In
una grande manifestazione dedicata alla divulgazione scientifica, accanto a
conferenze e dibattiti con personaggi di alto livello nei vari campi
disciplinari, ci sono spettacoli, eventi e laboratori. Sulla
guida trovo l’indicazione di un laboratorio il cui oggetto sono principi
della fisica coinvolti nella pratica delle arti marziali orientali. Mi attira
l’idea: le arti marziali, e il tai chi
soprattutto che ha il vantaggio della lentezza, rendono evidente e anzi
spettacolare (agendo quindi anche su componenti estetiche ed emotive) la dinamica
delle forze e degli equilibri dei corpi. Il
laboratorio è già iniziato e mi metto da una parte a osservare. La situazione
mi appare per certi versi familiare (pratico tai chi da una decina di anni):
un grande tatami sui cui bordi stanno sedute, scalze, delle
persone di varia età; al centro un personaggio vestito con il kimono rituale sta parlando e ogni
tanto mostra ciò di cui sta parlando. La qualità della esecuzione dei
movimenti mi dice trattarsi di qualcuno che pratica da molto tempo,
sicuramente un buon istruttore. Però
qualcosa non mi quadra. Nella cultura di queste pratiche, del tai chi almeno, c’è poca comunicazione
verbale; non ne ho conoscenza diretta ma, per quello che so, in Cina, dove il
tai chi viene praticato nelle piazze dal
“popolo”, il modo tradizionale di imparare è per imitazione: il maestro
esegue e gli altri imitano, letteralmente senza parole. Io non riuscirei a
imparare così e credo che non si tratti solo di un problema di stile personale
di apprendimento, ma anche di un fatto culturale: in occidente gli istruttori
e anche i maestri aggiungono indicazioni verbali. Oltretutto ne nasce un interessante
problema di linguaggio, tra descrizioni analitiche, molto precise ma poco
comprensibili a chi non ha dimestichezza con il lessico della anatomia o
della biomeccanica, e l’uso di immagini legate alla tradizione, molto
suggestive (nel senso che sono capaci di fornire delle Gestalt complessive) ma a rischio di interpretazioni soggettive e
devianti (chi di noi sa come l’airone bianco dispiega le ali o la bella signora
della leggenda pesca l’ago d’oro dal fondo del lago?). Ma questa è un’altra
faccenda; torno al laboratorio. Di
istruttori ne ho conosciuti un certo numero e nessuno parla così tanto. La
mia insegnante, se le chiedo perché nel gioco delle spinte non riesco a
tenere il “pieno” e bla bla
bla…, mi risponde ponendosi di fronte a me,
eseguendo una spinta apparentemente vaporosa che mi fa balzare via, poi mi
chiede di abbassare la spalla (potrebbe farlo con un colpetto della mano) o
di curvare il dorso “a tartaruga” e poi di nuovo mi spinge, questa volta
facendo un po’ più di fatica a spostarmi: “hai capito adesso? prova ancora.” Mentre
così penso, l’istruttore ha lasciato il posto a un giovane animatore che interroga i presenti. Uso il verbo con
assoluta intenzionalità perché è quello che descrive la struttura
comunicativa che osservo; in posizione autoritaria data dal ruolo (sta in
piedi al centro e indossa la maglia che rende riconoscibili gli appartenenti
allo staff della manifestazione) il
ragazzo fa delle domande cui qualcuno dei presenti tenta timidamente di
rispondere ricevendone in cambio parole di approvazione o di censura (lui
sorride, ma sempre disapprovazione è). Il
suo ruolo autoritario è assolutamente convincente; troppo direi. Dopo una premessa su “urto elastico e
anelastico”, lascia cadere una pallina sul pavimento invitando a osservare il
rimbalzo. Poi la fa cadere sul tatami
e dice “Avete visto [corsivo mio]
come il tatami si deforma quando è
colpito dalla pallina?” e, incredibilmente, molti annuiscono. Ora, solo un
qualche sistema ottico molto complicato e notevolmente sensibile potrebbe
rendere visibile una deformazione
di frazioni di millimetro che si produce in frazioni di secondo. L’unica cosa
che si vede è semmai che la pallina
rimbalza meno in alto che sul pavimento: è questo il fenomeno che si dovrebbe
spiegare; e infatti lui conclude “è per questo che la pallina rimbalza meno”.
Mi domando (e mi guardo intorno invano per vedere se qualcuno domanda a lui):
ma, se rimbalza di meno, perché atleti e acrobati per saltare più in alto
utilizzano pedane elastiche anziché pavimenti in pietra? E
poi anche lui parla e parla, fornendo spiegazioni, ma spiegazioni di quali
fenomeni, se fenomeno viene dal
greco faino
che significa “faccio vedere”? Sono
spiegazioni che abbondano di termini appartenenti al linguaggio della fisica.
Ad esempio (adesso finalmente mostra)
inclina il corpo verso la parete e vi si appoggia con il braccio teso e
chiede ai presenti di “descrivere” la situazione in cui lui esercita una
forza (o una spinta?) contro la parete; boccia le risposte, che sono
sinceramente descrittive ma forse un po‘ troppo naif, tranne una (che premia con un “bingo!” a indicare che
trattasi di quiz, la forma
televisiva dell’interrogazione scolastica: diverso contesto ma identica
struttura comunicativa); la risposta è “un vettore”, il che gli dà modo di
partire con una definizione da manuale (nel senso del manuale di fisica),
completa di “intensità”, “direzione “ e verso”; e qui il linguaggio preciso
della fisica non coincide con quello quotidiano in cui “direzione” ingloba
anche il “verso”, e forse bisognerebbe tenere conto che i presenti non sono
fisici di professione, ma appartengono al popolo dei “quotidiani”. Potrebbe
essere una scelta comunicativa quella di rinominare il quotidiano usando il
linguaggio rigoroso della scienza. Senonché subito
dopo, trasportato dall’oratoria, l’animatore non utilizza termini da manuale
come “composizione delle forze” o “somma vettoriale” bensì “schivare” o
“scaricare di lato”: nessuna reazione dei presenti (che ormai temono un
brutto voto). E poi il nostro eroe si lascia un po’ troppo andare all’uso di
gesticolare; per la verità i gesti sono molto espressivi e significanti ma
l’uso mi pare troppo italiano, molto fisico, se vogliamo, e poco “da fisico”,
identità cui lui sembrava tenere fino a
poco fa. A
un certo punto subentra l’istruttore di arti marziali che spiega con molte
parole come i principi testé esposti si ritrovino nei gesti che mostra. E
finalmente fa alzare le persone e le mette in azione a coppie a sperimentare
dal vivo. Ma a questo punto la comunicazione verbale si sposta completamente:
sono osservazioni, indicazioni e consigli su come eseguire correttamente i
gesti, ma ciò avviene nel linguaggio della pratica motoria (quello che si usa
in palestra) e non della fisica. Mi
faccio una serie di domande: perché la coppia di conduttori non utilizza la
straordinaria risorsa di poter usare lo strumento di esplorazione del mondo
più vicino all’esperienza delle persone, la percezione del proprio corpo,
oltretutto in una situazione che rende le situazioni percepite
particolarmente dilatate, nitide, trasparenti all’osservazione? Perché non
propongono alle persone di provare con il proprio corpo delle situazioni e
poi, dopo, di descriverle, analizzarle,
scomporle e ricomporle, e poi, attraverso un processo comunicativo, a
rappresentarle in un linguaggio condiviso, cui la scienza può fornire la
risorsa del rigore? Non era dunque questa la (buona) idea di questo
laboratorio? Faccio
un esempio di quello che ho in mente io: l’istruttore si pone di fronte a una
persona e le chiede di spingerlo. La persona si ritrova qualche metro più in
là magari a terra. Si riprova rallentando i movimenti. Poi l’istruttore dà
qualche consiglio molto pratico, tipo “allarga le gambe”, “tieni dritta la
schiena”, “piega le ginocchia”, “non spingere oltre un certo limite” ecc. e
si riprova. A questo punto si chiede alla persona se ha percepito delle
differenze e quella magari risponde che sì, in effetti si ritrova, sorprendentemente,
tuttora in piedi e di fronte all’istruttore. Si riprova, chiedendo alla persona
di porre attenzione a qualche elemento della propria postura o del proprio
movimento: può per esempio seguire lo spostamento del proprio baricentro,
sapendo più o meno dove si trova. Si può chiedere a qualcuno di osservare la
coppia da fuori cercando di notare le differenze tra posture e movimenti
dell’istruttore e dell’avversario e di provare a spiegare perché accade ciò che accade (ma per
questo bisogna pur che accada). E con questa domanda si entra nel campo della
scienza. A questo punto si può anche introdurre, come possibile “mappa”
descrittiva ed esplicativa, la rappresentazione che ne danno i fisici e si
può spingere verso un sempre maggior rigore formale nel linguaggio, purché
ciò avvenga attraverso una interazione comunicativa nel gruppo che costruisce
una rappresentazione condivisa. Tranne
l’ultimo passaggio, non è un metodo che invento io che faccio il formatore: è
più o meno quello che farebbe un istruttore in palestra. E allora la
meta-domanda legittima che mi pongo è: come mai l’istruttore di tai chi cambia in maniera così profonda
il suo modo di operare? Se
guardo il comportamento dei due conduttori, astraendo per un momento dal contesto,
che cosa vedo? Beh, vedo… una lezione,
la vecchia intramontabile lezione, quella che dal docente universitario in
giù si arricchisce dei nuovi media con l’uso delle “TIC” (lavagna luminosa, Power Point ecc.) e che qui aggiunge anche
il movimento del corpo, ma sempre per di-mostrare
quanto prima si è esposto in modo verbale. Nella logica della lezione gli
esempi sono sempre rigorosamente preceduti dall’esposizione della teoria; mai
si farebbe un esempio per poi dopo
interrogarsi su ciò di cui è esempio
(Bateson). Il
gesticolare dell’animatore dà solo una misura della strada che deve ancora
fare per diventare un erogatore di lezioni accettabile; per arrivarci magari
dovrà curare di allontanarsi da quella cultura del quotidiano che ancora
inconsapevolmente utilizza il corpo per le rappresentazioni, di eliminare le
parole come “scaricare la spinta” e di aggiungere invece qualche equazione. Per
non alimentare equivoci dico subito che ritengo la lezione una modalità comunicativa
utile e funzionale. Aggiungo che forse sarebbe ora di smettere di dare per
scontato che chiunque ha un certo sapere sappia fare buone lezioni e
cominciare a pensare che invece questa, come ogni altra forma comunicativa,
richiede talento e formazione, con tanto di studio ed esercizio, di
apprendimento per tentativi ed errori, di osservazione e supervisione critica
ecc., almeno di cura. Sempre
per non alimentare equivoci: io apprezzo le buone lezioni, le cerco; quando
si tratta di grandi personaggi sono piuttosto insofferente all’idea che si
“apra il dibattito col pubblico”: magari non mi capiterà un’altra volta nella
vita l’occasione di incontrare uno così, desidererei che fosse dato il
massimo spazio possibile all’ascoltarlo, senza disturbi. Ma
io stavo parlando non della conferenza di un premio Nobel, ma di una manifestazione
di divulgazione scientifica, e, al suo interno, di un laboratorio. È una questione di contesti. Uscito
anzitempo di lì, decido di assistere a uno “spettacolo” (così viene indicato
nella guida). In una metà della piccola stanza sono ammassate almeno trenta
persone, i bambini sono seduti davanti e niente scuote la loro attenzione,
neppure l’ingresso e la sistemazione di nuovi bambini. Nell’altra
metà della stanza che funge da palcoscenico si esibisce una signorina pallida
dai capelli rossi, tanto inglese che parla inglese anche se la guida dice che
viene da Lubiana; un'altra persona che la affianca traduce frase per frase al
pubblico. La
signorina, che è vestita semplicemente come una signorina sportiva, che parla
con un tono di voce “normale” e che fa solo gesti funzionali, presenta dei
materiali, degli oggetti, delle situazioni, fa domande, ascolta le risposte e
poi propone di sperimentare la adeguatezza delle risposte, spesso
coinvolgendo qualcuno del pubblico. La soluzione del problema viene mostrata
o agìta direttamente. Ad
esempio, a un certo punto la signorina si trova sospesa a una imbracatura assicurata
a un grande cavalletto di sostegno; ha il corpo disteso, ma poi raccoglie le
gambe ottenendo come risultato che il suo corpo ruota; “come mai?”
chiede; “perché il baricentro si è
spostato e tende a tornare nel punto più basso possibile” è la sua risposta,
che arriva dopo avere raccolto quelle del pubblico. Ma
siamo già a metà dello “spettacolo” e questa spiegazione arriva solo dopo che
esperimenti precedenti hanno fatto acquisire al gruppo la consapevolezza
condivisa che il baricentro tende sempre a mettersi nel punto più basso
disponibile; a sua volta la parola “baricentro” viene usata dopo essere stata
esplicitamente assunta come rappresentazione verbale di un’idea condivisa
(quella cosa che abbiamo esplorato finora la chiamiamo così), ovvero
introdotta come elemento teorico che unifica una serie di rappresentazioni
dei fenomeni precedentemente esplorati. Lo
spettacolo dura un’intera ora solo sull’idea di baricentro (“Dio è nel
dettaglio”). In
effetti la struttura comunicativa è più quella di uno spettacolo che non
quella di un laboratorio didattico; alla lontana il modello è il circo. Ma ho
sottolineato gli elementi di non spettacolarità per dire che l’attenzione e
la partecipazione del pubblico (dei bambini soprattutto) era indotta
esclusivamente dai fenomeni mostrati e dalle interazioni comunicative messe
in atto attorno a essi (una comunicazione per nulla enfatizzata nella
direzione di una messa in scena di personaggi caratterizzati come il clown o il prestigiatore o l’acrobata)
e quindi dai percorsi cognitivi, dalla dinamica della scoperta, che è emotiva
tanto quanto intellettuale, e non dalla fascinazione, che è essenzialmente manipolazione
emotiva. I
fenomeni stessi appartengono alla dimensione assolutamente quotidiana (compresa
la sospensione all’imbracatura, che i bambini sono perfettamente in grado di
riprodurre appendendosi ai propri letti a castello o, se particolarmente
trasgressivi, ai sostegni delle carrozze del metrò). Le uniche concessioni
alla dimensione del “trucco” (più da clown che da prestigiatore) erano un
pennarello fatto cadere “col pensiero” e una valigia sporgente in modo “impossibile”
oltre il bordo del tavolo, trucchi svelati al pubblico una volta che ne era
comprensibile la dinamica in termini, ancora una volta, di baricentro e del
suo spostamento. Sarà
per il fatto che la signorina parlava inglese (e anche forse per il fatto che
io non ho una conoscenza diretta della cultura anglosassone), ma mi viene di
pensare che nel giro di pochi minuti e pochi passi sono passato da una
cultura a un’altra cultura, da un contesto antropologico a un altro. Da una
parte la scienza che rimane processo di scoperta e di costruzione di
rappresentazioni anche nella forma comunicativa di uno spettacolo di circo,
dall’altra la scienza che rinuncia a queste sue caratteristiche perché sottomessa
al condizionamento di una forma comunicativa che risponde a canoni che hanno
radici antiche, che ha una pervasività totale a livello
sociale e che si spiega probabilmente con la sua struttura relazionale nei termini
del potere che si gioca tra chi fa lezione e chi ascolta. È
per questo che la scienza nella cultura del nostro paese è destinata a
rimanere un corpo estraneo? |