Sommario Disciplina
come “restrizione e coercizione” – sistema delle discipline e scienza - il modello
del puzzle - territorio della realtà e mappe culturali - i bambini pensano complesso
– non separazione tra intelletto e affettività - dall’azione alla conoscenza
- disciplinarietà come processo educativo – adulti e bambini: epistemologie diverse - realtà
complessa / strumenti cognitivi disciplinari – la
formazione di competenze interdisciplinari. Parole Chiave complessità, interezza, epistemologia, pre-disciplinarietà,
formazione. Summary Discipline as “restriction and coercion” – system of the disciplines and
science – the model of puzzle – the
area of reality and cultural maps – children think in a complex way – no
division between intellect and affectivity – from action to knowledge – disciplinarity as an educative process – adults and
children: different epistemologies – complex reality / disciplinary cognitive
tools – building up interdisciplinary competences. Keywords Complexity,
wholeness, epistemology, pre-disciplinarity,
training. Disciplina e discipline A che cosa ci riferiamo quando parliamo
di disciplina? L’archeologia del sapere ce ne dà
un’idea: “[…] una proposizione deve
rispondere a complesse e pesanti esigenze per poter appartenere all'insieme
di una disciplina […] La disciplina
è un principio di controllo della produzione del discorso. Essa gli fissa dei
limiti col gioco d'una identità che ha la forma di una permanente riattualizzazione delle regole. Si ha l'abitudine di vedere nella
fecondità d'un autore, nella molteplicità dei commenti, nello sviluppo di una
disciplina, altrettante infinite risorse per la creazione dei discorsi.
Forse; ciò non toglie che esse restino pur sempre principi di costrizione; ed è
probabile che non si possa render conto del loro ruolo positivo e
moltiplicatore, se non si prende in considerazione la loro funzione
restrittiva e costrittiva.” (Foucault, 1970, pag. 25-29). E con questo abbiamo una spiegazione del
perché la parola “disciplina” abbia anche quell’altro significato molto usato
nel “gioco linguistico” della scuola e che si riferisce alla “condotta” degli
studenti. La disciplina di cui mi occupo
è la scienza… ma la scienza non esiste,
semmai le scienze, e io non mi
occupo certo di tutte; diciamo allora la biologia. Da questo uno scienziato
professionista capirebbe subito che non sono uno scienziato professionista;
lui infatti non direbbe “biologia”, ma “zoologia degli invertebrati” o
“genetica molecolare”, e solo per farsi capire dai non addetti; in un
contesto di comunicazione scientifica direbbe che il suo campo di ricerca è
la “riproduzione degli idrozoi” o la “ricombinazione per trasposizione” o
cose del genere. Dal momento che per professione esercitano il pensiero
critico, gli scienziati sono consapevoli forse più di altri dei limiti del
proprio campo di conoscenza; per loro la disciplina è una cosa seria,
restrittiva e costrittiva come dice Foucault, nel senso che non si è
scienziati se non si è esperti di un campo preciso di ricerca, con la sua
metodologia, i suoi dispositivi, il suo universo di discorso, la sua comunità
di riferimento. Eppure la ricerca scientifica,
come attività culturale e funzione sociale, attraversa continuamente i
confini tra discipline, vive di pratiche che richiedono interazione tra esperti
di campi diversi, integrazione tra teorie, contaminazioni di metodologie e di
linguaggi. Di me stesso dovrei dire che,
quando ero insegnante di scienze nella scuola di base, la mia disciplina
erano le scienze, pretendendo con ciò di essere già interdisciplinare e d’altra
parte ammettendo di non essere uno scienziato (dal che si dedurrebbe qualcosa
di problematico: un insegnante di scienze non è uno scienziato e uno
scienziato non può insegnare le scienze?). Come formatore però la mia
ricerca è essenzialmente di tipo epistemologico e l’epistemologia è anch’essa
una disciplina, anch’essa con ulteriori distinzioni disciplinari tra
epistemologia evoluzionista, epistemologia della fisica ecc. E, di nuovo, il
paradosso: un epistemologo non è uno scienziato perché la sua disciplina è
diversa; ma può un epistemologo non essere uno scienziato dal momento che
l’epistemologia è un meta-discorso sulle scienze? Insomma mi pare chiaro che
“disciplina” è un concetto relativo; relativo soprattutto al contesto di
comunicazione e ai livelli gerarchici delle nostre mappe della conoscenza,
oppure alle pratiche professionali (uno studente si iscrive alla facoltà di
scienze, al suo interno sceglie il corso di laurea in fisica, al suo interno
la specializzazione in astrofisica, poi come professione si occupa di
radioemissioni stellari, ma per farlo deve divenire esperto di tecnologia
delle trasmissioni ecc.). Possiamo pensare alle discipline come a un sistema
culturale complesso. Mappe Se dovessi parlare da
scienziato, direi che la mia disciplina è l’epistemologia genetica, nel senso
di come conoscono i bambini. Dovrei essere più preciso e dire “come i bambini
co-costruiscono conoscenza nel campo scientifico”,
ma quando i bambini costruiscono conoscenza su qualche oggetto o fenomeno che
noi siamo soliti attribuire al campo scientifico, loro, i bambini, non hanno
per nulla consapevolezza di questa delimitazione, anzi, dico meglio, non la
praticano. Ma quando si sente parlare di
interdisciplinarietà nella scuola non ci si riferisce ai residui di una non
specializzazione bensì a un rimedio per l’eccessiva separazione tra le
materie. Allora a me viene in mente l’immagine del puzzle. Mi sono sempre immaginato che il puzzle sia nato come “gioco alla rovescia”,
inventato da un papà creativo, uscito dall’esperienza inquietante di dover
ricomporre un prezioso documento fatto a pezzi dal figlioletto intento a
qualche suo gioco molto serio. Voglio dire che, se non ce lo ritrovassimo
in un contesto intenzionale di “gioco”, il puzzle non sarebbe una cosa divertente, sarebbe il tentativo di
porre rimedio a un’azione che ha distrutto una precedente forma. Le
connotazioni che diamo alle espressioni “fare a pezzi” e “risolvere un puzzle” sono significative. Nel caso della scuola non si tratta però di
rimettere insieme i pezzi un puzzle,
che comunque combaciano tra loro, ma di ricomporre la rappresentazione di un
territorio a partire da mappe diverse, redatte a partire da proiezioni,
convenzioni simboliche, linguaggi, contesti di discorso, intenzionalità
diverse. Il rischio è che la mappa vagamente picassiana
che ne risulta non sia utilizzabile per leggere il territorio che dovrebbe
rappresentare, che è quello della realtà, in modo da rendere possibile
viverci dentro. Non vorrei riaprire il vecchio, ma mai
concluso, dibattito se il territorio della realtà sia conoscibile o no, mi
accontento della risposta di Kant e accetto i
limiti della conoscenza umana o, per dirla con Gregory Bateson,
prendo atto che “quando pensiamo alle noci di cocco o ai
porci, nel cervello non vi sono né noci di cocco né porci” (Bateson, 1979a, pag. 47),
ovvero che “il mondo mentale è costituito
solo da mappe di mappe, ad infinitum.” (Bateson,
1970, pag. 472) Ma proprio seguendo Bateson
mi domando se è possibile costruire mappe migliori di altre nel rappresentare
la “struttura che connette”, la vita nel territorio della realtà, ovvero nel
metterci in grado di vivere in maggiore armonia con quella realtà. D’altra parte le mappe sono un prodotto
culturale e dunque dove andare a cercare mappe più connessive
se non dove la cultura è meno differenziata e più vicina alla “natura umana“
come substrato comune prodotto dall’evoluzione? Non ho detto “dove c’è meno
cultura” o dove “è meno sviluppata”, perché quello che ho capito ascoltando i
bambini (di loro sto parlando) è che, dal punto di vista culturale, non sono
affatto “come noi (adulti), però di meno”, insomma adulti incompiuti, bensì
diversi da noi e forse più immersi nella “struttura che connette”. Infatti i bambini praticano un pensiero complesso. La “Biologia” dei bambini [1a elementare] INSEGNANTE
- Vogliamo raccontare a Federico a cosa è servita la vaschetta dei pesci che
è sopra l’armadio? GIULIA
R. - Ci abbiamo messo le lumache, prima le abbiamo prese. GIULIA F. - ... nel prato.
GIORGIA - Le abbiamo messe dentro la scatola.
ARIANNA
- … dentro la vaschetta dei pesci. ALEXANDRA
- Abbiamo costruito un terrario: preso la terra, le foglie e i sassi. FRANCESCO
- ... l’acqua. ELENA
- Gli abbiamo dato da mangiare. GIULIA F. - ... tutti i giorni FRANCESCO
- Anche l’acqua, perché se no non vivono. INS.
- Perché? GIORGIA - Gli serve per bere.
LORENZO
- Ci abbiamo messo la rete perché se no scappavano. GIULIA
L. - Abbiamo trovato le uova. FRANCESCO
- Erano perle. GIORGIA
- Erano carine. ALESSIO
- Dopo tanti giorni si sono schiuse le uova e sono nate le lumachine. LORENZO
- Le abbiamo lasciate libere per non farle morire, perché sono esseri
viventi. RACHELE - … perché mangiano e bevono. GIULIO
- … perché muoiono. MICHELE
- … respirano. FRANCESCO
- … camminano. AGNESE
- … diventano grandi. INS. - Perché sono uscite quando gli
abbiamo spruzzato l’acqua? AGNESE - Perché loro vivono
all’acqua. Quando c’è la pioggia stanno in acqua, quando non c’è la pioggia
stanno al fresco. GIULIA
F. – So’ un po’ “birbantelle” dell’acqua. ALEXANDRA
- L’acqua
gli serve alla vita. INS.
- Perché? FRANCESCO
- Perché serve alla vita. ALEXANDRA – Serve alla vita perché tutti gli animali
bevono. GIORGIA
- Vogliono sentire il bagnato. VERONICA
- Quando piove escono subito fuori. GIULIO - … se
no muoiono. FRANCESCO - Perché hanno tanto
caldo, dopo si annoiano e vogliono anda’
sull’acqua. INS.
- Allora se noi non gli avessimo dato più acqua sarebbero morte? MICHELE
- Sarebbero morte, perché non uscivano fuori dal guscio e non mangiavano. ALEXANDRA - Soffrivano. INS.
- Perché? ALEXANDRA
- Perché le lumache hanno tutte quelle bollicine, se il sole asciuga tutto
il bagnato di quelle bollicine muoiono,
perché le bollicine le aiutano a appiccicare
sui muri; e poi è una regola: tutti gli animali bevono! L’acqua. Ho
scelto questo esempio perché parla della vita delle chiocciole, perché la mia
disciplina di formazione è la biologia e perché io stesso l’ho inserito tra
le “conversazioni scientifiche” (Sala, 2004, pag. 109); ma questi bambini di
prima elementare stanno “facendo scienze”? O siamo stati noi, insegnanti e
formatori, a utilizzare come cornice un nostro
contesto di riferimento? (“Fare e dire le scienze”, progetto SeT 2000-2001, Scuola
Elementare Statale Jole Orsini di Amelia, TR) Ma, ancor prima: i bambini stanno parlando
della vita delle chiocciole? Quando Francesco dice “si annoiano e vogliono anda’ sull’acqua”
o in una conversazione simile Elena“nel terrario stavano bene, però erano un po’ prigioniere,
invece devono essere libere...” non stanno forse parlando di sé?
Trattandosi di esseri viventi, la conoscenza passa attraverso
un’identificazione empatica (i bambini attribuiscono all’animale una natura
simile alla propria). Ma l’affettività e la scienza
sono irriducibili, sono esperienze umane inconciliabili? Nell’esempio che
segue (il contesto è simile al precedente) si vede bene come la relazione
affettiva non è affatto in contraddizione con un’osservazione attenta o una lucidità
sul piano razionale, anzi proprio la vicinanza
con l’oggetto acuisce lo sguardo che si fa “scientifico”: GIULIA S. - Si nascondono sotto terra oppure vanno dentro i
buchi del muro e dormono. GIULIA R. - Perché devono ripararsi dalla pioggia… GIULIA S. - Ma beh! Ma se escono fuori quando piove! DEVIS - Uscivano
pure quando spruzzavamo l’acqua… Per dirla in modo più
scientifico: “[…] mentre lo schematismo
cognitivo passa da uno stato iniziale centrato sull'azione propria alla
costruzione di un universo oggettivo e decentrato, l'affettività degli stessi
livelli senso-motori procede da uno stato d'indifferenziazione tra l'io e l'ambiente
fisico e umano per costruire in seguito un insieme di scambi tra l'io differenziato
e le persone (sentimenti interindividuali) o le cose. […] nella misura stessa in cui l'io resta
inconsapevole di sé, dunque indifferenziato, tutta l'affettività continua a
concentrarsi sul proprio corpo e le proprie azioni, poiché soltanto una dissociazione
dell'io e dell'altro oppure del non-io permette la decentrazione
affettiva come quella conoscitiva.” (Piaget,
1966, pag. 27-28) Bambini interi Uno psicologo può estrarre, perché è suo interesse e sua
competenza, l’aspetto delle dinamiche affettive dalla conversazione precedente,
ma non può sostenere che l’emotività e l’affettività sono separate dalla
conoscenza; non mi rattristo (reazione sentimentale)
se leggo il testo in turco della straziante scena della morte di Giulietta e
Romeo perché non conosco il turco;
ugualmente la conoscenza di un
oggetto non serve alla mia vita se non ha un valore e questo dipende dalla qualità affettiva della mia esperienza con quell’oggetto (costruita a
partire dalla primitiva sensazione di benessere/malessere) (Damasio, 1994). Nel territorio della vita dei
bambini il rapporto con le cose è intero
e la nostra mappa, il linguaggio con cui ne parliamo, dovrebbe restituire
questa interezza: “… se vogliamo parlare di
esseri viventi […]
sarebbe opportuno adottare un linguaggio che fosse in qualche modo isomorfo,
che fosse coerente con il linguaggio in base al quale gli esseri viventi
stessi sono organizzati.” (Bateson, 1979, pag. 458) E allora: come sono organizzati gli esseri viventi umani secondo
gli scienziati? “Sentimenti alterati e una
ragione imperfetta si presentavano assieme come conseguenze di una specifica
lesione cerebrale, e questa correlazione mi suggeriva che il sentimento fosse
una parte integrante del modo di operare della ragione. [...] Io suggerisco soltanto che
certi aspetti del processo dell’emozione e del sentimento sono indispensabili
per la razionalità.” (Damasio,
1994, pag. 18) Se non vogliamo separare nelle nostre mappe ciò che è intero nel
territorio della vita, il primo atto di interdisciplina è spazzare via quelle
fondanti false separazioni “disciplinari” tra scienza e arte, tra linguaggio
scientifico e linguaggio narrativo (rileggersi la conversazione precedente),
separazioni che rimandano a quella tra ragione e sentimento
(Quando ho letto il romanzo di Jane Austin, non vi ritrovavo la contrapposizione
che mi veniva proposta dal linguaggio con l’uso dei termini “ragione” e
“sentimento”; poi ho scoperto che il titolo originale è “Sense and sensibility”
ovvero “Buon senso e sensibilità”, qualità che non sono affatto in
contrapposizione.), tra mente e corpo… E per farlo
occorre liberarsi dall’uso “suggestivo” di metafore, come quelle del
“cervello sinistro/cervello destro”, che nel contesto scientifico d’origine
hanno riferimenti precisi ma che poi, sconfinando e dilagando per ragioni
retoriche, suggeriscono appunto
idee false, come ci dice chi il cervello lo studia: “… se integrazione e differenziazione sono realmente caratteri
fondamentali della coscienza, possono essere spiegate solo attraverso un
processo neurale distribuito e non ricorrendo a specifiche proprietà locali [...] Un nucleo dinamico è perciò
un processo e non una cosa o un luogo, ed è definito mediante interazioni
neurali, piuttosto che attraverso la localizzazione specifica…” (Edelman
- Tononi, 2000, pag. 170-171) E se ormai il dualismo si è installato nella nostra natura
culturale, l’unica speranza di non farlo crescere con una dinamica autocatalitica è quello di evitare di usare con i bambini
il linguaggio dualistico degli adulti. In questo esempio si vede bene come
bambini (di 10 anni) a un linguaggio e a un pensiero delle dicotomie
contrappongono un linguaggio “narrativo” che testimonia un “pensare per storie”
fatto di relazioni temporali e relazioni contestuali: ADULTO - I campi coltivati sono naturali o artificiali?
VOCI
- Naturali. - Artificiali. A
- Naturali e artificiali. Naturali perché c'è la terra e artificiali perché
l'uomo ha seminato... ADULTO - Un tavolo di legno è...?
voci -
Artificiale e naturale. B
- Il legno è naturale ma poi viene trasformato. C
- Prima c'è l'albero ed è naturale, poi l'uomo gli dà la forma ed è
artificiale. Verso le Scienze Naturali Quando i bambini raccontano dell’esperienza
fatta (“Ci abbiamo messo le lumache,
prima le abbiamo prese” ecc.) non parlano forse delle proprie azioni? Ed è anche interessante
notare come questo racconto sia unico a più voci, come se il gruppo dei bambini fosse un sistema
che esplora e costruisce conoscenza. E dunque non mi pare una pensiero
egocentrico, anche perché si tratta di azioni rivolte a un oggetto: la
narrazione, che è un atto cognitivo, riguarda la relazione tra un soggetto e
un oggetto, che oltretutto è percepito come un altro soggetto. Siamo a monte di quella separazione che
Jean Piaget interpreta in chiave disciplinare come
nascita della matematica da una parte e delle scienze naturali dall’altra: “Ne risulta, da una parte, che fin dagli
inizi di questo periodo della conoscenza rappresentativa pre-operatoria, si
segnano considerevoli progressi nella doppia direzione e delle coordinazioni
interne del soggetto - quindi delle future strutture operative o logico-matematiche
- e delle coordinazioni esterne tra oggetti - quindi della causalità in senso
ampio con le sue strutturazioni spaziali e cinematiche.” (Piaget, 1970, pag. 23) “Nel caso delle nozioni logico-matematiche, esse presuppongono
un complesso d'operazioni che sono astratte
non già dagli oggetti percepiti ma dalle azioni esercitate sugli oggetti
[…]” (Piaget,
1966, pag. 49) Nella
conversazione ci sono osservazioni che sicuramente possono essere collocate
in un contesto di “scienze naturali” (“Dopo
tanti giorni si sono schiuse le uova e sono nate le lumachine”, “L’acqua gli serve alla vita, perché tutti
gli animali bevono”, “Perché le lumache
hanno tutte quelle bollicine, se il sole asciuga tutto il
bagnato di quelle bollicine muoiono, perché le bollicine le aiutano ad
appiccicare sui muri” ecc.), ma è l’insegnante che attira i bambini in
due tipiche dimensioni del pensiero scientifico, causalità e previsione (“perché…?”, “che sarebbe successo se…?”). L’idea di disciplina può apparire
cartesiana, eppure qui incontriamo un altro elemento di non chiarezza e non
distinzione: non si tratta di una “cosa” ma di un processo. L’aveva capito perfino la scuola, qualche anno fa,
prima di tornare indietro: con i più piccoli la conoscenza non ha
delimitazioni, poi si possono individuare delle aree disciplinari e solo più avanti ritrovare le materie (chissà perché si usa questo
termine che vuol dire primariamente qualcos’altro?): è l’insegnante che man
mano, per inserire i giovani nella cultura in cui tutti abitiamo, costruisce
con loro distinzioni e specificità: di oggetti, di discorsi, di linguaggi, di
metodi. Quando i bambini fanno ricerca non
si pongono il problema di delimitare un oggetto, e forse questo è legato a “la
natura stessa della ricerca, che ci costringe a percorrere una vasta regione
di pensiero in lungo e in largo e in tutte le direzioni.” (Wittgenstein, 1953, pag. 3); e neppure si chiedono se quella che
stanno elaborando è conoscenza scientifica; sono problemi che
spettano all’insegnante. “Contenimento cognitivo” Se la conoscenza è una relazione tra
soggetto e oggetto, la conoscenza scientifica richiede in primo luogo che l’attenzione
sia rivolta a un oggetto, sia nella descrizione (il come) sia nella spiegazione (il perché). A questa esigenza
corrispondono le azioni dell’insegnante che cercano di contenere
l’indagine attorno all’oggetto scelto evitando la dispersione o la perdita di
confini del discorso. L’insegnante fa
azione di contenimento cognitivo quando cerca di mettere a fuoco il
centro problematico del discorso: [in 2a elementare;
“Il Sole cambia l’ora?”] CATERINA -
Quando piove il Sole non va via: si nasconde. Poi volevo dire che ho fatto un
esperimento: ho preso un vetro l’ho messo davanti al Sole e ho visto tutti i
colori. MAESTRA - Allora chi ha i colori? oppure
quando induce, dopo che i bambini hanno compiuto una ricognizione generale
"in ampiezza", a procedere "in profondità", attirando
l'attenzione su un tema che ritiene interessante: [in 1a;
“a cosa serve l’acqua?”] … ANDREA
- L’acqua bollente. GIULIA
F. - Per lavare le seggiole, i piatti. LORENZO - Per fare la pasta. MAESTRA - Andrea ci ha detto: “l’acqua
bollente”; che cos’è? Ma in generale si possono considerare di contenimento
cognitivo, dal punto di vista del discorso scientifico, anche le azioni che
l’insegnante fa per riportare alle modalità della pratica scientifica,
ad esempio quando chiede di essere precisi nell’osservazione: [in
2a; ”di che colore è l’acqua del mare?”]
MAESTRA - Perché
hai detto gialla? DANIELE - Perché
è il riflesso del Sole. MAESTRA -
Dappertutto c’è il riflesso? o
a essere coerenti nella relazione tra osservazione e linguaggio che la
descrive: [in 2a; “Il Sole cambia l’ora?”] JULIA - Ogni
stagione ha un orario. ANDREA - Ogni
mese ha un orario. MAESTRA -
Infatti che cosa abbiamo visto? DANIELE - Tramontava a un’ora di
meno: a settembre alle 18,58, a ottobre quasi un’ora prima. oppure invita a “contestualizzare” un’affermazione
generica: [in 3a;
la domanda di partenza è stata “dentro la classe c’è acqua?”] MARCO
C. - Però una cosa: mica i vetri sono sempre appannati. MAESTRA - Quando sono
appannati? Complessità e sistemi Tra
le discipline scientifiche ce n’è una che studia come funzionano gli
organismi e gli organi in particolare. Prendiamo la voce “fisiologia dell’occhio” in Wikipedia: “Ciascuna parte
dell'occhio ha una sua caratteristica fisiologica. Nello svolgere la sua
funzione, l'occhio si comporta come la camera di una macchina fotografica,
originando la formazione dell'immagine posteriormente, a livello della retina,
eccitando la sensibilità delle cellule presenti che, attraverso il nervo
ottico, raggiungono i centri della
conoscenza e della memoria nel cervello…” Altra disciplina
scientifica è l’ottica che “è la parte
della fisica che descrive il comportamento e le proprietà della luce e
l'interazione della luce con la materia. L'ottica affronta quelli che sono chiamati i fenomeni
ottici, da un lato per spiegarli e dall'altro per ottenere risultati
sperimentali che le consentano di crescere come disciplina fenomenologica e
modellistica.” C’è
poi la geometria che è “quella parte della scienza matematica che si
occupa delle forme nel piano e nello spazio e delle
loro mutue relazioni”. Una volta, in una classe, dopo aver fatto
“ricalcare” sui vetri delle finestre l’immagine del paesaggio retrostante, feci una domanda un po’ strana: INSEGNANTE
- Quando noi diciamo di vedere un oggetto, è il nostro sguardo che va
all'oggetto o è qualcosa dell'oggetto, diciamo la sua forma, che viene dentro
i nostri occhi? I
miei alunni di prima media poco sapevano di geometria, ancora meno di
fisiologia e nulla di ottica; ma risposero ugualmente e ne uscì una
conversazione che mi aprì gli occhi su come il pensiero dei bambini sia
diverso e non semplicemente “più piccolo” del nostro. A un certo punto ci furono tre interventi consecutivi: ANTONELLO – Volevo dire che se intorno a
noi non abbiamo niente non possiamo vedere niente, se invece abbiamo
qualcosa, abbiamo la possibilità di guardarlo, perché c’è la forma di
qualcosa. LUCA – Se tu hai gli occhi chiusi non vedi
niente; è come due lenti: se gli metti davanti qualcosa non vedono niente. DANILO – Sì… La stessa cosa è se c’è la
luce: noi vediamo… quando non c’è più luce non vediamo più niente. (Sala, 2004, pag. 103-106) Lì
per lì li giudicai inconcludenti e dilatori nella ovvietà delle loro affermazioni;
ero deluso e irritato, ma non andai oltre al non capire e al riproporre la
domanda. Per fortuna la conversazione era registrata e così, molti riascolti
dopo, provai a considerare l’insignificanza come un pre-giudizio mio e a
cercare un possibile significato nei dettagli (l’uso del “se” ad esempio);
esso mi apparve quando finalmente considerai l’insieme dei tre interventi come un unico pensiero (un altro
pregiudizio da adulto, che deriva dal fatto che agli adulti ormai raramente
capita di co-costruire
conoscenza in una conversazione, è che ogni interlocutore sostiene, o al massimo
sviluppa, una propria idea opponendola, o confrontandola nel migliore dei
casi, con quelle degli altri). Prese nel loro insieme quelle che venivano
messe in luce erano le condizioni (“se…”) che rendono possibile la visione;
non c’è visione senza luce, senza apparato dell’occhio, senza qualcosa da vedere;
la visione non si dà se manca anche uno solo dei tre; e questo significa che
la visione è un fenomeno sistemico, attribuibile a un sistema che è più e
meno della somma di occhio, oggetto e luce. Epistemologia pre-disciplinare A confermare che di questo si trattava,
poco più avanti: DAVIDE - Massimiliano ha detto che se noi
stiamo con gli occhi chiusi noi non vediamo niente, però il sogno viene a
noi, non è che noi andiamo dal sogno. E il sogno è sempre un' immagine. Se la visione è una relazione (sistemica), quale
migliore esempio del sogno per cogliere la relazione allo
stato puro, in assenza cioè dei
referenti (l’oggetto non è presente, l’occhio è chiuso, la luce è spenta)? Rileggendo
quella conversazione (Sala, 2004, pag. 239-40) si nota
come la domanda iniziale venga riproposta dall’insegnante in
varie forme più volte, ma non riceva mai una risposta soddisfacente. Se non c'è risposta, il problema sta forse
nella domanda; come viene posta ai bambini, contiene alcune premesse
implicite: c'è un osservatore, c'è un oggetto, la forma è una caratteristica
dell'oggetto, lo sguardo è un'azione dell'osservatore. Sono proprio quelle premesse
a essere rifiutate dal pensiero dei bambini. Si può allora rileggere il
dialogo come il loro tentativo di costruire una teoria della visione fuori
dalle categorie del "nostro" pensiero scientifico e dalle
discipline della “nostra” scienza. Ora ci si
potrebbe domandare se i bambini stavano praticando
l’interdisciplina o se piuttosto, essendo
collocati a monte di delimitazioni disciplinari non ancora assimilate,
affrontavano la conoscenza di un oggetto complesso (la visione) con un
pensiero complesso pre-disciplinare. Nel secondo
caso si deve ammettere che il pensiero pre-disciplinare
dei bambini è un pensiero complesso e si può prevedere che, per adulti ormai
perfettamente adattati alla cultura in cui vivono in un una tassonomia di
saperi disciplinari, l’affrontare problemi non complicati ma complessi sia
molto più difficoltoso che per i bambini. Di questo porto testimonianze che
provengono da laboratori formativi con adulti (insegnanti). A un gruppo di adulti viene richiesto di dare una
definizione scientifica di trasparenza
(Sala, 2004, pag. 97-102). Le risposte convergono senza eccezioni su qualcosa come “caratteristica di un corpo che permette
alla luce di attraversarlo e a noi di vedere ciò che sta al di là”. Segue
un’altra domanda strana: "Un
oggetto trasparente, ad esempio il vetro, lo è anche al buio?". La domanda precipita le persone
in una specie di doppio vincolo cognitivo:
se si continua ad affermare che è una caratteristica dell’oggetto, come può la trasparenza andare persa quando cambiano
condizioni estranee all’oggetto in sé? e se si sostiene la sua permanenza,
come è possibile affermarla in assenza proprio di ciò che la definisce
(l’attraversamento della luce e la visione attraverso un corpo)? La chiave del problema sta in
quello che ci hanno mostrato i bambini: la trasparenza non è una
caratteristica dell’oggetto, ma del sistema costituito dall’oggetto,
dalla luce e dal dispositivo di ricezione (occhio, macchina fotografica…). Se
questo sistema è inglobato nella definizione, il problema scompare: è una
questione epistemologica. Il
pensiero post-disciplinare degli adulti La ragione del fallimento degli
adulti sta in una diversa epistemologia che si consolida in abitudini
cognitive, in premesse implicite, sostenute da una cultura disciplinare, ovvero
fatta di discipline separate. Se
devo spiegare un fenomeno che comporta la percezione alterata della forma di
un oggetto, poniamo per rifrazione, dove vado a cercare lumi? I “lumi” stanno
nel manuale di ottica, che però trascura totalmente la percezione; in quello
di psicologia della percezione non si parla del tragitto dei raggi luminosi
nei vari mezzi; nel manuale di geometria posso trovare, se sono fortunato, le
regole delle trasformazioni, ma nulla su ciò che le provoca, e così via. Riuscirò a rimettere insieme i
pezzi, dato e non concesso che combacino dal momento che sono stati costruiti
in fabbriche diverse? Un altro esempio (Sala, 2004,
pag. 119-129) a partire da un’altra domanda strana:
“perché gli specchi invertono la
sinistra con la destra e non l’alto con il basso?”. Se la pongo a degli
adulti, prima poi qualcuno dice “Ci
deve essere una legge di fisica che lo spiega… ma non me la ricordo”; “Non è un problema!” e porgo il manuale
di fisica. Breve ricerca… capitolo dell’ottica… “Ecco qui la legge della riflessione: l’angolo di incidenza è uguale
all’angolo di riflessione.” Quando però
chiedo ai presenti se sono soddisfatti, se cioè questa è una risposta alla
domanda fatta, la reazione è concordemente negativa; e risulta inutile
un’ulteriore ricerca sul libro di fisica. Non sto dicendo che la
disciplina dell’ottica non sa spiegare il fenomeno della riflessione, ma che
il manuale di ottica, prodotto ed espressione di quella disciplina, non risponde
a quella domanda fatta che riguarda anche
la riflessione ottica. E non riescono a rispondere gli adulti che quella
disciplina hanno studiato e hanno il manuale a disposizione. I bambini
invece, posti di fronte allo stesso problema, lo risolvono (Sala, 2004, pag. 131-144), facendo ricerca sulla situazione reale posta
dalla domanda senza pre-giudizi (disciplinari), scoprendo anche quanto il
problema stia nella domanda; la quale non fa parte dell’ottica, ma del
sistema cognitivo in gioco sì. Questo perché si tratta di un problema non
complicato (non servono calcoli o formalizzazioni, non serve scomporlo in parti),
bensì complesso. Ci aiuta l’interdisciplina? In
questo caso non saprei a quali discipline ricorrere: semantica?
epistemologia? I bambini nella loro conversazione dimostrano una sensibilità
semantica e una consapevolezza epistemologica, ma non le hanno certo studiate
come discipline, sono competenze che hanno già e che semmai perdono nel processo di adattamento
alla cultura in cui vivono. Quello del puzzle è il gioco che fanno gli adulti già culturalmente adattati
a un mondo di discipline separate, ma è un gioco che richiede la capacità (in
realtà si tratta di una competenza)
di rimettere insieme i pezzi; e dove si forma questa competenza? Interdisciplina e
formazione Nella nostra cultura
all’università è demandato il compito della costruzione di professionalità
che sono complesse (se siano più complesse di altre che si costruiscono a
livelli più “bassi” non lo so, ma complesse lo sono di certo). La mia esperienza di università
(ma non credo sia solo la mia) è stata quella dell’assemblaggio di corsi,
ciascuno dei quali non solo si occupava di un delimitato campo del sapere, ma
aveva contesto culturale, comunità di riferimento, epistemologia,
metodologia, etica della relazione formativa, organizzazione… diversa e autonoma (ma i docenti
universitari non ce l’hanno il “consiglio di classe”?), come se ciascuna
fosse un diverso dispositivo
formativo. I pezzi del puzzle non
solo non avevano le sporgenze e le rientranze combacianti, ma sembravano
tutti rotondi. Ma, soprattutto, quando mi sarei aspettato fosse il momento di
provare a rimetterli insieme, mi hanno invitato a una cerimonia in cui mi
hanno detto che ormai ero “dottore” e potevo, anzi dovevo, uscire di lì.
Forse in altre facoltà non era così, ma non mi pare che da nessuna parte si cominciasse dalla figura intera,
quella che nei puzzle sta sul coperchio
della scatola. Quelli di noi che andavano a insegnare nella scatola della
scuola ci venivano buttati e scoprivano la complessità, nel migliore dei casi
imparandola per tentativi ed errori, nel peggiore rimuovendola attraverso la
separazione tra la gestione della relazione educativa (la “metà” affettiva),
e l’apprendimento (la “metà” cognitiva). Ma l’apprendimento, quando non
è assunto nella complessità di un processo di co-costruzione sociale di
conoscenza, finisce per affidarsi alla trasmissione
di un sapere disciplinare, dove si dà per scontato che l’altro apprende ciò
che io insegno. E il vero problema sta nel
fatto che la trasmissione non può che essere fatta nel linguaggio
disciplinare dell’emittente. Questo non comporta problemi quando la comunicazione
avviene in contesti in cui il linguaggio è condiviso, come accade all’interno
della comunità disciplinare; quando invece i destinatari sono non esperti, il
tentativo di semplificare il linguaggio, di “divulgare”, di solito comporta
una perdita di correttezza dal punto di vista scientifico, un degrado del
significato; si crea un altro doppio vincolo: se voglio rispettare i significati
attribuiti dalla comunità scientifica devo usarne il linguaggio, ma se uso
quel linguaggio chi riceve la comunicazione non è in grado di comprendere i
significati. È sconcertante che
l’università, nella sua dimensione didattica, non si ponga il problema del puzzle (o non se lo poneva solo quando
l’ho frequentata io?) perché, nella dimensione della ricerca, è il luogo per
eccellenza dell’integrazione di discipline diverse o dell’apertura di campi
di indagine nelle zone di confine, nonostante le discipline siano sempre più
parcellizzate e specializzate. Da quella esperienza potrebbero venire indicazioni
importanti anche per i docenti della scuola media; a loro invece da ormai
trent’anni il problema dell’interdisciplina viene posto ossessivamente, ma
sempre la scatola del puzzle
contiene pezzi “rotondi” e qualcuno s’è portato via il coperchio con l’immagine
intera. E le scelte, non certo frutto di pedagogia o ricerca formativa, ma ideologiche
o meramente economicistiche, fatte in questi anni dalla politica hanno sempre
più ridotto le condizioni per
tentare di rispondere alla sfida. In conclusione, per ragioni
epistemologiche, e in generale culturali, gli adulti fanno una grande fatica
a praticare una conoscenza della realtà che, essendo complessa, a loro
richiederebbe una pratica interdisciplinare, che sarebbe forse meglio
chiamare post-disciplinare. I bambini, che vivono in una cultura pre-disciplinare e sono ancora “interi”, praticano un pensiero complesso, il che significa
che il loro modo di pensare è sociale (il gruppo è un sistema), contestualizzato,
sistemico, evolutivo, spregiudicato (privo di pregiudizi) e quindi creativo (tertium datur),
narrativo, si struttura su relazioni più che su oggetti, è meta-cognitivo,
epistemologico, critico. La soluzione è allora eliminare
la discipline? Non si può far vivere i pesci nell’aria, a meno che non
abbiano a disposizione qualche centinaio di migliaia di anni almeno (e
mutazioni fortunate) per adattarsi. Nel caso dell’evoluzione culturale i
tempi sono molto più brevi, ma non si può uscire dalla storia che ci ha
portati qui, se non con operazioni coercitive; l’alternativa è costituita da
scelte che abbiano effetti di lungo termine a partire dalle istituzioni che
sono collocate in snodi cruciali del sistema formativo (la chiusura in Italia
delle Scuole Interuniversitarie di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario
ne è un esempio, ma in negativo). Per chi lavora con i bambini
rimane ancora la possibilità di una scelta educativa: almeno non distruggere
anzitempo, con la repressione o anche solo con il non “ascolto” della loro
diversità, quel loro pensiero complesso, capace di co-costruire
immagini del mondo che a noi è così difficile ri-costruire a partire dai pezzi del puzzle. Ma non si tratta soltanto di
una scelta pedagogica a favore dei bambini: a saperle “ascoltare” le loro gestalt possono essere per noi le
immagini sul coperchio della scatola che ci mancano. Bibliografia Bateson
G.,1970. Forma, sostanza e differenza in Verso un’ecologia della mente, edizione
italiana Adelphi Milano 1976. Bateson
G., 1979. Mente e natura, edizione italiana Adelphi Milano 1984. Bateson G., 1979b. “Ultima
conferenza”, in Una sacra unità, Adelphi Milano 1997. Damasio A., 1994. L’errore di Cartesio, edizione
italiana Adelphi Milano 1995. Edelman G., Tononi G, 2000. Un universo di coscienza, edizione
italiana Einaudi Torino. Foucault M., 1970. L’ordine del discorso, edizione italiana
Einaudi Torino 1972. Piaget
J., 1966. La psicologia del bambino, Einaudi Torino 1970. Piaget
J., 1970. L’epistemologia genetica, Laterza Roma-Bari
1973. Sala M., 2004. Il volo di Perseo, Junior Azzano
S. Paolo BG. Sala M., 2007. L’arte di (non) insegnare, Change
Torino. Wittgenstein L., 1953. Ricerche filosofiche, edizione
italiana Einaudi Torino 1999. |