande aperte.

I tutor  si sono dati uno spazio dopo ogni incontro in cui scambiarsi osservazioni, discutere una valutazione, riprogettare il prosieguo del percorso, costruire una restituzione per gli studenti  e le eventuali proposte di lavoro per l’incontro successivo.

L’apprendimento

Ritenendo che né test di verifica né impressioni soggettive dei tutor fossero modalità adeguate per rispondere alla domanda “Che cos’hanno imparato gli studenti sull’evoluzione?”, abbiamo provato a ricavarla dalle “idee acquisite” e dalle “domande aperte” che in più occasioni gli studenti hanno scritto.

Vediamo qualche esempio, raccolto dopo il primo laboratorio su un modello della dinamica della variazione-selezione, e commentato:

Idee acquisite

“… come funziona il processo dell’evoluzione”

Questa formulazione, che si riferisce all’evoluzione con il termine “processo”, evita uno dei problemi più gravi della comunicazione sull’evoluzione: la soggettivazione (es. “l’evoluzione fa...”), che suggerisce una reificazione, o addirittura una personificazione, di quelli che sono processi materiali (negando proprio la rivoluzione culturale operata dal naturalismo di Darwin).

“L’idea di Darwin nacque dal fatto che aveva amici allevatori”

Coglie l’importanza della dimensione sociale dell’attività scientifica.

“A volte pesci apparentemente diversi sono più simili di altri che a prima vista sono più simili”

Pone il problema dei criteri di classificazione scientifici che devono andare al di là delle impressioni soggettive e dei condizionamenti culturali.  La questione ha notevolmente incuriosito i ragazzi che l'hanno proposta a più volte.

“I caratteri di generazione in generazione possono essere variati per scopi commerciali o comunque voluti artificialmente dagli allevatori”

“La selezione artificiale è più veloce di quella naturale”

Sottolinea caratteri fondamentali della selezione artificiale che la differenziano da quella “naturale”.

“La selezione avviene a causa della diversità”

Formulazione corretta, che diventa notevole in un contesto di comunicazione in cui la relazione viene incredibilmente e facilmente rovesciata, considerando la variazione come effetto di un processo causato da una selezione o addirittura da una finalizzazione (es. “i pesci cambiano la forma delle pinne per camminare sulla terraferma”).

Domande aperte

“Che cosa provoca le differenze tra i figli di uno stesso individuo?”

Domanda che ha fondato la ricerca genetica.

“Possono emergere in un individuo figlio dei caratteri genetici differenti da quelli di entrambi i genitori e appartenute a un antenato?”

Da qui parte la teoria mendeliana della discontinuità nell’ereditarietà dei caratteri.

“Selezionando un pesce con una certa caratteristica nascono pesci sempre con quella caratteristica?”

Suggerisce il problema della variazione come variabile indipendente del processo.

“Come mai l’uomo si è evoluto dalla scimmia diventando intelligente?”

Si chiede il come e perché di qualcosa che viene caratterizzato come processo storico, dando quindi spazio alla ricerca scientifica in merito a un problema spesso risolto con affermazioni a priori.

“Tra qualche secolo l’uomo avrà un aspetto diverso da ora?”

Fa emergere come problematiche affrontate con strumenti scientifici riguardano dimensioni integralmente umane, in cui non è possibile separare storia e scienza, emozione e intelletto.

“Il colore di un individuo è importante per la selezione naturale?”

“Nei pesci i colori più sgargianti sono solo per i maschi o anche per le femmine?”

Le osservazioni guidate da domande di questo tipo hanno portato Darwin a integrare la “selezione naturale” con la  “selezione sessuale” come motori dell’evoluzione.

“Perché gli esemplari femmina sono spesso attratte dal colore o dalle dimensioni del maschio?”

Si tende a parlare soltanto in termini di caratteri vistosi in un sesso, dimenticando che altrettanto necessaria alla dinamica della selezione sessuale è la reazione da parte dell’altro sesso, ancor più difficile da spiegare.

“Come è possibile stabilire con certezza qual è la specie che ha più possibilità di sopravvivere in base al piumaggio o alla  grandezza, al colore o alle dimensioni?”

Rispondere a questa domanda conduce a cogliere la debolezza di una spiegazione adattazionista che trascuri gli elementi di contingenza nel processo evolutivo.

“Una specie che si riproduce per via asessuata porta a una specie uguale alla precedente o diversa?”

Individua la difficoltà di applicare il concetto di specie nel caso della riproduzione asessuata e porta l’attenzione sulle diverse dinamiche della variazione.

Per valutare queste produzioni degli studenti va tenuto conto di quali erano le loro conoscenze riguardo l’evoluzione all’inizio. Prima di cominciare i tutor avevano chiesto loro di rispondere per scritto in non più di tre minuti alla domanda  “Che cos’è l’evoluzione?”. Il limite di tempo era stato posto appositamente per evitare risposte scolastiche e far emergere le rappresentazioni culturali più radicate, patrimonio della cultura in cui sono immersi.

Nelle risposte individuali alcune emergenze rivelano una rappresentazione dell’evoluzione poco “scientifica”:

·        la dimensione del tempo era  poco presente, era difficile capire se andava al di là della durata della vita individuale, mancava il riferimento necessario al passaggio delle generazioni;

·        ci si riferiva alla vita dei singoli individui o comunque vi era ambiguità per via del linguaggio (es. “essere vivente” è individuo o specie?);

·        era presente il pregiudizio dell’evoluzione biologica come progresso verso il meglio;

·        era presente una finalizzazione (frequente l’uso del “per”)

Le “idee acquisite” e le “domande aperte” hanno permesso ai tutor anche di individuare la “zona grigia”, dove le conoscenze degli studenti sembrano essere lacunose, incerte o contenere degli “errori”. È su di essa che sono state indirizzate le proposte di laboratori di approfondimento. Ecco degli esempi:

“L’evoluzione è un adattamento”

Ridurre l’evoluzione all’adattamento non permette di rendere ragione di un ampio campo di fenomeni.

La selezione naturale sceglie gli individui più adatti a vivere in un determinato ambiente e alla riproduzione”

Un esempio di soggettivazione di un processo (del resto è questo il linguaggio in cui gli studenti sono immersi).

“Con l’evoluzione gli individui cambiano”

“… ogni volta che disegnavamo un pesce [riferimento all’attività di laboratorio], questo ogni volta cambiava forma”

Viene attribuito al singolo individuo un fenomeno che riguarda la popolazione attraverso le generazioni.

Un altro modo di rispondere alla domanda “che cos’hanno imparato gli studenti sull’evoluzione?” è di analizzare le domande che hanno rivolto agli esperti e che sono il frutto di un processo di elaborazione collettiva.

A Marco Ferraguti  biologo (evoluzione animale):

“L’evoluzione implica un miglioramento della specie o può avere anche risvolti negativi?”

Questa domanda è stata messa in discussione dall’esperto e gli ha dato modo di relativizzare l’idea di positivo e negativo nel contesto naturale.

“Il ritmo del cambiamento evolutivo è sempre stato uguale?”

È una questione molto dibattuta nella storia del pensiero evolutivo fino alla “teoria degli equilibri punteggiati”. 

“Fino a che punto si può spingere l’evoluzione: quanto un organismo può diventare diverso dai suoi progenitori?”

Può essere interpretata nel contesto delle dinamiche genetiche, ma pone anche un’istanza critica al concetto di specie, che deve tenere conto dell’estensione delle popolazioni non solo nello spazio geografico, ma anche nel tempo delle generazioni.

“Quali sono i caratteri che più frequentemente si modificano?”

Anche qui la risposta può essere un entrare nel merito delle dinamiche genetiche ma anche in quelle della relazione con l’ambiente.

“Qual è il confine tra la variabilità all’interno della specie e tra due specie distinte?”

Questione che richiede risposte “tecniche” di grande importanza concettuale.

“La specie umana subisce ancora la selezione naturale?”

Qui ritroviamo le tracce di quell’interesse per l’evoluzione che mostra il radicamento della ricerca scientifica nella cultura umana (che è poi natura umana).

A Telmo Pievani epistemologo  (evoluzione umana):

“Per quanto riguarda il DNA, che cosa ci accomuna e quanto siamo differenti dagli altri esseri viventi?”

Questa domanda mostra come una questione specificamente scientifica abbia una stretta relazione con un’istanza etica.

“Da quanto tempo l’uomo vive sul nostro pianeta?”

La risposta a questa domanda di nuovo mette in questione il concetto di specie nella dimensione temporale e di nuovo porta a una questione etica (siamo i padroni o gli ultimi arrivati?), come del resto accade anche alla domanda seguente:

“L’evoluzione umana è un’eccezione oppure valgono anche per l’uomo le leggi dell’evoluzione biologica?”

“Qual è stato l’evento che ha portato all’evoluzione della specie umana?”

Questione controversa nella comunità scientifica; perciò non solo interessante, ma capace di rendere evidente come la scienza sia un processo storico e sociale.

La scuola

Ci si può domandare quanto e come un’esperienza come questa riguardi direttamente la scuola, dal momento che conteneva elementi non appartenenti alla scuola in senso stretto: l’adesione volontaria, un orario pomeridiano, un tutor esterno, una finalizzazione del percorso alla comunicazione con un pubblico, la realizzazione di una delle due attività (il laboratorio per bambini) in luoghi e contesti esterni alla scuola. Tuttavia è anche vero che il progetto era stato assunto dalla scuola, che a fare da tutor erano anche due insegnanti di scienze della scuola, che le attività si svolgevano nelle sue aule, che il pubblico dei caffè-scienza era prevalentemente “interno”.

Insomma una collocazione di confine che ha evitato di avvalorare l’idea che “straniero è bello”, cioè che tutto ciò che viene da o porta fuori da la scuola è meglio di ciò che propone la scuola. Sovente accade che l’iniziativa meritoria di alcuni insegnanti di promuovere attività “esterne” per migliorarne la qualità della scuola, finisce per ritorcersi contro la scuola, e il paradosso è che ciò si verifica quanto più le iniziative sono di qualità, perché finisce per far risaltare il paragone con la quotidianità spesso faticosa della vita scolastica (resa ancor più faticosa da “tagli” di ogni tipo, frutto dell’incivile e antidemocratica politica di disinvestimento sulla cultura); dimenticando quanto la diversità dei contesti renda non paragonabili le due situazioni.

Un primo elemento pertinente a questa riflessione riguarda il laboratorio come contesto educativo.

Dal momento che si parla di laboratorio in riferimento alla scienza, e in particolare all’evoluzione, occorre chiarire che non stiamo parlando di situazioni di ricerca gestite da scienziati (come quella dei coniugi Grant alle isole Galapagos che osservano la relazione tra le forme dei becchi degli uccelli e le varietà dei semi disponibili per trarne esempi documentati di evoluzione in atto), ma di un laboratorio didattico non sperimentale, se si vuole “simulato”, in cui le osservazioni, i dati e le loro rappresentazioni sono già acquisite e si fa “come se…” si stesse nei panni dello scienziato che deve interpretarle per rispondere a delle domande, nate da altre ricerche precedenti, in quel processo senza fine che è la scienza. Si tratta quindi di domande “legittime”, secondo la distinzione di von Foerster, la cui risposta cioè non è nota, almeno a colui cui è posta. Ma anche chi conduce il laboratorio, se pure conosce l’argomento, non conosce le risposte che verranno date né il percorso che il gruppo farà per arrivarci: è il processo e non il prodotto l’oggetto del lavoro del formatore.

Rispetto al processo di co-costruzione di conoscenza il suo atteggiamento è di ascolto: il suo ruolo non è sanzionare “giusto/sbagliato” filtrando solo le risposte che già conosce nelle formulazioni che già conosce, ma di innescare, contenere, far interagire, restituire, aprire conflitti cognitivi, stimolare l’argomentazione, utilizzando i tentativi e gli errori per favorire l’apprendimento.

Proprio perché riguardano l’utilizzo di conoscenze e abilità, le competenze non possono essere costruite prima del loro utilizzo, ma vengono acquisite in contesti problematici reali o quanto meno realistici.

Il laboratorio, come pratica didattica in cui gli studenti sono soggetti attivi, permette di contestualizzare l’apprendimento ovvero di sviluppare competenze scientifiche, in questo caso competenze sull’evoluzione  agite nel ruolo di formatori (laboratori per bambini) o di animatori  culturali (caffè-scienza).

Rispetto a queste ultime gli studenti, nelle loro meta-riflessioni sull’esperienza di laboratorio vissuta come partecipanti, hanno ricavato alcune “regole del gioco” che hanno poi messo in pratica quando si sono trovati loro a condurre il “gioco”:

·        fai credere a chi hai di fronte che la risposta a una domanda sia facile e conosciuta e dimostragli che non lo è; utilizza questo spiazzamento per innescare una ricerca

·        stai attento a non dare per scontato che chi hai di fronte conosca i significati delle parole che usi

·        resisti all’impulso di rispondere tu direttamente alle domande: rilanciale o fanne il punto di partenza per nuove ricerche

·        quello delle domande-risposte è un buon gioco, ma è meglio ancora se c’è qualcosa da fare, intendendo con questo un’azione concreta

Un altro aspetto che riguarda la scuola è la ricerca autonoma degli studenti come contesto di apprendimento ma anche di sviluppo culturale.

Nella scuola (come del resto nella famiglia) si registra spesso una mancanza di autonomia (e di responsabilità) dei bambini e dei ragazzi. Spesso è questa la motivazione, esplicita o implicita, per non affidare agli studenti spazi di autonomia. Ma in questo modo ci crea un circolo vizioso, perché gestire spazi di autonomia è l’unico contesto in cui si possano sviluppare competenze legate all’autonomia e alla responsabilità.

In questa esperienza si è cercato di innescare un piccolo circolo virtuoso cercando un difficile equilibrio tra l’autonomia degli studenti e un’azione di sostegno che potesse evitare quei fallimenti che poi diventano le ragioni che inducono a rinunciare alla ricerca di autonomia, a cominciare dai ragazzi stessi.

L’azione dei tutor è stata indirizzata a creare condizioni per l’iniziativa degli studenti, spesso fornendo strutture e introducendo vincoli, e restituendo una valutazione critica del lavoro fatto, dove “critica” non significa negativa, come ormai purtroppo sembra sia nel linguaggio comune, ma cognitiva in senso kantiano (dire “questo è un tavolo” per identificare la qualità specifica di un oggetto è un giudizio critico).

Nella nostra “cultura dell’organizzazione” scolastica sembra non essere identificato il luogo della ricerca autonoma degli studenti: le attività pomeridiane? l’adesione volontaria? il compito a casa? Nei film americani si vedono spesso adolescenti che lavorano a casa e nei laboratori della scuola in solitaria per costruire ricerche che dovranno consegnare a scadenza e su cui verranno valutati: può essere un modello da tenere presente?

Le reazioni degli studenti

Prima di esprimere le nostre valutazioni come percezioni di gestalt complessive, vediamo alcune indicazioni che emergono da ciò che hanno scritto gli studenti alla fine del percorso. Quando è stato richiesto loro di segnalare un episodio di successo in tutto il percorso, le scelte sembrano essersi riferite prevalentemente a ciò che è stato oggetto di attività; attività di laboratorio in cui gli studenti sono stati chiamati ad agire (e non solo con l’intelletto); attività di progettazione, di ricerca, di realizzazione di prodotti comunicativi (presentazioni al computer, dialoghi teatrali…) nella articolazione dei lavori di gruppo.

Per quanto riguarda le “domande rimaste aperte” in alcuni casi sono state riproposte questioni che erano state affrontate negli interventi degli esperti. Viene da pensare che, per quanto sia stata riconosciuta la loro competenza, non solo scientifica ma anche comunicativa, vale a dire la loro capacità di far comprendere concetti complessi anche da un pubblico di non esperti, l’apprendimento passa con più difficoltà là dove all’ascolto non si aggiunge un qualche tipo di attività personale.

In altri casi si è trattato di richieste di ulteriori approfondimenti “dentro” i discorsi proposti dagli esperti (es. “È possibile che altri primati abbiano intrapreso un’evoluzione simile a quella umana (posizione eretta) ma si siano estinti invece di procedere nel percorso?”)

C’è stata poi la riproposizione di alcune questioni da un punto di vista culturale generale, “umano”, piuttosto che strettamente disciplinare (es. “Quale è stato il cambiamento all’interno dell’organismo umano che ha portato alla definitiva evoluzione umana?” “Come è possibile che un frutto o un animale abbia il DNA così simile al nostro e una forma completamente diversa?”)

Ci sono state anche domande che prendevano spunto da aspetti specifici del discorso sull’evoluzione, ma esprimevano le proiezioni, le incertezze, le curiosità sul futuro di chi si colloca in un momento della vita aperto al futuro.

Conclusioni e verifiche

Il problema della verifica ce lo eravamo posto, ma, come sempre accade per esperienze che non seguono la forma canonica della scuola, nessuno degli strumenti di solito utilizzati ci dava garanzie di verificare effettivamente l’apprendimento, ovvero un cambiamento nella struttura cognitiva delle persone (cambiamento che è anche affettivo, nonostante l’uso linguistico suggerisca, e alla fine induca, separazione tra le due dimensioni). Una interrogazione o un test fa passare le idee degli studenti attraverso il linguaggio degli insegnanti, lasciando il dubbio su quali siano le idee degli studenti, ma soprattutto costituisce un contesto essenzialmente diverso da quello in cui si è svolto il percorso di apprendimento, negando la possibilità di verificare ciò che interessa di più, ovvero le competenze eventualmente acquisite, perché le competenze sono per definizione legate al contesto.

Perciò ci siamo affidati ad altre forme, innanzitutto l’osservazione. Ciò che emerge da una valutazione critica di queste è la convinzione che gli studenti abbiano acquisito maggior consapevolezza delle proprie potenzialità. La constatazione emerge, in particolar modo, dall'osservazione di un gruppo piuttosto consistente, proveniente dalla stessa classe, per le ricadute positive nel lavoro curricolare di scienze. È aumentata la disponibilità a esprimere le proprie opinioni, curiosità  e interessi. Si può ora  parlare di partecipazione attiva e propositiva.

All'inizio dell'anno scolastico successivo 2010–2011 gli stessi studenti hanno manifestato spontaneamente il desiderio di riprendere il lavoro pomeridiano con l'esperto, dimostrando in tal modo il loro apprezzamento per l'attività svolta. Ma questo potrebbe essere soltanto (anche se già sarebbe una indicazione significativa) una preferenza per un contesto di apprendimento meno “formale” (rispetto alla routine scolastica). Così è stato proposto a questi studenti, su base volontaria,  di organizzare e gestire una iniziativa di orientamento rivolta a ragazzi di terza media e ai loro genitori, che ha preso la forma di un “happy hour evoluzionistico”: si trattava cioè di riproporre la situazione del “caffè-scienza” a sei mesi dalla fine del lavoro.

Un primo dato è che si sono presentati praticamente tutti i partecipanti dell’anno precedente e perfino alcuni nuovi. Ma soprattutto i vincoli di tempo, sia dell’iniziativa pubblica sia della preparazione, sono diventate risorse per la verifica, in quanto hanno costretto a “distillare il succo” dell’esperienza fatta.

Il “compito di realtà” che abbiamo proposto ci sembrava particolarmente interessante dal punto di vista delle competenze: costruire una situazione che rispondesse al contesto “orientamento”, ovvero fornisse agli studenti di terza media e ai loro genitori un esempio di ciò che si fa in quel liceo (in questo senso anche una “narrazione”), e che li coinvolgesse in una esperienza di interazione cognitiva (in questo senso anche un “laboratorio”). Si trattava di organizzare un “gioco di domande” che potessero spiazzare e nello stesso tempo ingaggiare gli interlocutori in un possibile percorso di ricerca; per farlo occorreva una implicita ricostruzione e valutazione di quanto appreso nella propria esperienza, in relazione a una esplicita selezione di ciò che avrebbe potuto funzionare come stimolo per altri meno esperti, collocandosi sulla linea di confine tra ciò che già sanno e ciò che non sanno ancora, evitando di suscitare da una parte un senso di estraneità che allontana e dall’altra di eccessiva familiarità che disinnesca la curiosità.

L’esito è stato positivo ai nostri occhi di tutor: i ragazzi hanno risposto proponendo le loro idee e discutendo le nostre in merito alla struttura dell’incontro, riutilizzando anche l’esperienza fatta nei laboratori proposti ai bambini, e mostrando di padroneggiare i contenuti scientifici.

È accaduto anche che, verso la fine dell’incontro di preparazione che doveva mettere a punto le domande da fare all’esperto nell’ “happy hour evoluzionistico”, emergessero domande che ai nostri occhi non erano adeguate, troppo “raffinate” e “difficili” per il pubblico; abbiamo pensato che i nostri studenti non fossero in grado di tenere conto del contesto; in realtà erano domande “legittime” che si stavano ponendo e ponevano ai tutor  “qui e ora”, perché di nuovo personalmente interessati ai problemi e alle tematiche evoluzionistiche. Per noi una verifica positiva anche questa..