Marcello Sala

IL SAMURAI, IL PROFESSORE

E IL CLOWN

-pubblicato in- 

NATURALMENTE n. 3 / 2007

Accademia Editoriale

 

 

In una grande manifestazione dedicata alla divulgazione scientifica, accanto a conferenze e dibattiti con personaggi di alto livello nei vari campi disciplinari, ci sono spettacoli, eventi e laboratori.

Sulla guida trovo l’indicazione di un laboratorio il cui oggetto sono principi della fisica coinvolti nella pratica delle arti marziali orientali. Mi attira l’idea: le arti marziali, e il tai chi soprattutto che ha il vantaggio della lentezza, rendono evidente e anzi spettacolare (agendo quindi anche su componenti estetiche ed emotive) la dinamica delle forze e degli equilibri dei corpi.

Il laboratorio è già iniziato e mi metto da una parte a osservare. La situazione mi appare per certi versi familiare (pratico tai chi da una decina di anni):  un grande tatami  sui cui bordi stanno sedute, scalze, delle persone di varia età; al centro un personaggio vestito con il kimono rituale sta parlando e ogni tanto mostra ciò di cui sta parlando. La qualità della esecuzione dei movimenti mi dice trattarsi di qualcuno che pratica da molto tempo, sicuramente un buon istruttore.

Però qualcosa non mi quadra. Nella cultura di queste pratiche, del tai chi almeno, c’è poca comunicazione verbale; non ne ho conoscenza diretta ma, per quello che so, in Cina, dove il tai chi viene praticato nelle piazze dal “popolo”, il modo tradizionale di imparare è per imitazione: il maestro esegue e gli altri imitano, letteralmente senza parole. Io non riuscirei a imparare così e credo che non si tratti solo di un problema di stile personale di apprendimento, ma anche di un fatto culturale: in occidente gli istruttori e anche i maestri aggiungono indicazioni verbali. Oltretutto ne nasce un interessante problema di linguaggio, tra descrizioni analitiche, molto precise ma poco comprensibili a chi non ha dimestichezza con il lessico della anatomia o della biomeccanica, e l’uso di immagini legate alla tradizione, molto suggestive (nel senso che sono capaci di fornire delle Gestalt complessive) ma a rischio di interpretazioni soggettive e devianti (chi di noi sa come l’airone bianco dispiega le ali o la bella signora della leggenda pesca l’ago d’oro dal fondo del lago?). Ma questa è un’altra faccenda; torno al laboratorio.

Di istruttori ne ho conosciuti un certo numero e nessuno parla così tanto. La mia insegnante, se le chiedo perché nel gioco delle spinte non riesco a tenere il “pieno” e bla bla bla…, mi risponde ponendosi di fronte a me, eseguendo una spinta apparentemente vaporosa che mi fa balzare via, poi mi chiede di abbassare la spalla (potrebbe farlo con un colpetto della mano) o di curvare il dorso “a tartaruga” e poi di nuovo mi spinge, questa volta facendo un po’ più di fatica a spostarmi: “hai capito adesso? prova ancora.”

Mentre così penso, l’istruttore ha lasciato il posto a un giovane animatore che interroga i presenti. Uso il verbo con assoluta intenzionalità perché è quello che descrive la struttura comunicativa che osservo; in posizione autoritaria data dal ruolo (sta in piedi al centro e indossa la maglia che rende riconoscibili gli appartenenti allo staff della manifestazione) il ragazzo fa delle domande cui qualcuno dei presenti tenta timidamente di rispondere ricevendone in cambio parole di approvazione o di censura (lui sorride, ma sempre disapprovazione è).

Il suo ruolo autoritario è assolutamente convincente; troppo direi.  Dopo una premessa su “urto elastico e anelastico”, lascia cadere una pallina sul pavimento invitando a osservare il rimbalzo. Poi la fa cadere sul tatami e dice “Avete visto [corsivo mio] come il tatami si deforma quando è colpito dalla pallina?” e, incredibilmente, molti annuiscono. Ora, solo un qualche sistema ottico molto complicato e notevolmente sensibile potrebbe rendere visibile una deformazione di frazioni di millimetro che si produce in frazioni di secondo. L’unica cosa che si vede è semmai che la pallina rimbalza meno in alto che sul pavimento: è questo il fenomeno che si dovrebbe spiegare; e infatti lui conclude “è per questo che la pallina rimbalza meno”. Mi domando (e mi guardo intorno invano per vedere se qualcuno domanda a lui): ma, se rimbalza di meno, perché atleti e acrobati per saltare più in alto utilizzano pedane elastiche anziché pavimenti in pietra?

E poi anche lui parla e parla, fornendo spiegazioni, ma spiegazioni di quali fenomeni, se fenomeno viene dal greco faino che significa “faccio vedere”?  Sono spiegazioni che abbondano di termini appartenenti al linguaggio della fisica. Ad esempio (adesso finalmente mostra) inclina il corpo verso la parete e vi si appoggia con il braccio teso e chiede ai presenti di “descrivere” la situazione in cui lui esercita una forza (o una spinta?) contro la parete; boccia le risposte, che sono sinceramente descrittive ma forse un po‘ troppo naif, tranne una (che premia con un “bingo!” a indicare che trattasi di quiz, la forma televisiva dell’interrogazione scolastica: diverso contesto ma identica struttura comunicativa); la risposta è “un vettore”, il che gli dà modo di partire con una definizione da manuale (nel senso del manuale di fisica), completa di “intensità”, “direzione “ e verso”; e qui il linguaggio preciso della fisica non coincide con quello quotidiano in cui “direzione” ingloba anche il “verso”, e forse bisognerebbe tenere conto che i presenti non sono fisici di professione, ma appartengono al popolo dei “quotidiani”.

Potrebbe essere una scelta comunicativa quella di rinominare il quotidiano usando il linguaggio rigoroso della scienza. Senonché subito dopo, trasportato dall’oratoria, l’animatore non utilizza termini da manuale come “composizione delle forze” o “somma vettoriale” bensì “schivare” o “scaricare di lato”: nessuna reazione dei presenti (che ormai temono un brutto voto). E poi il nostro eroe si lascia un po’ troppo andare all’uso di gesticolare; per la verità i gesti sono molto espressivi e significanti ma l’uso mi pare troppo italiano, molto fisico, se vogliamo, e poco “da fisico”, identità cui lui sembrava tenere fino a  poco fa.

A un certo punto subentra l’istruttore di arti marziali che spiega con molte parole come i principi testé esposti si ritrovino nei gesti che mostra. E finalmente fa alzare le persone e le mette in azione a coppie a sperimentare dal vivo. Ma a questo punto la comunicazione verbale si sposta completamente: sono osservazioni, indicazioni e consigli su come eseguire correttamente i gesti, ma ciò avviene nel linguaggio della pratica motoria (quello che si usa in palestra) e non della fisica.

Mi faccio una serie di domande: perché la coppia di conduttori non utilizza la straordinaria risorsa di poter usare lo strumento di esplorazione del mondo più vicino all’esperienza delle persone, la percezione del proprio corpo, oltretutto in una situazione che rende le situazioni percepite particolarmente dilatate, nitide, trasparenti all’osservazione? Perché non propongono alle persone di provare con il proprio corpo delle situazioni e poi, dopo, di descriverle, analizzarle, scomporle e ricomporle, e poi, attraverso un processo comunicativo, a rappresentarle in un linguaggio condiviso, cui la scienza può fornire la risorsa del rigore? Non era dunque questa la (buona) idea di questo laboratorio?

Faccio un esempio di quello che ho in mente io: l’istruttore si pone di fronte a una persona e le chiede di spingerlo. La persona si ritrova qualche metro più in là magari a terra. Si riprova rallentando i movimenti. Poi l’istruttore dà qualche consiglio molto pratico, tipo “allarga le gambe”, “tieni dritta la schiena”, “piega le ginocchia”, “non spingere oltre un certo limite” ecc. e si riprova. A questo punto si chiede alla persona se ha percepito delle differenze e quella magari risponde che sì, in effetti si ritrova, sorprendentemente, tuttora in piedi e di fronte all’istruttore. Si riprova, chiedendo alla persona di porre attenzione a qualche elemento della propria postura o del proprio movimento: può per esempio seguire lo spostamento del proprio baricentro, sapendo più o meno dove si trova. Si può chiedere a qualcuno di osservare la coppia da fuori cercando di notare le differenze tra posture e movimenti dell’istruttore e dell’avversario e di provare a spiegare perché accade ciò che accade (ma per questo bisogna pur che accada). E con questa domanda si entra nel campo della scienza. A questo punto si può anche introdurre, come possibile “mappa” descrittiva ed esplicativa, la rappresentazione che ne danno i fisici e si può spingere verso un sempre maggior rigore formale nel linguaggio, purché ciò avvenga attraverso una interazione comunicativa nel gruppo che costruisce una rappresentazione condivisa.

Tranne l’ultimo passaggio, non è un metodo che invento io che faccio il formatore: è più o meno quello che farebbe un istruttore in palestra. E allora la meta-domanda legittima che mi pongo è: come mai l’istruttore di tai chi cambia in maniera così profonda il suo modo di operare?

Se guardo il comportamento dei due conduttori, astraendo per un momento dal contesto, che cosa vedo? Beh, vedo… una lezione, la vecchia intramontabile lezione, quella che dal docente universitario in giù si arricchisce dei nuovi media con l’uso delle “TIC” (lavagna luminosa, Power Point ecc.) e che qui aggiunge anche il movimento del corpo, ma sempre per di-mostrare quanto prima si è esposto in modo verbale. Nella logica della lezione gli esempi sono sempre rigorosamente preceduti dall’esposizione della teoria; mai si farebbe un esempio per poi dopo interrogarsi su ciò di cui è esempio (Bateson).

Il gesticolare dell’animatore dà solo una misura della strada che deve ancora fare per diventare un erogatore di lezioni accettabile; per arrivarci magari dovrà curare di allontanarsi da quella cultura del quotidiano che ancora inconsapevolmente utilizza il corpo per le rappresentazioni, di eliminare le parole come “scaricare la spinta” e di aggiungere invece qualche equazione.

Per non alimentare equivoci dico subito che ritengo la lezione una modalità comunicativa utile e funzionale. Aggiungo che forse sarebbe ora di smettere di dare per scontato che chiunque ha un certo sapere sappia fare buone lezioni e cominciare a pensare che invece questa, come ogni altra forma comunicativa, richiede talento e formazione, con tanto di studio ed esercizio, di apprendimento per tentativi ed errori, di osservazione e supervisione critica ecc., almeno di cura.

Sempre per non alimentare equivoci: io apprezzo le buone lezioni, le cerco; quando si tratta di grandi personaggi sono piuttosto insofferente all’idea che si “apra il dibattito col pubblico”: magari non mi capiterà un’altra volta nella vita l’occasione di incontrare uno così, desidererei che fosse dato il massimo spazio possibile all’ascoltarlo, senza disturbi.

Ma io stavo parlando non della conferenza di un premio Nobel, ma di una manifestazione di divulgazione scientifica, e, al suo interno, di un laboratorio. È una questione di contesti.

Uscito anzitempo di lì, decido di assistere a uno “spettacolo” (così viene indicato nella guida). In una metà della piccola stanza sono ammassate almeno trenta persone, i bambini sono seduti davanti e niente scuote la loro attenzione, neppure l’ingresso e la sistemazione di nuovi bambini.

Nell’altra metà della stanza che funge da palcoscenico si esibisce una signorina pallida dai capelli rossi, tanto inglese che parla inglese anche se la guida dice che viene da Lubiana; un'altra persona che la affianca traduce frase per frase al pubblico.

La signorina, che è vestita semplicemente come una signorina sportiva, che parla con un tono di voce “normale” e che fa solo gesti funzionali, presenta dei materiali, degli oggetti, delle situazioni, fa domande, ascolta le risposte e poi propone di sperimentare la adeguatezza delle risposte, spesso coinvolgendo qualcuno del pubblico. La soluzione del problema viene mostrata o agìta direttamente.

Ad esempio, a un certo punto la signorina si trova sospesa a una imbracatura assicurata a un grande cavalletto di sostegno; ha il corpo disteso, ma poi raccoglie le gambe ottenendo come risultato che il suo corpo ruota; “come mai?” chiede;  “perché il baricentro si è spostato e tende a tornare nel punto più basso possibile” è la sua risposta, che arriva dopo avere raccolto quelle del pubblico.

Ma siamo già a metà dello “spettacolo” e questa spiegazione arriva solo dopo che esperimenti precedenti hanno fatto acquisire al gruppo la consapevolezza condivisa che il baricentro tende sempre a mettersi nel punto più basso disponibile; a sua volta la parola “baricentro” viene usata dopo essere stata esplicitamente assunta come rappresentazione verbale di un’idea condivisa (quella cosa che abbiamo esplorato finora la chiamiamo così), ovvero introdotta come elemento teorico che unifica una serie di rappresentazioni dei fenomeni precedentemente esplorati.

Lo spettacolo dura un’intera ora solo sull’idea di baricentro (“Dio è nel dettaglio”).

In effetti la struttura comunicativa è più quella di uno spettacolo che non quella di un laboratorio didattico; alla lontana il modello è il circo. Ma ho sottolineato gli elementi di non spettacolarità per dire che l’attenzione e la partecipazione del pubblico (dei bambini soprattutto) era indotta esclusivamente dai fenomeni mostrati e dalle interazioni comunicative messe in atto attorno a essi (una comunicazione per nulla enfatizzata nella direzione di una messa in scena di personaggi caratterizzati come il clown o il prestigiatore o l’acrobata) e quindi dai percorsi cognitivi, dalla dinamica della scoperta, che è emotiva tanto quanto intellettuale, e non dalla fascinazione, che è essenzialmente manipolazione emotiva.

I fenomeni stessi appartengono alla dimensione assolutamente quotidiana (compresa la sospensione all’imbracatura, che i bambini sono perfettamente in grado di riprodurre appendendosi ai propri letti a castello o, se particolarmente trasgressivi, ai sostegni delle carrozze del metrò). Le uniche concessioni alla dimensione del “trucco” (più da clown che da prestigiatore) erano un pennarello fatto cadere “col pensiero” e una valigia sporgente in modo “impossibile” oltre il bordo del tavolo, trucchi svelati al pubblico una volta che ne era comprensibile la dinamica in termini, ancora una volta, di baricentro e del suo spostamento.

Sarà per il fatto che la signorina parlava inglese (e anche forse per il fatto che io non ho una conoscenza diretta della cultura anglosassone), ma mi viene di pensare che nel giro di pochi minuti e pochi passi sono passato da una cultura a un’altra cultura, da un contesto antropologico a un altro. Da una parte la scienza che rimane processo di scoperta e di costruzione di rappresentazioni anche nella forma comunicativa di uno spettacolo di circo, dall’altra la scienza che rinuncia a queste sue caratteristiche perché sottomessa al condizionamento di una forma comunicativa che risponde a canoni che hanno radici antiche, che ha una pervasività totale a livello sociale e che si spiega probabilmente con la sua struttura relazionale nei termini del potere che si gioca tra chi fa lezione e chi ascolta.

È per questo che la scienza nella cultura del nostro paese è destinata a rimanere un corpo estraneo?