All’idea di apprendimento come autoorganizzazione corrisponde un’azione
dell’insegnante come strategia La
parola “formale” non gode di buona reputazione nel nostro ambiente, eppure su
analogie di forma si basa la possibilità per l’uomo di comunicare, di
comprendere il mondo, se stesso e la struttura che connette, e anche
di fare poesia[1]. Così,
se chi legge tiene presente alla propria mente il contesto educativo, è
probabile che certe idee della scienza gli/le appaiano come metafore,
nel senso forte di forme per pensare l’educazione. GLI
“IMPULSI INTEMPERATI” “...quando le vibrazioni di due o più fili siano o
incommensurabili, sì che mai non ritornino a terminar concordemente
determinati numeri di vibrazioni, o se pur non essendo incommensurabili, vi
ritornino dopo lungo tempo e dopo gran numero di vibrazioni, allora la vista
si confonde nell’ordine disordinato di sregolata intrecciatura, e l’udito con
noia riceve gli impulsi intemperati de i tremori
dell’aria che senza ordine o regola vanno a ferire su ‘l timpano.” Galileo sta tracciando
l’isomorfismo tra il fenomeno visibile delle oscillazioni dei pendoli e quello
udibile della vibrazione delle corde sonore, e, dopo aver spiegato la
consonanza, parla della dissonanza. Le sue parole mettono subito in evidenza
la relazione tra rumore e disordine, e anche il ruolo
fondamentale della percezione, e quindi dell’osservatore, nella definizione
di ordine. Partendo dai fenomeni sonori, ma allargando poi il campo,
possiamo pensare allora al “rumore” come quell’aspetto della percezione che
si caratterizza per l’impossibilità di riconoscervi una “forma” ovvero di
individuarvi un significato. Questo aspetto “caotico” (il caos
contrapposto al cosmos) costituisce un
“disturbo”, non solo per la trasmissione di messaggi e quindi per la comunicazione,
ma più in generale, e più in profondità, per la nostra tendenza, innata
perché biologicamente utile alla sopravvivenza, a “prevedere” l’ambiente con
cui dobbiamo interagire; “prevedere” implica cogliere regolarità, e dunque
forme di ordine. Il
fisico Erwin Schrödinger nel suo What is the life?
del 1947 individuava due meccanismi capaci di produrre eventi ordinati. Il primo
è designato come “ordine dal disordine”, dove il “disordine” è quello del 2°
principio della termodinamica, ovvero la tendenza spontanea in un sistema
alla riduzione dei vincoli strutturali tra molecole dovuto all’agitazione
termica; l’effetto è un aumento di indipendenza degli elementi del sistema,
ovvero un aumento dell’entropia. L’ordine che si instaura su questo
disordine è quello imposto al mondo macroscopico dalle “leggi naturali”
(deterministiche o statistiche). D’altra
parte per Schrödinger la chiave della capacità
della vita di mantenere e riprodurre la propria organizzazione sta solo in un
“ordine [che proviene] dall’ordine” e si riferiva a quello incredibilmente
elevato e stabile costituito dal sistema informativo dei geni. Uscendo
dal mondo vivente si può prendere la formazione dei cristalli come esempio di
“ordine dall’ordine”. Ma il chimico Ilya Prigogine ha studiato sistemi “dissipativi” che, grazie
a un continuo flusso di energia che li mantiene lontani
dall’equilibrio, sono in grado, a partire dal disordine dell’agitazione
termica, di organizzarsi spontaneamente in strutture spaziali e temporali. La
vita allora può essere interpretata come una zona di bassa entropia mantenuta
a spese dell’energia dell’ambiente, in cui l’entropia aumenta. I sistemi viventi
(auto-organizzatori) sono capaci di accrescere la loro organizzazione
“nutrendosi del rumore” del moto caotico di un mondo sottoposto al 2°
principio della termodinamica. È il “principio dell’ordine dal rumore”
enunciato da Heinz Von Foerster. Secondo Edgar Morin,
per far fronte alla necessità di rinnovare e sostituire i propri componenti,
per conservare il proprio ordine attraverso la continua modificazione, l'organizzazione
di un sistema necessita del "disordine", sotto forma di
"energia di agitazione", che permette l'incontro casuale
degli elementi, e sotto forma di produzione casuale di variabilità
degli elementi, in definitiva come fonte di novità. In generale la stessa
evoluzione delle forme viventi non sarebbe possibile se la selezione naturale
non disponesse di una variabilità di origine casuale su cui agire. Se l’effetto del rumore su di un sistema è un aumento di
ordine ciò significa che il sistema è in grado di effettuare una specie di
selezione degli elementi casuali provenienti dall’ambiente capaci di innescare
un aumento di connessione. Sono i vincoli strutturali del sistema, la sua organizzazione,
la matrice della funzione costruttiva del rumore ambientale. Ma
l’organizzazione del sistema è quella che appare a un osservatore, dipende
dal linguaggio con cui esso la descrive, dal contesto e dallo scopo
dell’osservazione. In questo senso, se l’osservatore percepisce un effetto
organizzatore del rumore, ciò dipende, in modo solo apparentemente
paradossale, dal suo non conoscere quella struttura di vincoli interni
che permette al sistema di selezionare gli elementi casuali e di utilizzarli
per la propria organizzazione; così come, d’altra parte, dipende anche dalla
sua capacità di riconoscere a posteriori un significato, una forma,
una struttura nuova, ciò che può essere definito un apprendimento da
parte del sistema. “AUTOPOIESI” ED EDUCAZIONE Nel
modello che i biologi cileni Maturana e Varela propongono come "autopoiesi"
non si parla più di “rumore” ambientale cui l’organismo fornisce risposte in
una dinamica di adattamento, ma di “perturbazioni”, spostando l’attenzione
sugli effetti interni, sul modo in cui il sistema “percepisce”, “interpreta”
i segnali provenienti dall’ambiente. Le risposte di ristrutturazione seguono
allora una dinamica interna al sistema,
volta a conservarne la sua organizzazione e quindi la sua identità. L'ambiente innesca le trasformazioni
del sistema, ma non può determinarne la forma: la logica non è quindi quella
del "controllo" dall'esterno, ma della "autonomia organizzativa"
del sistema. In questo senso tra due sistemi (o tra quelli che un osservatore
esterno definisce il sistema e il suo ambiente) vi può essere un "accoppiamento
strutturale", un costante reciproco innesco di trasformazioni, e
quindi una "co-evoluzione". Questa
dipendenza del cambiamento dal rumore, ovvero dalla casualità, ma secondo
dinamiche che rispondono alla conservazione dell’identità, nel quadro di un
modello di auto-organizzazione, permette di sfuggire alla doppia morsa di
determinismo e finalismo. Non si deve più ricorrere a un meccanicismo
dominato dalla causalità, dalla prevedibilità, che alimenta il delirio di
onnipotenza e del “controllo”, o a un idealismo che fa ricorso a entità
indefinite come la finalità, separando (in quale punto dell’evoluzione?) dal
mondo della biologia il dominio dell’umano (non biologico?). Se il meccanicismo deterministico
porta alla deresponsabilizzazione e alla delega del potere, e il finalismo
all’ingenuo ottimismo di una volontà individuale o all’affidamento a entità
superiori, l’autoorganizzazione corrisponde a un’etica
della responsabilità che sorge là dove l’imprevedibilità determina la
necessità di prendere decisioni in situazione di incertezza. Sul versante educativo al principio
dell’ “ordine dall’ordine” corrisponde la logica di un accumulo progressivo
di conoscenza che riproduce forme date. Nel principio dell’ “ordine dal
disordine” si può riconoscere il modello in cui l’educatore impone,
attraverso le “leggi” che la cultura fornisce, la forma a un substrato
disorganizzato che spontaneamente procederebbe verso il caos. È il paradigma
tradizionale del “controllo” (non è difficile riconoscervi le tracce del mito
platonico dell’auriga). All’interno di questo filone sta la
"pedagogia degli obiettivi” della programmazione scolastica,
che non è altro che un sistema deterministico in cui è possibile controllare
una “scatola nera” (l’alunno): gli output desiderati (obiettivi) si ottengono
con input opportuni (iniziative didattiche). L’iniziativa educativa determina la forma e dirige il
processo di trasformazione. Ma rinunciare alla linearità delle
dinamiche di controllo dei processi, per ricollocarli in un contesto di
relazioni sistemiche, non porta a una “libera espressione” dei soggetti e a
una eliminazione della asimmetria educativa, a un atteggiamento di pura
comprensione e accompagnamento su base emotivo-affettiva
di “spontanei” processi di crescita; porta con sé invece una diversa modalità
di azione, e quindi di
responsabilità, da parte dell’educatore. Edgar Morin
contrappone al "programma" una "strategia" di azione.
In un contesto di interazioni complesse, di fronte a una imprevedibilità che
non è dovuta a una ancora scarsa conoscenza, ma è intrinseca alla presenza
del “rumore” ambientale, la strategia consente di ipotizzare scenari per
l’azione, che potranno però essere modificati secondo le informazioni che
arriveranno nel corso dell’azione e in risposta alle perturbazioni casuali.
La strategia può utilizzare frammenti di azione programmata, ma a questa
manca una qualità di "vigilanza" rispetto a ciò che cambia in modo
aleatorio. La strategia, come modalità dell'azione, non si affida soltanto
alle intuizioni, alle doti personali di chi agisce, ma si giova di una
consapevolezza della complessità sistemica e di un addestramento. Se si considera l’educatore come un attore, l' "antropologia teatrale"
e le ricerche di registi come Jerzy Grotowski ed Eugenio Barba propongono, nel contesto di un
discorso imperniato sul corpo
dell'attore, un allenamento del corpo che sviluppa la reattività, nella misura in cui i circuiti senso-motori tra lo
stimolo, o l'impulso, e l'azione non devono più passare attraverso una
"mente" che si pone come "burattinaia" del corpo. Il
risultato di questo lavoro è una capacità di improvvisazione. Alla intenzionalità del significato di ciò che si
fa si sostituisce la precisione dell'azione "che prepara il vuoto in cui un senso imprevisto potrà essere
catturato." [2].
“Catturato”,
cioè interpretato da un osservatore che lo assume come riferimento della
propria azione. Questo vuol dire che, in un contesto educativo, chi ne ha la
responsabilità rinuncia alla funzione di "controllo" a favore di
una strategia “dell’ascolto” basata sulla recettività e reattività.
Ma questo vuol dire, ancora prima, costruirne le condizioni, assumendo
consapevolmente il compito di curare l'organizzazione “istituzionale” (la
strutturazione degli spazi, dei tempi, delle regole - implicite ed esplicite
- di comunicazione, delle mediazioni), che costituisce lo "sfondo
integratore" che rende possibile l'emergere come "figura"
dell'autonomo organizzarsi del bambino. È questa la proposta della “pedagogia
istituzionale" di Andrea Canevaro che si rifà
all’idea di autoorganizzazione e di co-evoluzione. E non è difficile collocare in questa
cornice anche l’ “apprendimento naturale” di Paul Le Bohec. DISCUTENDO DI
EVOLUZIONE Riporto qui soltanto un pezzo di una
conversazione, così come l’insegnante l’ha registrata e trascritta [3]:
si sta facendo il punto di una ricerca partita con lo studio dei fossili e
siamo nel pieno di una discussione sull’evoluzione. ... [1] Maestra - Sì, ma in tanti anni che succede?
com’è che da quel roditore in milioni e milioni di anni si sono evoluti così
tanti tipi di mammiferi e pure noi? [2] Valentina - Dall’australopiteco
non puoi arrivare subito al Cromagnon perché ci
vogliono tanti anni. [3] Nicolò - Milioni! [4] Giulia B. - E va beh: un sacco di tempo! [5] Nicolò – No: gli anni non sono come i milioni. [Caciara
generalizzata]
[6] Maestra -
Ehi: non stiamo mica allo stadio! [7] Akira - Non è che
l’australopiteco fa un anno di vita e poi si evolve: devono passare un po’ di
anni, se no non ha senso, e poi morire subito ed evolversi. [8] Maestra - Questo non l’avevo ancora
sentito. [9] Marco – Sì: la stessa cosa dei dinosauri. [10] Akira - Non è che
c’è una specie di uomo e poi è finita la vita dell’uomo. Per adesso dal primo
essere vivente c’è stata la vita fino a qui, adesso possiamo diventare - che
ne so? - elettronici, robot, però quello ancora non è successo, allora per
evolversi tocca aspettare del tempo. [11] Maestra - Ma deve morire il padre e si evolve
il figlio, anche se non se ne accorge, o l’evoluzione si vede dentro la
stessa persona? [12] Nicolò - Dentro la stessa persona. [13] Akira - Per
esempio: c’è una partita di calcio e c’è un giocatore fino al cambio; e così
la cosa: muore quello e viene un altro. [14] Nicolò - Seh! Mica
muore! [15] Akira - Muore,
muore. [16] Marco – Sì: come i dinosauri. [17] Leonardo - Io sono d’accordo con Akira, perché c’è un uomo che stava evolvendosi e muore,
e stava già un po’ evolvendosi e il figlio è già un po’ di più evoluto. [18] Akira - Un giorno
moriremo noi e nascerà un’altra cosa. [19] Celeste - Può nascere una
pianta. [20] Tutti – No. [21] Giulia M. - Ci vuole molto, molto tempo. [22] Akira - Le piante
sono una cosa un po’ diversa. [23] Francesco - Come dice Marco,
la crescita è che cresci, l’evoluzione è che cambi di persona: muore uno e
quello che rinasce è un po’ diverso. Il primo intervento di Akira (7) appare deviante dal filo della conversazione,
involuto, illogico, ellittico, confuso. Insomma emerge come rumore da uno
sfondo di rumore molto poco metaforico (la “caciara generalizzata”). In quel momento nessuno può
sapere quello che, da una ennesima paziente rilettura della trascrizione
della registrazione, apparirà significativo a posteriori, e cioè che
forse qui si affaccia l’idea che l’evoluzione ha a che fare con il succedersi
delle generazioni e quindi con la morte. L’idea
di Akira introduce un elemento di variabilità nel
campo dell’autoorganizzazione della conversazione e
della costruzione del pensiero collettivo dei bambini. Così i compagni hanno la possibilità di
farla interagire con le proprie (9) e Akira stesso
può estendere l’idea di evoluzione al futuro con il suo carico di imprevedibilità
(10). Ciò che mantiene in vita l’idea di Akira
è l’atteggiamento dell’insegnante che non assume la funzione di agente
selettivo: sospende il giudizio ma resta vigile (8), agisce attraverso
il silenzio delle proprie rappresentazioni, ma mantiene il fuoco della
conversazione sull’oggetto e tiene aperti conflitti cognitivi che attivano
l’argomentazione (11). È un
“ascoltatrice” che coltiva l’apprendimento nell’auto-organizzazione. Ma Akira,
il “rumoroso”, fa di peggio in termini di “perturbazione” della
conversazione, introducendo un esempio che appare paradossale e provocatorio
(13), e che tuttavia è utile per coltivare un’intuizione importante: quella
del calciatore probabilmente è una metafora rispetto alla sostituzione di un
individuo o di una specie nel suo “posto” nella natura. Akira
sta seguendo un suo filo interno di pensiero, ma ciò che conta è che lo mette
a disposizione della costruzione di conoscenza collettiva, che è conflittuale
tanto quanto cooperativa. Del resto anche Leonardo poco dopo (17) tenta di ricondurre
l’esempio al contesto dell’evoluzione. Con questo supporto Akira sembra avere sviluppato la sua intuizione del
cambiamento attraverso le generazioni (18), e dà così un contributo
fondamentale per superare l’impasse cui era arrivata precedentemente
la discussione nel suo riferirsi alla crescita, che è l’unico cambiamento percepibile
ma che riguarda l’individuo e che quindi non è una buon modello
dell’evoluzione, che si sviluppa su grandi scale di tempo e che riguarda
intere specie. In quello scambio comunicativo
che fa di un gruppo di bambini impegnati in una conversazione un sistema di
elementi diversi interconnessi, Francesco giunge a un punto chiave della descrizione
del fenomeno (23), che permette di uscire dal paradosso che i bambini avevano
precedentemente evidenziato, e che è quello del soggetto di un cambiamento
che, nel momento in cui lo diventa, cessa di esistere nella sua identità: il
cambiamento di cui si parla nell'evoluzione è una diversità tra una generazione e la successiva. Questo apprendimento (assolutamente
pertinente dal punto di vista del sapere scientifico) non è che un piccolo
esempio in ambito scolastico di situazioni in cui l’ordine “si fa dal
rumore”, in cui un gruppo di bambini in conversazione appare comportarsi come
un organismo “autopoietico” che ristruttura la
propria organizzazione cognitiva (apprende) a partire da perturbazioni;
situazioni in cui l’insegnante si pone come chi osserva, anzi “ascolta”, per
far emergere come figura dallo sfondo i significati, le nuove forme (cognitive
tanto quanto relazionali e affettive) che sono il risultato di quelle ristrutturazioni;
capace di reagire agli sviluppi della situazione secondo una strategia
intenzionata a favorire lo sviluppo di quella modalità di apprendimento. In
questo ponendosi in una relazione complessa con due sistemi inclusi uno
nell’altro, insieme integrati e differenziati: il primo è quello dei bambini
in conversazione, da “ascoltare” nella sua autonoma organizzazione; il secondo
comprende il primo e l’insegnante in un “accoppiamento strutturale” di cui
occorre saper leggere la storia come co-evoluzione. |