Marcello Sala

ORDINE DAL RUMORE

-pubblicato in- 

Cooperazione  EDUCATIVA

n. 5 / 2001

Junior

 

All’idea di apprendimento come autoorganizzazione

corrisponde un’azione dell’insegnante come strategia

 

 

La parola “formale” non gode di buona reputazione nel nostro ambiente, eppure su analogie di forma si basa la possibilità per l’uomo di comunicare, di comprendere il mondo, se stesso e la struttura che connette, e anche di fare poesia[1].

Così, se chi legge tiene presente alla propria mente il contesto educativo, è probabile che certe idee della scienza gli/le appaiano come metafore, nel senso forte di forme per pensare l’educazione.

GLI “IMPULSI INTEMPERATI

“...quando le vibrazioni di due o più fili siano o incommensurabili, sì che mai non ritornino a terminar concordemente determinati numeri di vibrazioni, o se pur non essendo incommensurabili, vi ritornino dopo lungo tempo e dopo gran numero di vibrazioni, allora la vista si confonde nell’ordine disordinato di sregolata intrecciatura, e l’udito con noia riceve gli impulsi intemperati de i tremori dell’aria che senza ordine o regola vanno a ferire su ‘l timpano.” Galileo sta tracciando l’isomorfismo tra il fenomeno visibile delle oscillazioni dei pendoli e quello udibile della vibrazione delle corde sonore, e, dopo aver spiegato la consonanza, parla della dissonanza. Le sue parole mettono subito in evidenza la relazione tra rumore e disordine, e anche il ruolo fondamentale della percezione, e quindi dell’osservatore, nella definizione di ordine.

Partendo dai fenomeni sonori, ma allargando poi il campo, possiamo pensare allora al “rumore” come quell’aspetto della percezione che si caratterizza per l’impossibilità di riconoscervi una “forma” ovvero di individuarvi un significato. Questo aspetto “caotico” (il caos contrapposto al cosmos) costituisce un “disturbo”, non solo per la trasmissione di messaggi e quindi per la comunicazione, ma più in generale, e più in profondità, per la nostra tendenza, innata perché biologicamente utile alla sopravvivenza, a “prevedere” l’ambiente con cui dobbiamo interagire; “prevedere” implica cogliere regolarità, e dunque forme di ordine.

Il fisico Erwin Schrödinger nel suo What is the life? del 1947 individuava due meccanismi capaci di produrre eventi ordinati. Il primo è designato come “ordine dal disordine”, dove il “disordine” è quello del 2° principio della termodinamica, ovvero la tendenza spontanea in un sistema alla riduzione dei vincoli strutturali tra molecole dovuto all’agitazione termica; l’effetto è un aumento di indipendenza degli elementi del sistema, ovvero un aumento dell’entropia. L’ordine che si instaura su questo disordine è quello imposto al mondo macroscopico dalle “leggi naturali” (deterministiche o statistiche).

D’altra parte per Schrödinger la chiave della capacità della vita di mantenere e riprodurre la propria organizzazione sta solo in un “ordine [che proviene] dall’ordine” e si riferiva a quello incredibilmente elevato e stabile costituito dal sistema informativo dei geni.

Uscendo dal mondo vivente si può prendere la formazione dei cristalli come esempio di “ordine dall’ordine”. Ma il chimico Ilya Prigogine ha studiato sistemi “dissipativi” che, grazie a un continuo flusso di energia che li mantiene lontani dall’equilibrio, sono in grado, a partire dal disordine dell’agitazione termica, di organizzarsi spontaneamente in strutture spaziali e temporali. La vita allora può essere interpretata come una zona di bassa entropia mantenuta a spese dell’energia dell’ambiente, in cui l’entropia aumenta. I sistemi viventi (auto-organizzatori) sono capaci di accrescere la loro organizzazione “nutrendosi del rumore” del moto caotico di un mondo sottoposto al 2° principio della termodinamica. È il “principio dell’ordine dal rumore” enunciato da Heinz Von Foerster.

Secondo Edgar Morin, per far fronte alla necessità di rinnovare e sostituire i propri componenti, per conservare il proprio ordine attraverso la continua modificazione, l'organizzazione di un sistema necessita del "disordine", sotto forma di "energia di agitazione", che permette l'incontro casuale degli elementi, e sotto forma di produzione casuale di variabilità degli elementi, in definitiva come fonte di novità. In generale la stessa evoluzione delle forme viventi non sarebbe possibile se la selezione naturale non disponesse di una variabilità di origine casuale su cui agire.

Se l’effetto del rumore su di un sistema è un aumento di ordine ciò significa che il sistema è in grado di effettuare una specie di selezione degli elementi casuali provenienti dall’ambiente capaci di innescare un aumento di connessione.

Sono i vincoli strutturali del sistema, la sua organizzazione, la matrice della funzione costruttiva del rumore ambientale. Ma l’organizzazione del sistema è quella che appare a un osservatore, dipende dal linguaggio con cui esso la descrive, dal contesto e dallo scopo dell’osservazione. In questo senso, se l’osservatore percepisce un effetto organizzatore del rumore, ciò dipende, in modo solo apparentemente paradossale, dal suo non conoscere quella struttura di vincoli interni che permette al sistema di selezionare gli elementi casuali e di utilizzarli per la propria organizzazione; così come, d’altra parte, dipende anche dalla sua capacità di riconoscere a posteriori un significato, una forma, una struttura nuova, ciò che può essere definito un apprendimento da parte del sistema.

AUTOPOIESI” ED EDUCAZIONE

Nel modello che i biologi cileni Maturana e Varela propongono come "autopoiesi" non si parla più di “rumore” ambientale cui l’organismo fornisce risposte in una dinamica di adattamento, ma di “perturbazioni”, spostando l’attenzione sugli effetti interni, sul modo in cui il sistema “percepisce”, “interpreta” i segnali provenienti dall’ambiente. Le risposte di ristrutturazione seguono allora una dinamica interna al sistema, volta a conservarne la sua organizzazione e quindi la sua identità. L'ambiente innesca le trasformazioni del sistema, ma non può determinarne la forma: la logica non è quindi quella del "controllo" dall'esterno, ma della "autonomia organizzativa" del sistema. In questo senso tra due sistemi (o tra quelli che un osservatore esterno definisce il sistema e il suo ambiente) vi può essere un "accoppiamento strutturale", un costante reciproco innesco di trasformazioni, e quindi una "co-evoluzione".

Questa dipendenza del cambiamento dal rumore, ovvero dalla casualità, ma secondo dinamiche che rispondono alla conservazione dell’identità, nel quadro di un modello di auto-organizzazione, permette di sfuggire alla doppia morsa di determinismo e finalismo. Non si deve più ricorrere a un meccanicismo dominato dalla causalità, dalla prevedibilità, che alimenta il delirio di onnipotenza e del “controllo”, o a un idealismo che fa ricorso a entità indefinite come la finalità, separando (in quale punto dell’evoluzione?) dal mondo della biologia il dominio dell’umano (non biologico?).

Se il meccanicismo deterministico porta alla deresponsabilizzazione e alla delega del potere, e il finalismo all’ingenuo ottimismo di una volontà individuale o all’affidamento a entità superiori, l’autoorganizzazione corrisponde a un’etica della responsabilità che sorge là dove l’imprevedibilità determina la necessità di prendere decisioni in situazione di incertezza.

Sul versante educativo al principio dell’ “ordine dall’ordine” corrisponde la logica di un accumulo progressivo di conoscenza che riproduce forme date. Nel principio dell’ “ordine dal disordine” si può riconoscere il modello in cui l’educatore impone, attraverso le “leggi” che la cultura fornisce, la forma a un substrato disorganizzato che spontaneamente procederebbe verso il caos. È il paradigma tradizionale del “controllo” (non è difficile riconoscervi le tracce del mito platonico dell’auriga).

All’interno di questo filone sta la "pedagogia degli obiettivi” della programmazione scolastica, che non è altro che un sistema deterministico in cui è possibile controllare una “scatola nera” (l’alunno): gli output desiderati (obiettivi) si ottengono con input opportuni (iniziative didattiche). L’iniziativa educativa determina la forma e dirige il processo di trasformazione.

Ma rinunciare alla linearità delle dinamiche di controllo dei processi, per ricollocarli in un contesto di relazioni sistemiche, non porta a una “libera espressione” dei soggetti e a una eliminazione della asimmetria educativa, a un atteggiamento di pura comprensione e accompagnamento su base emotivo-affettiva di “spontanei” processi di crescita; porta con sé invece una diversa modalità di azione, e quindi di responsabilità, da parte dell’educatore.

Edgar Morin contrappone al "programma" una "strategia" di azione. In un contesto di interazioni complesse, di fronte a una imprevedibilità che non è dovuta a una ancora scarsa conoscenza, ma è intrinseca alla presenza del “rumore” ambientale, la strategia consente di ipotizzare scenari per l’azione, che potranno però essere modificati secondo le informazioni che arriveranno nel corso dell’azione e in risposta alle perturbazioni casuali. La strategia può utilizzare frammenti di azione programmata, ma a questa manca una qualità di "vigilanza" rispetto a ciò che cambia in modo aleatorio. La strategia, come modalità dell'azione, non si affida soltanto alle intuizioni, alle doti personali di chi agisce, ma si giova di una consapevolezza della complessità sistemica e di un addestramento.

Se si considera l’educatore come un attore, l' "antropologia teatrale" e le ricerche di registi come Jerzy Grotowski ed Eugenio Barba propongono, nel contesto di un discorso imperniato sul corpo dell'attore, un allenamento del corpo che sviluppa la reattività, nella misura in cui i circuiti senso-motori tra lo stimolo, o l'impulso, e l'azione non devono più passare attraverso una "mente" che si pone come "burattinaia" del corpo. Il risultato di questo lavoro è una capacità di improvvisazione. Alla intenzionalità del significato di ciò che si fa si sostituisce la precisione dell'azione "che prepara il vuoto in cui un senso imprevisto potrà essere catturato." [2].

“Catturato”, cioè interpretato da un osservatore che lo assume come riferimento della propria azione. Questo vuol dire che, in un contesto educativo, chi ne ha la responsabilità rinuncia alla funzione di "controllo" a favore di una strategia “dell’ascolto” basata sulla recettività e reattività. Ma questo vuol dire, ancora prima, costruirne le condizioni, assumendo consapevolmente il compito di curare l'organizzazione “istituzionale” (la strutturazione degli spazi, dei tempi, delle regole - implicite ed esplicite - di comunicazione, delle mediazioni), che costituisce lo "sfondo integratore" che rende possibile l'emergere come "figura" dell'autonomo organizzarsi del bambino. È questa la proposta della “pedagogia istituzionale" di Andrea Canevaro che si rifà all’idea di autoorganizzazione e di co-evoluzione. E non è difficile collocare in questa cornice anche l’ “apprendimento naturale” di Paul Le Bohec.

DISCUTENDO DI EVOLUZIONE

Riporto qui soltanto un pezzo di una conversazione, così come l’insegnante l’ha registrata e trascritta [3]: si sta facendo il punto di una ricerca partita con lo studio dei fossili e siamo nel pieno di una discussione sull’evoluzione.

...

[1] Maestra - Sì, ma in tanti anni che succede? com’è che da quel roditore in milioni e milioni di anni si sono evoluti così tanti tipi di mammiferi e pure noi?

[2] Valentina - Dall’australopiteco non puoi arrivare subito al Cromagnon perché ci vogliono tanti anni.

[3] Nicolò - Milioni!

[4] Giulia B. - E va beh: un sacco di tempo!

[5] Nicolò – No: gli anni non sono come i milioni.

[Caciara generalizzata]

[6] Maestra -  Ehi: non stiamo mica allo stadio!

[7] Akira - Non è che l’australopiteco fa un anno di vita e poi si evolve: devono passare un po’ di anni, se no non ha senso, e poi morire subito ed evolversi.

[8] Maestra - Questo non l’avevo ancora sentito.

[9] Marco – Sì: la stessa cosa dei dinosauri.

[10] Akira - Non è che c’è una specie di uomo e poi è finita la vita dell’uomo. Per adesso dal primo essere vivente c’è stata la vita fino a qui, adesso possiamo diventare - che ne so? - elettronici, robot, però quello ancora non è successo, allora per evolversi tocca aspettare del tempo.

[11] Maestra - Ma deve morire il padre e si evolve il figlio, anche se non se ne accorge, o l’evoluzione si vede dentro la stessa persona?

[12] Nicolò - Dentro la stessa persona.

[13] Akira - Per esempio: c’è una partita di calcio e c’è un giocatore fino al cambio; e così la cosa: muore quello e viene un altro.

[14] Nicolò - Seh! Mica muore!

[15] Akira - Muore, muore.

[16] Marco – Sì: come i dinosauri.

[17] Leonardo - Io sono d’accordo con Akira, perché c’è un uomo che stava evolvendosi e muore, e stava già un po’ evolvendosi e il figlio è già un po’ di più evoluto.

[18] Akira - Un giorno moriremo noi e nascerà un’altra cosa.

[19] Celeste - Può nascere una pianta.

[20] Tutti – No.

[21] Giulia M. - Ci vuole molto, molto tempo.

[22] Akira - Le piante sono una cosa un po’ diversa.

[23] Francesco - Come dice Marco, la crescita è che cresci, l’evoluzione è che cambi di persona: muore uno e quello che rinasce è un po’ diverso.

Il primo intervento di Akira (7) appare deviante dal filo della conversazione, involuto, illogico, ellittico, confuso. Insomma emerge come rumore da uno sfondo di rumore molto poco metaforico (la “caciara generalizzata”).

In quel momento nessuno può sapere quello che, da una ennesima paziente rilettura della trascrizione della registrazione, apparirà significativo a posteriori, e cioè che forse qui si affaccia l’idea che l’evoluzione ha a che fare con il succedersi delle generazioni e quindi con la morte.

L’idea di Akira introduce un elemento di variabilità nel campo dell’autoorganizzazione della conversazione e della costruzione del pensiero collettivo dei bambini. Così i compagni hanno la possibilità di farla interagire con le proprie (9) e Akira stesso può estendere l’idea di evoluzione al futuro con il suo carico di imprevedibilità (10).

Ciò che mantiene in vita l’idea di Akira è l’atteggiamento dell’insegnante che non assume la funzione di agente selettivo: sospende il giudizio ma resta vigile (8), agisce attraverso il silenzio delle proprie rappresentazioni, ma mantiene il fuoco della conversazione sull’oggetto e tiene aperti conflitti cognitivi che attivano l’argomentazione (11). È un “ascoltatrice” che coltiva l’apprendimento nell’auto-organizzazione.

Ma Akira, il “rumoroso”, fa di peggio in termini di “perturbazione” della conversazione, introducendo un esempio che appare paradossale e provocatorio (13), e che tuttavia è utile per coltivare un’intuizione importante: quella del calciatore probabilmente è una metafora rispetto alla sostituzione di un individuo o di una specie nel suo “posto” nella natura. Akira sta seguendo un suo filo interno di pensiero, ma ciò che conta è che lo mette a disposizione della costruzione di conoscenza collettiva, che è conflittuale tanto quanto cooperativa. Del resto anche Leonardo poco dopo (17) tenta di ricondurre l’esempio al contesto dell’evoluzione.

Con questo supporto Akira sembra avere sviluppato la sua intuizione del cambiamento attraverso le generazioni (18), e dà così un contributo fondamentale per superare l’impasse cui era arrivata precedentemente la discussione nel suo riferirsi alla crescita, che è l’unico cambiamento percepibile ma che riguarda l’individuo e che quindi non è una buon modello dell’evoluzione, che si sviluppa su grandi scale di tempo e che riguarda intere specie.

In quello scambio comunicativo che fa di un gruppo di bambini impegnati in una conversazione un sistema di elementi diversi interconnessi, Francesco giunge a un punto chiave della descrizione del fenomeno (23), che permette di uscire dal paradosso che i bambini avevano precedentemente evidenziato, e che è quello del soggetto di un cambiamento che, nel momento in cui lo diventa, cessa di esistere nella sua identità: il cambiamento di cui si parla nell'evoluzione è una diversità tra una generazione e la successiva.

Questo apprendimento (assolutamente pertinente dal punto di vista del sapere scientifico) non è che un piccolo esempio in ambito scolastico di situazioni in cui l’ordine “si fa dal rumore”, in cui un gruppo di bambini in conversazione appare comportarsi come un organismo “autopoietico” che ristruttura la propria organizzazione cognitiva (apprende) a partire da perturbazioni; situazioni in cui l’insegnante si pone come chi osserva, anzi “ascolta”, per far emergere come figura dallo sfondo i significati, le nuove forme (cognitive tanto quanto relazionali e affettive) che sono il risultato di quelle ristrutturazioni; capace di reagire agli sviluppi della situazione secondo una strategia intenzionata a favorire lo sviluppo di quella modalità di apprendimento. In questo ponendosi in una relazione complessa con due sistemi inclusi uno nell’altro, insieme integrati e differenziati: il primo è quello dei bambini in conversazione, da “ascoltare” nella sua autonoma organizzazione; il secondo comprende il primo e l’insegnante in un “accoppiamento strutturale” di cui occorre saper leggere la storia come co-evoluzione.

 



[1]  Gregory Bateson, “La creatura e le sue creazioni”, in Una sacra unità, Adelphi 1997.

[2]   Eugenio Barba, "la canoa di carta", Il Mulino Bologna 1993.

[3]   L’insegnante è Stefania Cornacchia, la classe la 3^ beta della S.E.S. Jole Orsini di Amelia (TR).