Marcello Sala

SCIENZA (O MAGIA) IN PIAZZA

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Strumenti CRES  n.47 / 2007

ManiTese

 

In un piccolo centro nell’interland milanese è in pieno svolgimento una delle tante manifestazioni di “scienza in piazza”; manifestazione ottimamente organizzata, luogo perfetto, articolazione sapiente di iniziative capaci di coinvolgere il pubblico con registri diversi di comunicazione.

Nella piazza centrale del paese sono disposti gli stand delle scuole che presentano i loro lavori scientifici. Quello di una suola media è suddiviso in “chimica”, “fisica”, “biologia”.

Mi avvicino al banco della biologia e aggancio un ragazzino che maneggia un bicchiere con una cremosa poltiglia rosa:

“Vendete frullati?”

“No, facciamo l’estrazione del DNA.”

“DNA… che roba è?”

Il ragazzino rivolge un’espressione smarrita verso una giovane signora che gli sta a fianco, sicuramente l’insegnante.

“Estraiamo il DNA dal pomodoro” dice lei e mi indica una serie di provette.

Io, sempre rivolto al ragazzino che sta versando la poltiglia su una carta da filtro: “E come fate?”

Risponde l’insegnante: “Mettiamo il sapone…”

Io: “Che schifo! Io sul pomodoro ci metto l’olio” sempre rivolto al ragazzino, che non sa se sorridere.

“Perché ci mettete il sapone?” chiedo a lui, ma risponde l’insegnante: “Perché rompe la parete cellulare e così il DNA rimane libero. E poi ci si mette il sale…”

“Meno male: questo sì che ci sta bene sul pomodoro!”

A questo punto dalla carta da filtro è sceso del liquido rosa. Su indicazione dell’insegnante una ragazzina ne preleva un po’ con una pipetta e lo immette in una provetta piena di un liquido incolore e inizia ad agitarla, prendendosi una raffica di rimbrotti dai compagni che le stanno a fianco: “Non devi agitarla, ma farla oscillare!”.

Chiedo “Perché?”, ma i ragazzini restano muti (e convinti comunque che così si deve fare), l’insegnante è per un momento occupata altrove. Torna per dire che già nella provetta inizia a vedersi il DNA. Quello che vedo io è una specie di lievissima bambagia fluttuante nel liquido.

Tra quelle che mi passa l’insegnante c’è l’informazione che in una cellula ci sono 2 metri di DNA ma che senza queste operazioni non potrei vederlo perché è raggomitolato. Ne ricavo l’idea che quello che vedo è il DNA di una cellula e non so se crederci: per quanto possa raggomitolare quella bambagia, dubito che ci stia dentro una cellula che è così piccola che non si vede a occhio nudo.

Il ragazzino che tiene in mano la provetta la muove (delicatamente ora) in senso circolare e la bambagia ovviamente segue passivamente la spinta del liquido; a questo punto una signora che sta al mio fianco esclama con tono lievemente eccitato e palesemente soddisfatto: “Si comincia a vedere la doppia elica!”. Riesco a stare zitto e vengo premiato perché la signora ripete: “Si vede proprio la doppia elica!” e questa volta sono sicuro che sia i ragazzini che l’insegnante l’hanno sentita… e non hanno niente da dire!

Il fatto di essere laureato in biologia con una tesi in genetica mi permette di verificare la correttezza dei contenuti scientifici, ma il mio sguardo da educatore e formatore mi aiuta a mettermi nei panni del pubblico: non siamo in un’aula di università, ma nella piazza centrale di un paese un sabato di maggio e il senso di questa esibizione (e lo conferma la presentazione della manifestazione) è mostrare un lavoro fatto a scuola sulla conoscenza scientifica e/o avvicinare un pubblico inesperto alla conoscenza scientifica.

Sulla conoscenza scientifica di questi ragazzi non posso pronunciarmi perché l’insegnante ha impedito loro di parlare. L’unica cosa di cui sono sicuro è che sanno che la provetta non va agitata. Sto dicendo che l’impressione è che abbiano acquisito una procedura, ma ho dei dubbi che ne conoscano il senso. Lo dico non perché sottovaluti la capacità di comprensione dei bambini, ma perché per capire cosa succede nella provetta a un livello dove lo sguardo non può arrivare, neppure con l’ausilio di un microscopio, bisognerebbe avere rappresentazioni della struttura della cellula, della sua biochimica, di cosa sia una molecola, della natura delle molecole organiche, delle caratteristiche chimiche (“chimiche”?) dei detergenti e della loro interazione con materiali biologici di diversa natura chimica (“chimica”?) e struttura ecc. ecc.

I bambini, e con loro il pubblico con cui comunicano, sanno soltanto che mettendo prima un po’ di questo e poi un po’ di quello e, soprattutto non agitando, “si estrae il DNA”: pura magia, con la parola “DNA” al posto di “abracadabra”.

Ma che cos’è il DNA? La domanda è pertinente perché, se chi assiste sapesse già che cos’è, tutta l’operazione non avrebbe senso, oppure sarebbe una messa in scena per mascherare un’interrogazione di fine anno.

Quando si chiede “che cos’è x?” le risposte sono essenzialmente di due tipi: una consiste nell’indicare l’oggetto nominato (deissi), l’altra nel darne una definizione attraverso un sistema di significati che si suppongono già noti (è quello che fa il dizionario).

La deissi “quello è il DNA!” in questo caso è clamorosamente errata e nessuno la corregge, quindi si deve desumere che l’errore è condiviso. L’oggetto indicato dal dito e dallo sguardo non è affatto la doppia elica del DNA, ma naturalmente la disposizione nello spazio che la “bambagia” galleggiante assume seguendo il moto del liquido in cui è immerso: la famosa doppia elica “si vede” solo come rappresentazione grafica di dati molto complicati di strumenti del cui funzionamento abbiamo ragione di sapere ben poco e di capire meno ancora.

Che poi la bambagia nella provetta sia costituita da DNA (filamenti monomolecolari?) potrei crederlo se conoscessi cosa succede quando frullo un pomodoro, quando metto sapone sul frullato, quando aggiungo alcool o sale o succo di limone e soprattutto se già sapessi che cosa è il DNA. Ma comunque non capirei ugualmente: la bambagia che vedo è il DNA o è fatta di DNA?

Per capire su che cosa mi sto interrogando faccio riferimento a un altro stand che sta accanto a questo sulla piazza della scienza e dove fanno lo “zucchero filato” mettendo il normale zucchero in granelli e niente altro dentro una macchina: di che cosa sono fatti i “fili” dello zucchero? Se sono fatti di zucchero, la parola “zucchero” nei due casi ha lo stesso significato? E il significato che gli dà un chimico è lo stesso che gli do io quando lo compro dal droghiere o lo metto nel caffè?

Il secondo modo di rispondere a “che cos’è il DNA” sarebbe di definirlo come sistema di significati noti a cominciare dall’acronimo. E qui sfido, non tanto gli alunni quanto la loro insegnante, a spiegare che cosa significa “de”, “ossi”, “ribo”, “nucleic”. Scommetto che sarebbe in difficoltà già a spiegare “acid” (io lo sarei); perché il problema sarebbe daccapo dire “che tipo di cosa è acid?” (attraverso definizioni, visto che la deissi mi pare problematica); partiti con una domanda adesso ne abbiamo almeno una mezza dozzina che ne genereranno altre esponenzialmente.

In realtà ci sarebbe una terza possibilità per rispondere alla domanda “che cos’è x?”: ricostruire un contesto (percettivo o almeno narrativo) in cui è pertinente il ruolo di x, dove cioè lo si “veda in azione” e si possa prima identificarlo funzionalmente e poi dargli un nome. Anzi ci si aspetterebbe che fosse quest’ultima la soluzione congrua in una manifestazione di questo tipo; invece è uno strano miscuglio delle altre due con una premessa del tutto incongrua ma evidente dall’esperienza allo stand: dare per scontato che già si sappia che cosa è il DNA [1]. È una premessa sociologicamente falsa (la stragrande maggioranza delle persone non sa che cosa sia il DNA: basta osservare come viene usata la pessima metafora “ce l’ho nel DNA”), epistemologicamente scorretta (non si costruisce una conoscenza assumendola come premessa), pedagogicamente inefficace (non si potenzia la conoscenza scientifica facendo credere che sia facile, attraverso semplificazioni che deformano i contenuti fino a che coincidono con qualcosa di familiare, come ci insegna Bachelard [2]; a meno che tutta l’operazione non abbia come scopo proprio quello di abbassare le difese e l’istanza critica del pubblico nei confronti del mondo delle biotecnologie, dove non credo siano estranei interessi economici e politici).

Io valuto questa esperienza come un esempio di degrado della conoscenza scientifica (le “buone intenzioni” dei soggetti non modificano gli effetti della loro azione), perché si tradisce la scientificità delle conoscenze a livello epistemologico e dando false idee sui fenomeni, e si tradisce lo spirito stesso della scienza moderna, nata in contrapposizione all’esoterismo della magia medioevale. Non mi interessa ovviamente attribuire “colpe” alle persone, ma individuare responsabilità nelle professionalità in gioco sì.

Prima di andarmene chiedo ai ragazzi: “Ma dove avete imparato a fare questo…”; risponde l’insegnante: “A un corso di aggiornamento al Museo della Scienza e della Tecnica di Milano”.

La mia domanda da educatore e formatore in campo scientifico è: l’attività didattica di visite guidate e laboratori che in questi anni ha notevolmente cambiato il ruolo culturale dei musei, estendendosi anche a centinaia di manifestazioni pubbliche ha migliorato la cultura scientifica rispetto a quella della scuola? La presenza delle classi in piazza con i loro stand di esperimenti scientifici testimonia che questa iniziativa extrascolastica ha fortemente influenzato la scuola, ma quello che ho visto concretamente accadere, in questa e in molte altre situazioni simili mi lascia molto deluso in termini di conoscenza scientifica.

Ovviamente non sto dicendo che tutte le iniziative nei musei sono di cattiva qualità: ne conosco di ottime; sto dicendo però che non è vero che tutte le iniziative di divulgazione della scienza fanno bene alla conoscenza scientifica; sto dicendo che essere a favore della “divulgazione” senza esercitare il pensiero critico sulla sua qualità nuoce alla scienza che ha regalato al mondo il pensiero critico.

Ma perché la divulgazione della scienza rischia di far male alla scienza?

Il problema cui si propone di rispondere la “divulgazione” scientifica (ma il discorso vale anche per la comunicazione e l’educazione scientifica) è quello di avvicinare la scienza a chi è estraneo al suo mondo. Nella nostra cultura la lezione è il modello dominante nella comunicazione educativa, modello universalmente adottato più per la struttura della relazione di potere che si porta dietro che per la sua efficacia. Giustamente allora ci si domanda se sia inevitabile che l’apprendimento passi attraverso una comunicazione verbale, unidirezionale e autoritaria. La risposta alternativa sembra essere quella della spettacolarizzazione, ovvero, si dice, di una valorizzazione dell’emozione.

La scelta allora sarebbe tra buona pedagogia e buona scienza, nel senso che interessare i bambini, i giovani e in generale i non esperti richiede una semplificazione del linguaggio della scienza, una rinuncia al rigore della argomentazione, una approssimazione nella sperimentazione, in definitiva un impoverimento del pensiero critico, ciò che per l’appunto caratterizza la scienza.

E invece questa cattiva scienza è soprattutto cattiva epistemologia e di conseguenza anche cattiva pedagogia. Ciò che viene messo in crisi è proprio l’apprendimento della scienza per una ragione abbastanza semplice: viene stravolto e capovolto il paradigma stesso della scienza che ha il suo cuore nel processo dinamico della scoperta.

Per uno scienziato ciò che accade non è solo un evento, ma un esempio di qualcosa di più generale. Ma di che cosa è esempio l’esempio sta a lui scoprirlo. Per ruolo lo scienziato è colui che non sa. Lo scienziato si lascia spiazzare da ciò che osserva e si pone domande: come e perché accade ciò che accade?. Dalle domande parte il gioco della scienza che, attraverso ipotesi, esperimenti, costruzione di modelli, di teorie, di linguaggi, nel procedere per tentativi ed errori, verifiche, falsificazioni, approda finalmente... ad altre nuove domande.

Il gioco della scoperta è un gioco fortemente carico di emozioni, come ci dicono le biografie degli scienziati e le storie di scienza oltre che l’osservazione dei piccoli che fanno gli scienziati.

Non è tanto nella soluzione dei problemi che sta il piacere, ma nel porsi problemi, nel tentare di risolverli, scoprendo magari altri problemi. É il non conoscere le emozioni della scienza che spinge a cercarle altrove. I “trucchi” per appassionare il pubblico alla scienza vengono allora cercati nel mondo dello spettacolo. Nel mondo della TV e della pubblicità si trovano maestri di “divulgazione” e organizzatori di “eventi”.

Quella tra imparare annoiandosi, o peggio senza comprendere, e divertirsi senza imparare nulla che possa riferirsi a un sapere socialmente codificato è una falsa alternativa, che nasce da una premessa sbagliata: la separazione tra divertimento e apprendimento, profondamente radicata nella nostra cultura.

Basta “ascoltare” ciò che fanno e dicono i bambini tra di loro quando gli adulti lasciano loro uno spazio di autoorganizazione per capire che la dimensione emotiva-affettiva-relazionale è inseparabile da quella cognitiva, e che la separazione è opera del nostro linguaggio.

Ci sarebbe anche da aprire una parentesi sull’equivoco che riduce le emozioni alle emozioni piacevoli. La sfida, la competitività, la frustrazione, la collera, l’ansia, la disperazione, il gioco del potere ecc. che sono ben presenti nella scienza come fenomeno sociale, non fanno forse parte del mondo emotivo-affettivo-relazionale?

Le attività che svolgono i bambini quando si autoorganizzano sono simili a quelle degli scienziati, ma sostanzialmente diverse da quelle che si svolgono nei contesti di educazione scientifica e di divulgazione, in cui manca proprio quello che è il cuore della scienza come attività sociale e culturale: il processo della scoperta. Tanto la lezione quanto la spettacolarizzazione (e la magia in piazza) privano il soggetto della possibilità di fare esperienza di un percorso di scoperta personale, privandolo o delle domande o dei contesti di ricerca o della pertinenza delle risposte.

E senza la scoperta, ovvero senza il processo che va dalle domande alle risposte, come possono le risposte essere “assimilate” dai soggetti, provocare ristrutturazioni dei loro sistemi cognitivi e quindi apprendimenti?

In questo senso la divulgazione rischia seriamente di fare del male alla scienza. Non sapere di non sapere è lo stato inerte di chi non sente neppure il bisogno di conoscere e quindi non sviluppa cultura; sapere di non sapere è consapevolezza di un bisogno che fornisce energia alla conoscenza, sapere di sapere rischia di spegnere il desiderio e togliere energia alla conoscenza; credere di sapere aggiunge l’arroganza all’ignoranza, alla mancanza di strumenti culturali e questo è un pericolo grave per la civiltà stessa.

 



[1]  Digitando “estrazione del DNA” in un motore di ricerca in internet, una delle prime pagine è quella del “Life learning center”: c’è una breve scheda con alla fine l’indicazionePrerequisiti: conoscenza della struttura del DNA”!

[2] “[...] vedremo istaurarsi un’era di facilità che priverà la scienza del senso del problema, che costituisce invece la nervatura del progresso.” “Queste teorie primitive di fenomeni tanto complessi si presentavano così come teorie facili, condizione questa indispensabile perché fossero divertenti e interessassero il pubblico.” “L’immaginazione lavora malgrado l’opposizione dell’esperienza. Non ci si separa dal meraviglioso, quando gli si è dato credito.” (Gaston Bachelard, La formazione dello spirito scientifico, Cortina 1995).