Marcello Sala

IL PUZZLE

INTERDISCIPLINA E PENSIERO COMPLESSO DEI BAMBINI

-pubblicato in-

 

RIFLESSIONI SISTEMICHE

n. 3 / 2010

AIEMS

 

Sommario

Disciplina come “restrizione e coercizione” – sistema delle discipline e scienza - il modello del puzzle - territorio della realtà e mappe culturali - i bambini pensano complesso – non separazione tra intelletto e affettività - dall’azione alla conoscenza - disciplinarietà come processo educativo – adulti e bambini: epistemologie diverse - realtà complessa / strumenti cognitivi disciplinari – la formazione di competenze interdisciplinari.

Parole Chiave

complessità, interezza, epistemologia, pre-disciplinarietà, formazione.

Summary

Discipline as “restriction and coercion” – system of the disciplines and science – the model of puzzle –  the area of reality and cultural maps – children think in a complex way – no division between intellect and affectivity – from action to knowledge – disciplinarity as an educative process – adults and children: different epistemologies – complex reality / disciplinary cognitive tools – building up interdisciplinary competences.

Keywords

Complexity, wholeness, epistemology, pre-disciplinarity, training.

 

Disciplina e discipline

A che cosa ci riferiamo quando parliamo di disciplina? L’archeologia del sapere ce ne dà un’idea:

[…] una proposizione deve rispondere a complesse e pesanti esigenze per poter appartenere all'insieme di una disciplina […] La disciplina è un principio di controllo della produzione del discorso. Essa gli fissa dei limiti col gioco d'una identità che ha la forma di una permanente riattualizzazione delle regole.

Si ha l'abitudine di vedere nella fecondità d'un autore, nella molteplicità dei commenti, nello sviluppo di una disciplina, altrettante infinite risorse per la creazione dei discorsi. Forse; ciò non toglie che esse restino pur sempre principi di costrizione; ed è probabile che non si possa render conto del loro ruolo positivo e moltiplicatore, se non si prende in considerazione la loro funzione restrittiva e costrittiva.”  (Foucault, 1970, pag. 25-29).

E con questo abbiamo una spiegazione del perché la parola “disciplina” abbia anche quell’altro significato molto usato nel “gioco linguistico” della scuola e che si riferisce alla “condotta” degli studenti.

La disciplina di cui mi occupo è la scienza… ma la scienza non esiste, semmai le scienze, e io non mi occupo certo di tutte; diciamo allora la biologia. Da questo uno scienziato professionista capirebbe subito che non sono uno scienziato professionista; lui infatti non direbbe “biologia”, ma “zoologia degli invertebrati” o “genetica molecolare”, e solo per farsi capire dai non addetti; in un contesto di comunicazione scientifica direbbe che il suo campo di ricerca è la “riproduzione degli idrozoi” o la “ricombinazione per trasposizione” o cose del genere. Dal momento che per professione esercitano il pensiero critico, gli scienziati sono consapevoli forse più di altri dei limiti del proprio campo di conoscenza; per loro la disciplina è una cosa seria, restrittiva e costrittiva come dice Foucault, nel senso che non si è scienziati se non si è esperti di un campo preciso di ricerca, con la sua metodologia, i suoi dispositivi, il suo universo di discorso, la sua comunità di riferimento.

Eppure la ricerca scientifica, come attività culturale e funzione sociale, attraversa continuamente i confini tra discipline, vive di pratiche che richiedono interazione tra esperti di campi diversi, integrazione tra teorie, contaminazioni di metodologie e di linguaggi.

Di me stesso dovrei dire che, quando ero insegnante di scienze nella scuola di base, la mia disciplina erano le scienze, pretendendo con ciò di essere già interdisciplinare e d’altra parte ammettendo di non essere uno scienziato (dal che si dedurrebbe qualcosa di problematico: un insegnante di scienze non è uno scienziato e uno scienziato non può insegnare le scienze?).

Come formatore però la mia ricerca è essenzialmente di tipo epistemologico e l’epistemologia è anch’essa una disciplina, anch’essa con ulteriori distinzioni disciplinari tra epistemologia evoluzionista, epistemologia della fisica ecc. E, di nuovo, il paradosso: un epistemologo non è uno scienziato perché la sua disciplina è diversa; ma può un epistemologo non essere uno scienziato dal momento che l’epistemologia è un meta-discorso sulle scienze?

Insomma mi pare chiaro che “disciplina” è un concetto relativo; relativo soprattutto al contesto di comunicazione e ai livelli gerarchici delle nostre mappe della conoscenza, oppure alle pratiche professionali (uno studente si iscrive alla facoltà di scienze, al suo interno sceglie il corso di laurea in fisica, al suo interno la specializzazione in astrofisica, poi come professione si occupa di radioemissioni stellari, ma per farlo deve divenire esperto di tecnologia delle trasmissioni ecc.). Possiamo pensare alle discipline come a un sistema culturale complesso.

Mappe

Se dovessi parlare da scienziato, direi che la mia disciplina è l’epistemologia genetica, nel senso di come conoscono i bambini. Dovrei essere più preciso e dire “come i bambini co-costruiscono conoscenza nel campo scientifico”, ma quando i bambini costruiscono conoscenza su qualche oggetto o fenomeno che noi siamo soliti attribuire al campo scientifico, loro, i bambini, non hanno per nulla consapevolezza di questa delimitazione, anzi, dico meglio, non la praticano.

Ma quando si sente parlare di interdisciplinarietà nella scuola non ci si riferisce ai residui di una non specializzazione bensì a un rimedio per l’eccessiva separazione tra le materie. Allora a me viene in mente l’immagine del puzzle. Mi sono sempre immaginato che il puzzle sia nato come “gioco alla rovescia”, inventato da un papà creativo, uscito dall’esperienza inquietante di dover ricomporre un prezioso documento fatto a pezzi dal figlioletto intento a qualche suo gioco molto serio.

Voglio dire che, se non ce lo ritrovassimo in un contesto intenzionale di “gioco”, il puzzle non sarebbe una cosa divertente, sarebbe il tentativo di porre rimedio a un’azione che ha distrutto una precedente forma. Le connotazioni che diamo alle espressioni “fare a pezzi” e “risolvere un puzzle” sono significative.

Nel caso della scuola non si tratta però di rimettere insieme i pezzi un puzzle, che comunque combaciano tra loro, ma di ricomporre la rappresentazione di un territorio a partire da mappe diverse, redatte a partire da proiezioni, convenzioni simboliche, linguaggi, contesti di discorso, intenzionalità diverse. Il rischio è che la mappa vagamente picassiana che ne risulta non sia utilizzabile per leggere il territorio che dovrebbe rappresentare, che è quello della realtà, in modo da rendere possibile viverci dentro.

Non vorrei riaprire il vecchio, ma mai concluso, dibattito se il territorio della realtà sia conoscibile o no, mi accontento della risposta di Kant e accetto i limiti della conoscenza umana o, per dirla con Gregory Bateson, prendo atto che quando pensiamo alle noci di cocco o ai porci, nel cervello non vi sono né noci di cocco né porci” (Bateson, 1979a, pag. 47), ovvero che “il mondo mentale è costituito solo da mappe di mappe, ad infinitum.” (Bateson, 1970, pag. 472)

Ma proprio seguendo Bateson mi domando se è possibile costruire mappe migliori di altre nel rappresentare la “struttura che connette”, la vita nel territorio della realtà, ovvero nel metterci in grado di vivere in maggiore armonia con quella realtà.

D’altra parte le mappe sono un prodotto culturale e dunque dove andare a cercare mappe più connessive se non dove la cultura è meno differenziata e più vicina alla “natura umana“ come substrato comune prodotto dall’evoluzione? Non ho detto “dove c’è meno cultura” o dove “è meno sviluppata”, perché quello che ho capito ascoltando i bambini (di loro sto parlando) è che, dal punto di vista culturale, non sono affatto “come noi (adulti), però di meno”, insomma adulti incompiuti, bensì diversi da noi e forse più immersi nella “struttura che connette”.

Infatti i bambini praticano un pensiero complesso.

La “Biologia” dei bambini

[1a elementare]

INSEGNANTE - Vogliamo raccontare a Federico a cosa è servita la vaschetta dei pesci che è sopra l’armadio?

GIULIA R. - Ci abbiamo messo le lumache, prima le abbiamo prese.

GIULIA F. - ... nel prato.

GIORGIA - Le abbiamo messe dentro la scatola.

ARIANNA - … dentro la vaschetta dei pesci.

ALEXANDRA - Abbiamo costruito un terrario: preso la terra, le foglie e i sassi.

FRANCESCO - ... l’acqua.

ELENA - Gli abbiamo dato da mangiare.

GIULIA F. - ... tutti i giorni

FRANCESCO - Anche l’acqua, perché se no non vivono.

INS. - Perché?

GIORGIA - Gli serve per bere.

LORENZO - Ci abbiamo messo la rete perché se no scappavano.

GIULIA L. - Abbiamo trovato le uova.

FRANCESCO - Erano perle.

GIORGIA - Erano carine.

ALESSIO - Dopo tanti giorni si sono schiuse le uova e sono nate le lumachine.

LORENZO - Le abbiamo lasciate libere per non farle morire, perché sono esseri viventi.

RACHELE - … perché mangiano e bevono.

GIULIO - … perché muoiono.

MICHELE - … respirano.

FRANCESCO - … camminano.

AGNESE - … diventano grandi.

INS. - Perché sono uscite quando gli abbiamo spruzzato l’acqua?

AGNESE - Perché loro vivono all’acqua. Quando c’è la pioggia stanno in acqua, quando non c’è la pioggia stanno al  fresco.

GIULIA F. – So’ un po’ “birbantelle” dell’acqua.

ALEXANDRA - L’acqua gli serve alla vita.

INS. - Perché?

FRANCESCO - Perché serve alla vita.

ALEXANDRA – Serve alla vita perché tutti gli animali bevono.

GIORGIA - Vogliono sentire il bagnato.

VERONICA - Quando piove escono subito fuori.

GIULIO - … se no muoiono.

FRANCESCO - Perché hanno tanto caldo, dopo si annoiano e vogliono anda’ sull’acqua.

INS. - Allora se noi non gli avessimo dato più acqua sarebbero morte?

MICHELE - Sarebbero morte, perché non uscivano fuori dal guscio e non mangiavano.

ALEXANDRA - Soffrivano.

INS. - Perché?

ALEXANDRA - Perché le lumache hanno tutte quelle bollicine, se il sole asciuga tutto il  bagnato di quelle bollicine muoiono, perché le bollicine le aiutano a  appiccicare sui muri; e poi è una regola: tutti gli animali bevono!  L’acqua.

Ho scelto questo esempio perché parla della vita delle chiocciole, perché la mia disciplina di formazione è la biologia e perché io stesso l’ho inserito tra le “conversazioni scientifiche” (Sala, 2004, pag. 109); ma questi bambini di prima elementare stanno “facendo scienze”? O siamo stati noi, insegnanti e formatori, a utilizzare come cornice un nostro contesto di riferimento? (“Fare e dire le scienze”, progetto SeT 2000-2001, Scuola Elementare Statale Jole Orsini di Amelia, TR)

Ma, ancor prima: i bambini stanno parlando della vita delle chiocciole? Quando Francesco dice “si annoiano e vogliono anda’ sull’acqua” o in una conversazione simile Elenanel terrario stavano bene, però erano un po’ prigioniere, invece devono essere libere...non stanno forse parlando di sé? Trattandosi di esseri viventi, la conoscenza passa attraverso un’identificazione empatica (i bambini attribuiscono all’animale una natura simile alla propria).

Ma l’affettività e la scienza sono irriducibili, sono esperienze umane inconciliabili? Nell’esempio che segue (il contesto è simile al precedente) si vede bene come la relazione affettiva non è affatto in contraddizione con un’osservazione attenta o una lucidità sul piano razionale, anzi proprio la vicinanza con l’oggetto acuisce lo sguardo che si fa “scientifico”:

GIULIA S. - Si nascondono sotto terra oppure vanno dentro i buchi del muro e dormono.

GIULIA R. - Perché devono ripararsi dalla pioggia…

GIULIA S. - Ma beh! Ma se escono fuori quando piove!

DEVIS Uscivano pure quando spruzzavamo l’acqua…

Per dirla in modo più scientifico:

[…] mentre lo schematismo cognitivo passa da uno stato iniziale centrato sull'azione propria alla costruzione di un universo oggettivo e decentrato, l'affettività degli stessi livelli senso-motori procede da uno stato d'indifferenziazione tra l'io e l'ambiente fisico e umano per costruire in seguito un insieme di scambi tra l'io differenziato e le persone (sentimenti interindividuali) o le cose.

[…] nella misura stessa in cui l'io resta inconsapevole di sé, dunque indifferenziato, tutta l'affettività continua a concentrarsi sul proprio corpo e le proprie azioni, poiché soltanto una dissociazione dell'io e dell'altro oppure del non-io permette la decentrazione affettiva come quella conoscitiva.” (Piaget, 1966, pag. 27-28)

Bambini interi

Uno psicologo può estrarre, perché è suo interesse e sua competenza, l’aspetto delle dinamiche affettive dalla conversazione precedente, ma non può sostenere che l’emotività e l’affettività sono separate dalla conoscenza; non mi rattristo (reazione sentimentale) se leggo il testo in turco della straziante scena della morte di Giulietta e Romeo perché non conosco il turco; ugualmente la conoscenza di un oggetto non serve alla mia vita se non ha un valore e questo dipende dalla qualità affettiva della mia esperienza con quell’oggetto (costruita a partire dalla primitiva sensazione di benessere/malessere) (Damasio, 1994).

Nel territorio della vita dei bambini il rapporto con le cose è intero e la nostra mappa, il linguaggio con cui ne parliamo, dovrebbe restituire questa interezza:

 “… se vogliamo parlare di esseri viventi […] sarebbe opportuno adottare un linguaggio che fosse in qualche modo isomorfo, che fosse coerente con il linguaggio in base al quale gli esseri viventi stessi sono organizzati.”          (Bateson, 1979, pag. 458)

E allora: come sono organizzati gli esseri viventi umani secondo gli scienziati?

 

“Sentimenti alterati e una ragione imperfetta si presentavano assieme come conseguenze di una specifica lesione cerebrale, e questa correlazione mi suggeriva che il sentimento fosse una parte integrante del modo di operare della ragione. [...] Io suggerisco soltanto che certi aspetti del processo dell’emozione e del sentimento sono indispensabili per la razionalità.”

(Damasio, 1994, pag. 18)

Se non vogliamo separare nelle nostre mappe ciò che è intero nel territorio della vita, il primo atto di interdisciplina è spazzare via quelle fondanti false separazioni “disciplinari” tra scienza e arte, tra linguaggio scientifico e linguaggio narrativo (rileggersi la conversazione precedente), separazioni che rimandano a quella tra ragione e sentimento (Quando ho letto il romanzo di Jane Austin, non vi ritrovavo la contrapposizione che mi veniva proposta dal linguaggio con l’uso dei termini “ragione” e “sentimento”; poi ho scoperto che il titolo originale è Sense and sensibility ovvero “Buon senso e sensibilità”, qualità che non sono affatto in contrapposizione.), tra mente e corpo… E per farlo occorre liberarsi dall’uso “suggestivo” di metafore, come quelle del “cervello sinistro/cervello destro”, che nel contesto scientifico d’origine hanno riferimenti precisi ma che poi, sconfinando e dilagando per ragioni retoriche, suggeriscono appunto idee false, come ci dice chi il cervello lo studia:

“… se integrazione e differenziazione sono realmente caratteri fondamentali della coscienza, possono essere spiegate solo attraverso un processo neurale distribuito e non ricorrendo a specifiche proprietà locali [...] Un nucleo dinamico è perciò un processo e non una cosa o un luogo, ed è definito mediante interazioni neurali, piuttosto che attraverso la localizzazione specifica…”                    (Edelman - Tononi, 2000, pag. 170-171)

E se ormai il dualismo si è installato nella nostra natura culturale, l’unica speranza di non farlo crescere con una dinamica autocatalitica è quello di evitare di usare con i bambini il linguaggio dualistico degli adulti. In questo esempio si vede bene come bambini (di 10 anni) a un linguaggio e a un pensiero delle dicotomie contrappongono un linguaggio “narrativo” che testimonia un “pensare per storie” fatto di relazioni temporali e relazioni contestuali:

ADULTO - I campi coltivati sono naturali o artificiali?

VOCI - Naturali. - Artificiali.

A - Naturali e artificiali. Naturali perché c'è la terra e artificiali perché l'uomo ha seminato...

ADULTO - Un tavolo di legno è...?

voci - Artificiale e naturale.

B - Il legno è naturale ma poi viene trasformato.

C - Prima c'è l'albero ed è naturale, poi l'uomo gli dà la forma ed è artificiale.

Verso le Scienze Naturali

Quando i bambini raccontano dell’esperienza fatta (“Ci abbiamo messo le lumache, prima le abbiamo prese” ecc.) non parlano forse delle proprie azioni? Ed è anche interessante notare come questo racconto sia unico a più voci, come se il gruppo dei bambini fosse un sistema che esplora e costruisce conoscenza. E dunque non mi pare una pensiero egocentrico, anche perché si tratta di azioni rivolte a un oggetto: la narrazione, che è un atto cognitivo, riguarda la relazione tra un soggetto e un oggetto, che oltretutto è percepito come un altro soggetto.

Siamo a monte di quella separazione che Jean Piaget interpreta in chiave disciplinare come nascita della matematica da una parte e delle scienze naturali dall’altra:

 “Ne risulta, da una parte, che fin dagli inizi di questo periodo della conoscenza rappresentativa pre-operatoria, si segnano considerevoli progressi nella doppia direzione e delle coordinazioni interne del soggetto - quindi delle future strutture operative o logico-matematiche - e delle coordinazioni esterne tra oggetti - quindi della causalità in senso ampio con le sue strutturazioni spaziali e cinematiche.” (Piaget, 1970, pag. 23)

“Nel caso delle nozioni logico-matematiche, esse presuppongono un complesso d'operazioni che sono astratte non già dagli oggetti percepiti ma dalle azioni esercitate sugli oggetti […]”

(Piaget, 1966, pag. 49)

Nella conversazione ci sono osservazioni che sicuramente possono essere collocate in un contesto di “scienze naturali” (“Dopo tanti giorni si sono schiuse le uova e sono nate le lumachine”, “L’acqua gli serve alla vita, perché tutti gli animali bevono”, “Perché le lumache hanno tutte quelle bollicine, se il sole asciuga tutto il  bagnato di quelle bollicine muoiono, perché le bollicine le aiutano ad appiccicare sui muri” ecc.), ma è l’insegnante che attira i bambini in due tipiche dimensioni del pensiero scientifico, causalità e previsione (“perché…?”, “che sarebbe successo  se…?”).

L’idea di disciplina può apparire cartesiana, eppure qui incontriamo un altro elemento di non chiarezza e non distinzione: non si tratta di una “cosa” ma di un processo. L’aveva capito perfino la scuola, qualche anno fa, prima di tornare indietro: con i più piccoli la conoscenza non ha delimitazioni, poi si possono individuare delle aree disciplinari e solo più avanti ritrovare le materie (chissà perché si usa questo termine che vuol dire primariamente qualcos’altro?): è l’insegnante che man mano, per inserire i giovani nella cultura in cui tutti abitiamo, costruisce con loro distinzioni e specificità: di oggetti, di discorsi, di linguaggi, di metodi.

Quando i bambini fanno ricerca non si pongono il problema di delimitare un oggetto, e forse questo è legato a “la natura stessa della ricerca, che ci costringe a percorrere una vasta regione di pensiero in lungo e in largo e in tutte le direzioni.” (Wittgenstein, 1953, pag. 3); e neppure si chiedono se quella che stanno elaborando è conoscenza scientifica; sono problemi che spettano all’insegnante.

“Contenimento cognitivo”

Se la conoscenza è una relazione tra soggetto e oggetto, la conoscenza scientifica richiede in primo luogo che l’attenzione sia rivolta a un oggetto, sia nella descrizione (il come) sia nella spiegazione (il perché). A questa esigenza corrispondono le azioni dell’insegnante che cercano di contenere l’indagine attorno all’oggetto scelto evitando la dispersione o la perdita di confini del discorso.

L’insegnante fa azione di contenimento cognitivo quando cerca di mettere a fuoco il centro problematico del discorso:

[in 2a elementare;  Il Sole cambia l’ora?”]

CATERINA - Quando piove il Sole non va via: si nasconde. Poi volevo dire che ho fatto un esperimento: ho preso un vetro l’ho messo davanti al Sole e ho visto tutti i colori.

MAESTRA -  Allora chi ha i colori?

oppure quando induce, dopo che i bambini hanno compiuto una ricognizione generale "in ampiezza", a procedere "in profondità", attirando l'attenzione su un tema che ritiene interessante:

[in 1a; “a cosa serve l’acqua?”]

ANDREA - L’acqua bollente.                                          

GIULIA F. - Per lavare le seggiole, i piatti.

LORENZO - Per fare la pasta.

MAESTRA - Andrea ci ha detto: “l’acqua bollente”; che cos’è?

Ma in generale si possono considerare di contenimento cognitivo, dal punto di vista del discorso scientifico, anche le azioni che l’insegnante fa per riportare alle modalità della pratica scientifica, ad esempio quando chiede di essere precisi nell’osservazione:

[in 2a; ”di che colore è l’acqua del mare?”]

MAESTRA - Perché hai detto gialla?

DANIELE - Perché è il riflesso del Sole.

MAESTRA - Dappertutto c’è il riflesso?

o a essere coerenti nella relazione tra osservazione e linguaggio che la descrive:

[in 2a; “Il Sole cambia l’ora?”]

JULIA - Ogni stagione ha un orario.

ANDREA - Ogni mese ha un orario.

MAESTRA - Infatti che cosa abbiamo visto?

DANIELE - Tramontava a un’ora di meno: a settembre alle 18,58, a ottobre quasi un’ora prima.

oppure invita a “contestualizzare” un’affermazione generica:

[in 3a; la domanda di partenza è stata “dentro la classe c’è acqua?”]

MARCO C. - Però una cosa: mica i vetri sono sempre appannati.

MAESTRA - Quando sono appannati?

Complessità e sistemi

Tra le discipline scientifiche ce n’è una che studia come funzionano gli organismi e gli organi in particolare. Prendiamo la voce “fisiologia dell’occhio” in Wikipedia:

 Ciascuna parte dell'occhio ha una sua caratteristica fisiologica. Nello svolgere la sua funzione, l'occhio si comporta come la camera di una macchina fotografica, originando la formazione dell'immagine posteriormente, a livello della retina, eccitando la sensibilità delle cellule presenti che, attraverso il nervo ottico, raggiungono i centri  della conoscenza e della memoria nel cervello…”

Altra disciplina scientifica è l’ottica che è la parte della fisica che descrive il comportamento e le proprietà della luce e l'interazione della luce con la materia. L'ottica affronta quelli che sono chiamati i fenomeni ottici, da un lato per spiegarli e dall'altro per ottenere risultati sperimentali che le consentano di crescere come disciplina fenomenologica e modellistica.”

C’è poi la geometria che èquella parte della scienza matematica che si occupa delle forme nel piano e nello spazio e delle loro mutue relazioni”.

Una volta, in una classe, dopo aver fatto “ricalcare” sui vetri delle finestre l’immagine del paesaggio  retrostante, feci  una domanda un po’ strana:

INSEGNANTE - Quando noi diciamo di vedere un oggetto, è il nostro sguardo che va all'oggetto o è qualcosa dell'oggetto, diciamo la sua forma, che viene dentro i nostri occhi?

I miei alunni di prima media poco sapevano di geometria, ancora meno di fisiologia e nulla di ottica; ma risposero ugualmente e ne uscì una conversazione che mi aprì gli occhi su come il pensiero dei bambini sia diverso e non semplicemente “più piccolo” del nostro.

A un certo punto ci furono tre interventi consecutivi:

ANTONELLO – Volevo dire che se intorno a noi non abbiamo niente non possiamo vedere niente, se invece abbiamo qualcosa, abbiamo la possibilità di guardarlo, perché c’è la forma di qualcosa.

LUCA – Se tu hai gli occhi chiusi non vedi niente; è come due lenti: se gli metti davanti qualcosa non vedono niente.

DANILO – Sì… La stessa cosa è se c’è la luce: noi vediamo… quando non c’è più luce non vediamo più niente.  (Sala, 2004, pag. 103-106)

Lì per lì li giudicai inconcludenti e dilatori nella ovvietà delle loro affermazioni; ero deluso e irritato, ma non andai oltre al non capire e al riproporre la domanda. Per fortuna la conversazione era registrata e così, molti riascolti dopo, provai a considerare l’insignificanza come un pre-giudizio mio e a cercare un possibile significato nei dettagli (l’uso del “se” ad esempio); esso mi apparve quando finalmente considerai l’insieme dei tre interventi come un unico pensiero (un altro pregiudizio da adulto, che deriva dal fatto che agli adulti ormai raramente capita di co-costruire conoscenza in una conversazione, è che ogni interlocutore sostiene, o al massimo sviluppa, una propria idea opponendola, o confrontandola nel migliore dei casi, con quelle degli altri).

Prese nel loro insieme quelle che venivano messe in luce erano le condizioni (“se…”) che rendono possibile la visione; non c’è visione senza luce, senza apparato dell’occhio, senza qualcosa da vedere; la visione non si dà se manca anche uno solo dei tre; e questo significa che la visione è un fenomeno sistemico, attribuibile a un sistema che è più e meno della somma di occhio, oggetto e luce.

Epistemologia pre-disciplinare

A confermare che di questo si trattava, poco più avanti:

DAVIDE - Massimiliano ha detto che se noi stiamo con gli occhi chiusi noi non vediamo niente, però il sogno viene a noi, non è che noi andiamo dal sogno. E il sogno è sempre un' immagine.

Se la visione è una relazione (sistemica), quale migliore esempio del sogno per cogliere la relazione allo stato puro, in assenza cioè dei referenti (l’oggetto non è presente, l’occhio è chiuso, la luce è spenta)?

Rileggendo quella conversazione (Sala, 2004, pag. 239-40) si nota come la domanda iniziale venga riproposta dall’insegnante in varie forme più volte, ma non riceva mai una risposta soddisfacente. Se non c'è risposta, il problema sta forse nella domanda; come viene posta ai bambini, contiene alcune premesse implicite: c'è un osservatore, c'è un oggetto, la forma è una caratteristica dell'oggetto, lo sguardo è un'azione dell'osservatore. Sono proprio quelle premesse a essere rifiutate dal pensiero dei bambini. Si può allora rileggere il dialogo come il loro tentativo di costruire una teoria della visione fuori dalle categorie del "nostro" pensiero scientifico e dalle discipline della “nostra” scienza.

Ora ci si potrebbe domandare se i bambini stavano praticando l’interdisciplina o se piuttosto, essendo  collocati a monte di delimitazioni disciplinari non ancora assimilate, affrontavano la conoscenza di un oggetto complesso (la visione) con un pensiero complesso pre-disciplinare. Nel secondo caso si deve ammettere che il pensiero pre-disciplinare dei bambini è un pensiero complesso e si può prevedere che, per adulti ormai perfettamente adattati alla cultura in cui vivono in un una tassonomia di saperi disciplinari, l’affrontare problemi non complicati ma complessi sia molto più difficoltoso che per i bambini.

Di questo porto testimonianze che provengono da laboratori formativi con adulti (insegnanti). A un gruppo di adulti viene richiesto di dare una definizione scientifica di trasparenza (Sala, 2004, pag. 97-102). Le risposte convergono senza eccezioni su qualcosa come “caratteristica di un corpo che permette alla luce di attraversarlo e a noi di vedere ciò che sta al di là”. Segue un’altra domanda strana: "Un oggetto trasparente, ad esempio il vetro, lo è anche al buio?". 

La domanda precipita le persone in una specie di doppio vincolo cognitivo: se si continua ad affermare che è una caratteristica dell’oggetto, come può la trasparenza andare persa quando cambiano condizioni estranee all’oggetto in sé? e se si sostiene la sua permanenza, come è possibile affermarla in assenza proprio di ciò che la definisce (l’attraversamento della luce e la visione attraverso un corpo)?

La chiave del problema sta in quello che ci hanno mostrato i bambini: la trasparenza non è una caratteristica dell’oggetto, ma del sistema costituito dall’oggetto, dalla luce e dal dispositivo di ricezione (occhio, macchina fotografica…). Se questo sistema è inglobato nella definizione, il problema scompare: è una questione epistemologica.

Il pensiero post-disciplinare degli adulti

La ragione del fallimento degli adulti sta in una diversa epistemologia che si consolida in abitudini cognitive, in premesse implicite, sostenute da una cultura disciplinare, ovvero fatta di discipline separate. Se devo spiegare un fenomeno che comporta la percezione alterata della forma di un oggetto, poniamo per rifrazione, dove vado a cercare lumi? I “lumi” stanno nel manuale di ottica, che però trascura totalmente la percezione; in quello di psicologia della percezione non si parla del tragitto dei raggi luminosi nei vari mezzi; nel manuale di geometria posso trovare, se sono fortunato, le regole delle trasformazioni, ma nulla su ciò che le provoca, e così via.

Riuscirò a rimettere insieme i pezzi, dato e non concesso che combacino dal momento che sono stati costruiti in fabbriche diverse?

Un altro esempio (Sala, 2004, pag. 119-129) a partire da un’altra domanda strana: “perché gli specchi invertono la sinistra con la destra e non l’alto con il basso?”. Se la pongo a degli adulti, prima poi qualcuno dice “Ci deve essere una legge di fisica che lo spiega… ma non me la ricordo”; “Non è un problema!” e porgo il manuale di fisica. Breve ricerca… capitolo dell’ottica… “Ecco qui la legge della riflessione: l’angolo di incidenza è uguale all’angolo di riflessione.” Quando però chiedo ai presenti se sono soddisfatti, se cioè questa è una risposta alla domanda fatta, la reazione è concordemente negativa; e risulta inutile un’ulteriore ricerca sul libro di fisica.

Non sto dicendo che la disciplina dell’ottica non sa spiegare il fenomeno della riflessione, ma che il manuale di ottica, prodotto ed espressione di quella disciplina, non risponde a quella domanda fatta che riguarda anche la riflessione ottica. E non riescono a rispondere gli adulti che quella disciplina hanno studiato e hanno il manuale a disposizione. I bambini invece, posti di fronte allo stesso problema, lo risolvono (Sala, 2004, pag. 131-144), facendo ricerca sulla situazione reale posta dalla domanda senza pre-giudizi (disciplinari), scoprendo anche quanto il problema stia nella domanda; la quale non fa parte dell’ottica, ma del sistema cognitivo in gioco sì. Questo perché si tratta di un problema non complicato (non servono calcoli o formalizzazioni, non serve scomporlo in parti), bensì complesso.

Ci aiuta l’interdisciplina? In questo caso non saprei a quali discipline ricorrere: semantica? epistemologia? I bambini nella loro conversazione dimostrano una sensibilità semantica e una consapevolezza epistemologica, ma non le hanno certo studiate come discipline, sono competenze che hanno già e che semmai perdono nel processo di adattamento alla cultura in cui vivono.

Quello del puzzle è il gioco che fanno gli adulti già culturalmente adattati a un mondo di discipline separate, ma è un gioco che richiede la capacità (in realtà si tratta di una competenza) di rimettere insieme i pezzi; e dove si forma questa competenza?

Interdisciplina e formazione

Nella nostra cultura all’università è demandato il compito della costruzione di professionalità che sono complesse (se siano più complesse di altre che si costruiscono a livelli più “bassi” non lo so, ma complesse lo sono di certo).

La mia esperienza di università (ma non credo sia solo la mia) è stata quella dell’assemblaggio di corsi, ciascuno dei quali non solo si occupava di un delimitato campo del sapere, ma aveva contesto culturale, comunità di riferimento, epistemologia, metodologia, etica della relazione formativa, organizzazione…  diversa e autonoma (ma i docenti universitari non ce l’hanno il “consiglio di classe”?), come se ciascuna fosse un diverso dispositivo formativo. I pezzi del puzzle non solo non avevano le sporgenze e le rientranze combacianti, ma sembravano tutti rotondi. Ma, soprattutto, quando mi sarei aspettato fosse il momento di provare a rimetterli insieme, mi hanno invitato a una cerimonia in cui mi hanno detto che ormai ero “dottore” e potevo, anzi dovevo, uscire di lì. Forse in altre facoltà non era così, ma non mi pare che da nessuna parte si cominciasse dalla figura intera, quella che nei puzzle sta sul coperchio della scatola. Quelli di noi che andavano a insegnare nella scatola della scuola ci venivano buttati e scoprivano la complessità, nel migliore dei casi imparandola per tentativi ed errori, nel peggiore rimuovendola attraverso la separazione tra la gestione della relazione educativa (la “metà” affettiva), e l’apprendimento (la “metà” cognitiva).

Ma l’apprendimento, quando non è assunto nella complessità di un processo di co-costruzione sociale di conoscenza, finisce per affidarsi alla trasmissione di un sapere disciplinare, dove si dà per scontato che l’altro apprende ciò che io insegno.

E il vero problema sta nel fatto che la trasmissione non può che essere fatta nel linguaggio disciplinare dell’emittente. Questo non comporta problemi quando la comunicazione avviene in contesti in cui il linguaggio è condiviso, come accade all’interno della comunità disciplinare; quando invece i destinatari sono non esperti, il tentativo di semplificare il linguaggio, di “divulgare”, di solito comporta una perdita di correttezza dal punto di vista scientifico, un degrado del significato; si crea un altro doppio vincolo: se voglio rispettare i significati attribuiti dalla comunità scientifica devo usarne il linguaggio, ma se uso quel linguaggio chi riceve la comunicazione non è in grado di comprendere i significati.

È sconcertante che l’università, nella sua dimensione didattica, non si ponga il problema del puzzle (o non se lo poneva solo quando l’ho frequentata io?) perché, nella dimensione della ricerca, è il luogo per eccellenza dell’integrazione di discipline diverse o dell’apertura di campi di indagine nelle zone di confine, nonostante le discipline siano sempre più parcellizzate e specializzate. Da quella esperienza potrebbero venire indicazioni importanti anche per i docenti della scuola media; a loro invece da ormai trent’anni il problema dell’interdisciplina viene posto ossessivamente, ma sempre la scatola del puzzle contiene pezzi “rotondi” e qualcuno s’è portato via il coperchio con l’immagine intera. E le scelte, non certo frutto di pedagogia o ricerca formativa, ma ideologiche o meramente economicistiche, fatte in questi anni dalla politica hanno sempre più ridotto le condizioni per tentare di rispondere alla sfida.

In conclusione, per ragioni epistemologiche, e in generale culturali, gli adulti fanno una grande fatica a praticare una conoscenza della realtà che, essendo complessa, a loro richiederebbe una pratica interdisciplinare, che sarebbe forse meglio chiamare post-disciplinare. I bambini, che vivono in una cultura pre-disciplinare e sono ancora “interi”, praticano un pensiero complesso, il che significa che il loro modo di pensare è sociale (il gruppo è un sistema), contestualizzato, sistemico, evolutivo, spregiudicato (privo di pregiudizi) e quindi creativo (tertium datur), narrativo, si struttura su relazioni più che su oggetti, è meta-cognitivo, epistemologico, critico.

La soluzione è allora eliminare la discipline? Non si può far vivere i pesci nell’aria, a meno che non abbiano a disposizione qualche centinaio di migliaia di anni almeno (e mutazioni fortunate) per adattarsi. Nel caso dell’evoluzione culturale i tempi sono molto più brevi, ma non si può uscire dalla storia che ci ha portati qui, se non con operazioni coercitive; l’alternativa è costituita da scelte che abbiano effetti di lungo termine a partire dalle istituzioni che sono collocate in snodi cruciali del sistema formativo (la chiusura in Italia delle Scuole Interuniversitarie di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario ne è un esempio, ma in negativo).

Per chi lavora con i bambini rimane ancora la possibilità di una scelta educativa: almeno non distruggere anzitempo, con la repressione o anche solo con il non “ascolto” della loro diversità, quel loro pensiero complesso, capace di co-costruire immagini del mondo che a noi è così difficile ri-costruire a partire dai pezzi del puzzle.

Ma non si tratta soltanto di una scelta pedagogica a favore dei bambini: a saperle “ascoltare” le loro gestalt possono essere per noi le immagini sul coperchio della scatola che ci mancano.

Bibliografia

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