Marcello Sala

LA SBERLA

-pubblicato in- 

COOPERAZIONE EDUCATIVA n. 3 / 1999

La Nuova Italia

 

Quando il rapporto tra i corpi sta nella dimensione del conflitto

 

Una amica maestra mi racconta di colleghe pateticamente ridicole nella ripetitività del gesto di aprire la borsetta per regalare caramelle, carezze e sorrisi ai bambini. Il giornale mi racconta di scoloriti e irreprensibili professori che improvvisamente picchiano selvaggiamente i bambini procurando loro gravi lesioni. Dolcezza e violenza, femminile e maschile? Quanto segue è un percorso di memoria e riflessione messo in moto da una domanda: c'è una relazione tra le maestre delle caramelle e i professori delle botte?

TENERE LA DISCIPLINA

Una volta si discuteva molto su autoritarismo e permissività. Poi è venuta la psicologia e sono cambiate le categorie del discorso, che hanno perso le connotazioni etico-sociali: oggi non si parla più di "tenere la disciplina", e forse si perde qualcosa in profondità; che cosa nasconde infatti una parola che copre due aree semantiche apparentemente distanti come quella del corretto comportamento e della suddivisione del sapere? [1].

Nelle varie fasi di un compiuto processo formativo sono implicate funzioni irrinunciabili (come l'istituzione e lo scioglimento del setting in quanto "area potenziale" protetta dove sperimentare/rsi, la definizione delle regole, lo spiazzamento cognitivo, la elaborazione del necessario distacco, la rottura della dipendenza, l'accesso alla realtà…) che nel linguaggio degli psicologi appaiono riferite a un registro "paterno" [2]. Se si è convinti di questo, allora un insegnante, maschio o femmina che sia, ha il problema di come gestirle nella relazione educativa.

Insegnanti e anche genitori, gli insegnanti forse più dei genitori perché i bambini non sono neppure "di loro proprietà", continuano ad avere, se non a porsi, il problema di queste parti della relazione educativa che richiedono distinzione, separazione, opposizione, e generano conflitto.

La comunicazione educativa è, anche se non solo, un fatto corporeo. Che cosa comunica il mio corpo di insegnante nella sua specificità di ruolo? E come comunicano i corpi la qualità conflittuale della relazione educativa nei momenti in cui lo è?

Se penso a me, penso subito alla voce, al suo volume, tono e timbro, e alle posture che ne accompagnano l'emissione, come strumento di esibizione di forza; e lo sfondo che subito mi appare è quello etologico: i combattimenti ritualizzati con cui si stabiliscono le relazioni all'interno di un gruppo sociale e si mantiene quell'organizzazione che è vitale per la sopravvivenza.

Se penso a me, penso alla regola incarnata nei limiti di tolleranza dell'educatore. Discorso certamente ambiguo, che apre la possibilità della arbitrarietà e della prevaricazione se non sostenuto dalla "ragionevolezza", dalla socialità e dal dialogo, che ancora una volta passano attraverso una diversa voce e un diverso modo di usare il corpo. Non c'è dialogo senza un corpo che rende manifesta la volontà di coinvolgersi attraverso il contatto.

Ma il contatto con il tatto non sempre avviene con tatto. Ricordo quando Francesco lo tirai per i capelli, e lo tenni così per più di dieci minuti, lui alto dieci centimetri più di me, per staccarlo dal corpo del compagno con cui si azzuffava selvaggiamente davanti a scuola, cioè, secondo il nostro preside, fuori dal territorio di nostra responsabilità. "E se, sempre fuori di scuola, mi fa picchiare da suo fratello malavitoso?" era il pensiero che mi pungeva molesto. E invece Francesco, che io perseguitavo non concedendogli quello che i miei colleghi accoglievano come liberazione, che cioè finalmente, senza "disturbare", si facesse i fatti suoi nel suo angolo disinteressandosi della vita della classe, Francesco a distanza di anni mi ricorda come l'unico insegnante "bravo": perché? Forse perché disponibile a entrare in contatto con lui, magari attraverso l'unico linguaggio del corpo a lui comprensibile?

No, qui non racconto le storie di una relazione corporea felice, quelle che vogliono convincere che la psicocomotricità o l'educazione ai sentimenti (quelli buoni naturalmente) sono le uniche attività veramente necessarie nella scuola; qui racconto storie sporche, come quella volta che diedi una sberla a un bambino. Un'altra storia di insegnante maschio che picchia i bambini?

CIRO DEI GUAI

Ciro, 9 anni, era uno di quelli che, dopo un po' che guidi campi-scuola come animatore, riconosci subito come destinato ai guai. Non sto parlando di quei ragazzini che "disturbano" sempre a scuola, che i primi giorni del campo ti rendono dura la vita, e che poi invece "svoltano" nel modo più imprevedibile, impastando il pane, facendo i massaggi ai compagni, o costruendo capanne, e diventano "mitici". No, Ciro era di quelli che i guai se li portano da qualche parte dentro, e quindi non cambiano stando fuori di scuola in campagna. Li tieni d'occhio continuamente sperando che il guaio succeda quando stanno con la maestra.

Irritabile sempre ai limiti dell'esplosione isterica, nel torrente non è attento a ciò che gli sta intorno e si riempie gli stivali di acqua; reagisce urlando piangendo e non facendo nulla per svuotare gli stivali. E io lo vedo già che si sfracella sulle rocce. E poi al ritorno quando penso che anche stavolta è andata bene, mi accorgo con terrore che ha tra le mani un bellissimo acuminato aculeo d'istrice lungo venticinque centimetri: un'arma perfetta. Non faccio in tempo a pensare a che cosa gli dirò per toglierglielo che già scoppiano le urla e il pianto della compagna ferita sul viso vicino all'occhio da una maldestra aggressività motoria più che da un'intenzionalità aggressiva.

Non commetto l'errore di chiedergli (o imporgli, che è sarebbe solo il passo successivo) di consegnarmi l'arma, gliela sfilo improvvisamente di mano prima che si accorga delle mie intenzioni. La reazione è violenta. Mi si scaglia contro tentando di riprendersi l'aculeo che io tengo fuori dalla sua portata. Mi percuote (per fortuna è un piccoletto) e urla che è suo; io con voce assolutamente calma e guardandolo in viso gli dico che non voglio portarglielo via, che io ne ho tanti a casa, ma che non posso lasciarglielo tra le mani perché è troppo pericoloso, come si è già dimostrato. Lui grida e piange rabbiosamente, tenta invano di riafferrare l'oggetto che io, a un certo punto, senza che se ne accorga, faccio sparire. Lo rivuole, lotta per riaverlo e io gli dico, sempre più calmo, che non posso darglielo anche perché lui è troppo agitato.

La scena prosegue ossessiva per almeno 30 minuti: il corpo di Ciro, frenetico nella sua violenta esplosione di energia senza controllo, contro il mio corpo che si muove il minimo indispensabile, saldo e insieme elastico nel resistere. Tutti gli altri, compagni, maestre, animatori, si sono allontanati: è un problema mio. Sono calmo, assolutamente convinto che non posso, non devo, non voglio ridargli in mano quell'aculeo.

Comincio a chiedermi però quale sarà la fine. Forse sentendomi in forze e tranquillo spero in una conclusione per sfinimento suo. E a un certo punto credo che ci siamo arrivati perché mi lascia. Mi allontano, ma dopo pochi metri mi è di nuovo addosso. Ricomincia, assolutamente uguale a se stessa, la sequenza di aggressione, contenimento, urla, risposte ragionevoli.

Quasi in un'altra dimensione da quella corporea, nella mia mente scorrono pensieri ragionati, ripasso letture psicologiche, e in fondo mi complimento per non aver reagito con violenza alla violenza, apprezzo la mia capacità di mantenere il controllo, penso che un corpo scatenato possa trovare quiete solo incontrando la quiete. Sì, ma resta il problema di trovare una fine: è chiaro che la mossa finale spetta a me, ma quale?

Una delle maestre, passando accanto, dice, non so se a lui o a me, che ho troppa pazienza e che lei a quest'ora gli avrebbe già menato. L'evidenza si impone subito: è quella la fine, l'unica possibile. In pochi attimi mi libero degli scrupoli etici, della deontologia professionale: mi sento la coscienza a posto perché ho la consapevolezza dell'assenza in me di ogni intenzione violenta, dentro di me non trovo nulla contro Ciro; non sono al limite della sopportazione, non mi devo difendere da lui, provo compassione per lui che sento sofferente.

La sberla è forte, della giusta forza, un gesto efficiente. Ciro resta immobile, cambia colore, un attimo dopo i suoi occhi si riempiono di lacrime: ho l'immagine di un palloncino pieno d'acqua che, bucato, si sgonfia.

E qui commetto l'errore. Il successo mi fa strafare: il bravo educatore sa usare la forza e la tenerezza, sa essere autorevole e accogliente, sa punire e consolare. Così, per un'idea di perfezione educativa, stringo Ciro tra le mie braccia sul mio petto. Forse mi aspetto di sentire lo sciogliersi della sua tensione dolorosa nel calore protettivo del mio abbraccio: lui si ribella e ricomincia ad agitarsi. Prima che io possa formulare qualsiasi pensiero arriva una maestra e, troppo in fretta per capire se è una decisione mia o sua o di entrambi, e se è una decisione, glielo passo.

Il mattino seguente lo rivedo: sta con gli altri, si muove, parla, non evita il mio sguardo e non lo provoca: insomma nessuna traccia dell'accaduto. Rimozione di un rapporto con me troppo conflittuale? negazione di un vissuto troppo violento? A tavola si rivolge al compagno che gli sta accanto con il tono diretto e un po' eccitato dei bambini quando parlano tra di loro dei loro traffici. Colgo brandelli del suo discorso "… ho trovato un'altra spina [l'aculeo d'istrice], ma gli brucio la punta così quel signore là non si arrabbia".

Fine dell'agitazione isterica, della violenza aggressiva, riassunzione di controllo, sottomissione alle ragioni dell'altro: per Ciro il conflitto si era risolto con l'accettazione della regola dentro un rapporto asimmetrico di autorità. Ma questo non era stato possibile fino a che questo rapporto non era stabilito dentro un linguaggio corporeo. A me ritorna ancora una volta l'immagine, tante volta vista nei documentari televisivi, dello scontro ritualizzato tra animali maschi che si conclude, quando il divario di forza diventa manifesto, con i segnali di sottomissione del più debole che inibiscono l'aggressività del più forte.

A livello di vissuto psicologico il conflitto era una spirale senza uscita. Quale "ragione" poteva trovare Ciro per cedere? perché avrebbe dovuto accettare quello che per lui era un sopruso (gli rubavo un prezioso oggetto che lui aveva trovato, un oggetto di grande valore nella relazione con compagni e adulti)?

La soluzione poteva venire solo da qualcosa che rompesse lo schema, spostando la situazione fuori dal quadro definito; ma, in una interazione così fuori dal controllo razionale, quel qualcosa non poteva essere certo una meta-riflessione capace di rielaborare attraverso il distacco emotivo. Il motivo per cedere non poteva che venire da un evento che si imponesse per necessità naturale, che potesse mettere in moto reazioni più ancestrali a livello biologico. Un evento del genere non poteva che passare dalla fisicità del corpo. La mia supremazia, quella che a scuola esercitavo soprattutto con la voce e gli altri segni complementari del corpo, per un bambino difficile in una situazione difficile, aveva bisogno di manifestarsi attraverso la pura forza fisica.

DOMANDE

Per me la domanda interessante è: perché ci ho messo tanto ad arrivarci? Perché ho lasciato che lui stesse così male, incastrato in un conflitto cui non poteva sottrarsi se non punendo se stesso e che non si poteva risolvere con il raggiungimento dell'oggetto del desiderio?

Quello che mi ha impedito di dare subito quella sberla credo sia stata un'immagine di me stesso come insegnante democratico, non violento; una figura cresciuta, nella mia storia, in opposizione a un autoritarismo arrogante e incivile. Come può essere un buon educatore un educatore che picchia i bambini? Uno stereotipo, un'immagine cioè generalizzata e decontestualizzata, uno stereotipo potente, frutto della cultura progressista, ma anche forse, in strati più profondi, di quella cultura per cui abbiamo tante volte visto mamme difendere figli stupratori, quella cultura che appare come una estensione abnorme della difesa del piccolo, che, ignorando l'etica, si radica nella biologia.

Forse c'è anche dell'altro nella mia inibizione alla sberla. Penso alle maestre che regalano caramelle: Ciro avrebbe accettato caramelle, o carezze, o sorrisi, in cambio della rinuncia al suo aculeo? avrebbe accettato tenerezza come compensazione della irragionevole protervia di un adulto che glielo voleva rubare?

D'altra parte quella sberla potrò mai farla passare come "soluzione creativa di un conflitto"? Mi racconto questa storia e non so se ho fatto bene o male, per dirla in un linguaggio obsoleto (oggi dovrei dire che non so se sono stato un educatore "sufficientemente buono"). Quello che so di me è che non voglio essere né la maestra che regala caramelle né il professore che picchia i bambini.

Perché la prima mi si mostra frustrata nella sua vita familiare e svalorizzata dall'ambiente lavorativo? e perché il secondo, prima del tragico episodio, è "una così brava persona, seria e posata". L'una imposta il suo incontro con i bambini sulla seduzione, creando benessere, blandendo il corpo, l'altro non si oppone ai bambini, reprime le proprie reazioni nei loro confronti fino a un livello insopportabile di tensione che esplode d'improvviso senza controllo possibile: la rinuncia all'aggressività (dal latino "andare verso" il corpo dell'altro) lo porta allo scoppio della violenza.

Entrambi fuggono il conflitto: la prima, prendendo l'iniziativa, si mostra "buona", per suscitare risposte di riconoscenza e affetto, l'altro in negativo evita le occasioni di essere percepito come "cattivo". E se entrambi esprimessero un doloroso bisogno di essere amati, in circostanze e ruoli che forniscono loro possibili amanti nelle persone dei loro alunni?

Ma il conflitto è insito nella asimmetria del rapporto educativo e quando comunque riaffiora e diventa insopportabile, la maestra delle caramelle distrugge sé stessa con la depressione, il professore distrugge il ragazzino. E non so se ci aiuta l'elogio del conflitto che sentiamo fare da qualche tempo nei corsi di aggiornamento dallo psicologo o dal pedagogista, perché quando ci rendiamo conto che il conflitto fa male, ci scopriamo fragili e indifesi.

C'è sicuramente in tutto questo una componente culturale inseparabile da quella psicologica. Il discorso, fatto dalla parte dei maschi, è che vogliamo anche noi essere oggetti d'affetto nella materialità del rapporto corporeo. Ai tempi dei nostri nonni o padri, nessun uomo si aspettava questo dalla relazione con i propri figli; non su questo si giocavano aspettative, stima di sé, saturazione di bisogni corporei. Il corpo è un prodotto culturale; il rispetto non è solo una categoria morale: tra bambini e padre, attorno al registro del "rispetto" si strutturava tutto un linguaggio corporeo, il cui riferimento poteva essere un'estetica dell'armonia e dell'ordine, che richiede distinzioni e forme nel modo di rapportarsi nello spazio fisico della relazione. Oggi il "rispetto" come organizzatore di senso non funziona più, perché non è più un valore positivo. Al rispetto associamo immediatamente caratteristiche maschili negative: l'autoritarismo, la dominanza, la negazione dei sentimenti… E mi domando se non sovrapponiamo l'attacco a una inaccettabile disparità di potere a favore dei maschi al non riconoscimento di una reciproca dipendenza nella diversità, di una complementarietà tra maschile e femminile.

Così noi maschi non sopportiamo più la distanza con i corpi dei bambini. Scopriamo dimensioni dell'accudimento finora  riservate al femminile; scopriamo il piacere del contatto dei corpi e vogliamo sperimentarvi il disordine della fusionalità.  Così, mentre le madri anche loro "portano a casa lo stipendio" o si spendono nella "costruzione della città" senza smettere di essere mamme, nelle nostre case i padri o continuano a non esserci o si provano a fare le mamme.

Ma le sberle a Ciro chi le dà?

 



[1]   <<Le istituzioni disciplinari hanno finito col secernere un apparato di controllo che ha funzionato come microscopio della condotta; le divisioni puntuali e analitiche ch'esse hanno realizzato, hanno formato, intorno agli uomini un apparato di osservazione, di registrazione e di addestramento. […] Appare, attraverso le discipline, il potere della Norma […] Il momento in cui si è passati da meccanismi storico-rituali di formazione dell'individualità a meccanismi scientifico-disciplinari, in cui il normale ha dato il cambio all'ancestrale, e la misura ha preso il posto dello status, sostituendo così all'individualità dell'uomo memorabile quella dell'uomo calcolabile, questo momento in cui le scienze dell'uomo  sono divenute possibili, è quello in cui furono poste in opera una nuova tecnologia del potere e una diversa anatomia politica del corpo.>> (Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi 1976, 1993).

[2]   Paolo Mottana, Formazione e affetti, Armando 1993.