Marcello Sala

LUNA PARK,

SUPERMERCATI

E SCIENZA

-pubblicato in- 

LA FISICA NELLA SCUOLA 

n. 2 / 2007

Associazione per l’Insegnamento della Fisica

 

 

Di recente, a un incontro dedicato al rapporto tra la divulgazione scientifica e la scuola è stata presentata una iniziativa che si svolge in un grande parco di divertimenti dotato di ruote panoramiche, ottovolanti, giostre ecc. L’idea, che nasce da alcuni insegnanti di un liceo, è quella di utilizzare queste attrezzature come un laboratorio “… non ci bastava la fisica che si fa a scuola né ci bastava andare in laboratorio. Cercavamo un luogo dove la fisica fosse tutto attorno a noi… dove è possibile vivere, sentire, provare, sperimentare la fisica addirittura sulla propria pelle… Concetti come velocità, accelerazione, forze qui diventano esperienze vissute… Tutto un altro modo di insegnare, di apprendere: il corpo è il primo degli strumenti che i ragazzi hanno a disposizione… altri strumenti di misura, classici e informatici… Un luogo dove ci si può divertire e imparare nello stesso momento.”

Nel video che presenta l’iniziativa, ad esempio, i ragazzi salgono su piattaforme che vengono sollevate e poi lasciate cadere lungo una torre, provocando violente accelerazioni e decelerazioni. Prima di salire un’animatrice si rivolge loro: “… sulla torre faremo soprattutto delle esperienze legate all’accelerazione, che subiamo sul nostro corpo. Per misurarla utilizzeremo tre strumenti: un dinamometro a molla [lo mostra]: come vedete, nella posizione orizzontale ha la masserella in corrispondenza della tacchetta centrale; se lo mettiamo in verticale si sposta di una tacchetta, che corrisponde a 1 G, ovvero l’accelerazione di gravità…. Per valutare la forza centrifuga possiamo utilizzare questo strumento [lo mostra]: è un accelerometro ad ago che, nel momento in cui ci incliniamo, indica la direzione della forza di gravità. Esistono delle curve dove questo strumento resta sullo zero e queste sono le curve paraboliche”.

Ho sottolineato “prima” perché mi ha colpito come una incongruenza rispetto all’idea di laboratorio. Ovviamente il laboratorio didattico non è la stessa cosa di un laboratorio scientifico: nel primo grosso modo si sa già di che cosa si tratta, ma un conto è se lo sa l’insegnante che può utilizzare questo sapere per creare le condizioni migliori per promuovere percorsi di conoscenza nei propri allievi, un conto è se lo vengono a sapere coloro i quali dovrebbero scoprirlo.

Se si ritiene l’aspetto emotivo (uso del corpo, curiosità, spiazzamento…) tanto importante da proporre un parco di divertimenti come luogo di apprendimento, perché dire prima che cosa si scoprirà? Se l’aspetto scientifico della scoperta consiste nel costruire una “mappa” simbolica (linguistica, grafica, matematica…) adeguata al “territorio” dei fenomeni, perché introdurre termini e strumenti prima che se ne giustifichi l’invenzione, e quindi prima che l’esperienza ne faccia emergere il contesto e il significato?

Nello stesso incontro è stato presentato un altro DVD in cui il contesto esperienziale di riferimento per concetti e leggi di fisica è il pattinaggio su ghiaccio.

L’intenzionalità didattica è chiaramente espressa dagli autori: “Il pattinaggio sul ghiaccio offre una grande varietà di situazioni che permettono di affrontare lo studio di molti concetti di meccanica in un modo inusuale e più accattivante di quanto avviene con un metodo tradizionale. La pista ghiacciata è un laboratorio ideale in quanto consente di sperimentare in condizioni reali ciò che avviene quando l’attrito è estremamente ridotto. Il DVD presenta molti concetti di fisica che il pattinatore utilizza inconsciamente. Il professor Icetein [personaggio disegnato che regge il filo del discorso], che fa da guida, individua e illustra questi concetti in un modo volutamente semplificato, man mano che si presentano nelle immagini che scorrono sullo schermo”. Le immagini sono riprese su una pista di pattinaggio e integrate da grafica computerizzata.

La difficoltà di organizzare una pratica diretta del pattinaggio può giustificare pienamente la scelta di osservare l’esperienza attraverso il mezzo video; ma allora a che cosa si riferisce l’espressione “sperimentare in condizioni reali”? Nel libretto che accompagna il DVD si legge una possibile risposta: “La trottola su ghiaccio è una situazione sovente descritta dai testi di fisica. Viene proposta per spiegare la conservazione del momento angolare, ma spesso accade che gli studenti non abbiano mai notato ciò che avviene quando osservano dal vivo questa esibizione. Questa è una buona occasione per  osservare e riflettere.”

Come giustamente fanno notare gli autori, ricavare leggi di fisica dall’ “osservare” la realtà è qualcosa di diverso che “utilizzare inconsciamente” quelle leggi con il proprio corpo. E la spiegazione (perché accade ciò che accade) è la costruzione di una mappa simbolica formale adeguata ai fenomeni osservati.

Ma perché allora il video propone una spiegazione indipendente dall’osservazione? Perché ovviamente l’osservazione di cui si parla è quella dei soggetti dell’apprendimento, degli allievi, e invece è il professore a descrivere e a spiegare: “Notate in queste immagini il movimento delle braccia della pattinatrice e tenete d’occhio la velocità di rotazione durante le piroette. Vi sarete accorti che l’atleta ruota più velocemente quando stringe verso di sé le braccia e ruota più lentamente quando le allarga. Il professor Icetein insegna che quando osserviamo sistemi in rotazione dobbiamo descriverli con un’opportuna grandezza fisica detta ‘momento angolare’. Quando un corpo ruota possiede un certo momento angolare, che tende a rimanere sempre uguale finché il sistema non viene disturbato dall’esterno… il professor Icetein spiega che il momento angolare dipende da due fattori: come è distribuita la massa del corpo attorno all’asse di rotazione e la velocità angolare. Il momento angolare è tanto più piccolo quanto più il corpo è stretto attorno all’asse di rotazione e quanto più bassa è la velocità di rotazione. Pertanto, poiché il momento angolare deve rimanere costante, quando si avvicinano le braccia all’asse di rotazione deve aumentare la velocità angolare e, al contrario, il sistema rallenta se si allontanano le braccia.”

In sostanza non sono gli allievi a descrivere ciò che osservano e a ricavarne delle ipotesi da sviluppare in teorie attraverso un’interazione sociale, ma è l’insegnante che enuncia dei concetti e delle leggi, attraverso un linguaggio già formalizzato, e che li illustra attraverso esempi contestualizzati. D’altra si ritiene comunque più “accattivante”, anche perché “inusuale”, il contesto di una pratica sportiva che la lettura di un libro di testo o l’osservazione delle stesse leggi in azione in un contesto meno spettacolare come quello di un laboratorio didattico scolastico (“metodo tradizionale”).

Quello che manca è il percorso della scoperta, ovvero ciò che caratterizza da una parte la scienza e dall’altra la costruzione, anzi la co-costruzione di conoscenza, attraverso l’assimilazione e l’accomodamento, per usare termini di Piaget, dei sistemi cognitivi dei soggetti.

Eppure non sarebbe difficile utilizzare la straordinaria occasione del pattinaggio per imparare la fisica: occorrerebbe frapporre tra osservazione e formulazione della legge il “gioco linguistico” delle domande e delle risposte, un gioco sociale che i bambini utilizzano nel loro apprendimento naturale e che la scuola da sempre non utilizza, preferendo altre modalità e domandandosi poi perché non funzionano.

La parola “gioco” mi riporta a un’altra riflessione che riguarda il rapporto tra apprendimento e divertimento. Durante quell’incontro su divulgazione scientifica e scuola, situazioni e oggetti sicuramente divertenti venivano immessi nello spazio comune senza spiegazioni, senza mediazioni. Certo era possibile poi nelle pause guardarci dentro e “parlarci su”, chiedere e ottenere spiegazioni, ma questa dimensione, che faceva di quegli oggetti occasioni di apprendimento “scientifico”, era del tutto facoltativa e dipendeva dalla presenza e disponibilità di “esperti”.

Questo mi riporta alla filosofia dei science centre, che si propongono come occasioni di avvicinamento alla scienza appunto riducendo al minimo le mediazioni tra gli oggetti e i visitatori (niente animatori, didascalie ridotte al minimo necessario per consentire l’autonomia d’uso degli apparecchi...).

In quel contesto la metafora del “supermarket” è ritenuta positiva, non per la sua vicinanza al consumismo ma per l’idea di autonomia dell’utente, libero di costruirsi un proprio percorso di esplorazione.

Se devo prendere sul serio la metafora, il supermarket in realtà è una situazione accuratamente studiata da esperti ben pagati il cui compito è indirizzare i percorsi degli utenti e le loro scelte attraverso la disposizione degli oggetti, il loro aspetto, le loro relazioni e le relazioni con il contesto fatto di arredi, di ambientazioni, di suoni ecc.

E l’idea guida del supermarket non esenta i science centre dal problema di verificare che cosa hanno appreso i visitatori, semmai rende il compito più difficile.

Ma è inevitabile e necessario che l’apprendimento, tanto più se scientifico, passi attraverso una comunicazione verbale, unidirezionale e autoritaria? Sembra che nella nostra cultura la lezione sia l’unico modello di comunicazione educativa, universalmente adottata più per la struttura della relazione di potere che si porta dietro che per la sua efficacia.

Dobbiamo accettare che la scelta sia tra imparare annoiandosi, o peggio senza comprendere, e divertirsi senza imparare nulla che possa riferirsi a un sapere socialmente codificato?

Quando ci si ritrova presi in un “doppio vincolo” come questo, l’unico modo per uscirne è mettere in discussione le premesse da cui è sorto. Qui la premessa è la separazione tra divertimento e apprendimento, profondamente radicata nella nostra cultura.

Ascoltando i bambini ho imparato che quella premessa non esiste nella loro esperienza e nella loro cultura e io mi domando se per gli adulti sia proprio una condizione necessaria. Se lo fosse sancirebbe la condanna a morte della scuola e di ogni contesto educativo e dovrebbero dare le dimissioni anche i divulgatori scientifici.

Eppure sembrerebbe che il moltiplicarsi di iniziative di comunicazione della scienza si proponga proprio di avvicinare la scienza a chi è estraneo al suo mondo. E la via per questo avvicinamento sembra essere quella della valorizzazione dell’emozione.

L’idea è che un animatore scientifico “possa incidere attivamente nel bilancio fascinazione/difficoltà della scienza, a favore della prima”  [1]. La parola “animatore” del resto ci fa subito venire in mente il Club Mediterranée e le feste di compleanno, che sono anche una delle attività praticate dai musei; non sta a me discutere l’opportunità di queste iniziative nella gestione di un museo, rilevo soltanto che l’animatore scientifico del museo è lo stesso che gestisce le feste di compleanno: questo qualcosa vorrà pur dire sulla rappresentazione sociale della sua professionalità.

Sembra che il ragionamento sia: la scienza è fredda e per avvicinarla occorre far entrare in gioco l’emozione, ma proprio perché la scienza è priva di emozioni le emozioni occorre prenderle altrove. I modelli per appassionare il pubblico alla scienza vengono allora cercati nel mondo dello spettacolo. I maestri saranno registi e attori, meglio se vengono dalla TV e dalla pubblicità, e organizzatori di “eventi”.

Basterebbe osservare la composizione, i curricula professionali e le gerarchie all’interno della organizzazione di certi musei scientifici per comprendere molte cose. Un famoso museo italiano ha occupato per settimane lo spazio mediatico portando a spasso per la città un sommergibile, ma la cosa più significativa è che, grazie a questo, si è definitivamente accreditato come soggetto erogatore di formazione scientifica per i docenti delle scuole, pur investendo pochissimo nella formazione scientifica del proprio personale, che ormai proviene solo in parte minoritaria da facoltà scientifiche.

Ma fin dall’inizio c’è qualcosa che non mi torna in questo discorso ed è la premessa sulla scienza “fredda”, dal momento che, in qualsiasi testimonianza gli scienziati forniscano riguardo alla loro esperienza professionale, l’emozione ha un posto centrale. E osservando i bambini quando fanno gli scienziati se ne ha la riprova.

Ci sarebbe anche da aprire una parentesi sull’equivoco che riduce le emozioni alle emozioni piacevoli. La frustrazione, la competitività, la sfida, l’ansia, la collera, la disperazione, il gioco del potere ecc. ecc. non fanno parte del mondo emotivo-affettivo-relazionale?

Tornando ai bambini, è evidente osservandoli che, nelle dinamiche delle attività scientifiche, una dimensione emotiva-affettiva-relazionale è inseparabile da quella cognitiva, nonostante che il linguaggio che usiamo faccia credere che sia separata.

Ed è proprio qui il nodo, perché le attività che svolge un bambino quando fa lo scienziato sono strutturalmente simili a quelle di uno scienziato, ma sono sostanzialmente diverse da quelle che si svolgono nei contesti di educazione scientifica e di divulgazione, in cui manca proprio quello che è il cuore della scienza come attività sociale e culturale: il processo della scoperta.

È lì, nel porsi domande su come e perché, nel procedere per tentativi ed errori, per ipotesi ed esperienze, nel co-costruire modelli, teorie e linguaggi, che sta il cuore “caldo” del gioco della scienza, un gioco che conoscono i bambini, gli scienziati, ma anche tutti coloro che si appassionano e si divertono a “rompersi il capo”. L’esistenza e la persistenza di riviste di enigmistica o di rubriche di sudoku è lì a dirci che non è tanto nella soluzione dei problemi che sta il piacere, ma nel porsi problemi, nel tentare di risolverli, scoprendo magari altri problemi.

E invece nella comunicazione scientifica, educativa e/o divulgativa che sia, il gioco sembra non essere quello delle domande, ma delle risposte. Senza le domande, ovvero senza una partecipazione attiva al processo che va dalle domande alle risposte, come possono le risposte essere “assimilate”, fatte proprie dai soggetti, provocando delle vere ristrutturazioni dei loro sistemi cognitivi?

Il gioco delle risposte è il gioco dell’autorità di chi le fornisce, e toglie a chi le riceve potere e responsabilità (che non sono due cose diverse e contrapposte, ma le classiche due facce della stessa medaglia).

In questo senso la divulgazione rischia seriamente di uccidere la scienza. Non si tratta tanto del fatto che le semplificazioni necessarie a far comprendere comportano inevitabilmente una messa in crisi della correttezza e quindi della adeguatezza delle spiegazioni scientifiche, quanto dell’effetto distruttivo che ha sulla dinamica della ricerca e della conoscenza il credere di sapere. Se il non sapere di non sapere è lo stato inerte di chi non sente neppure il bisogno di conoscere e non sviluppa strumenti culturali, se il sapere di non sapere è l’acquisizione della consapevolezza di un bisogno e quindi è il motore energetico della ricerca di conoscenza, se il sapere di sapere è l’appagamento che rischia di spegnere il desiderio e fermare il motore, il credere di sapere costituisce il pericolo più grave per la civiltà, che è l’ignoranza, la mancanza di strumenti culturali, unita all’arroganza.

Io non credo che le iniziative di divulgazione siano positive comunque. Se vengono meno alcuni requisiti nella qualità educativa, e negli esempi precedenti ho cercato di metterli a fuoco, si rischia di ottenere l’effetto opposto a quello che ci si propone. Ma questo vale anche per un supermarket. E dunque ciò che serve è curare la qualità. Allora il metro di misura dell’efficacia delle iniziative non può essere la valutazione sul numero di utenti “a prescindere” o, peggio ancora la “visibilità” sul palcoscenico mediatico. La strada va in tutt’altra direzione: occorre investire sulla formazione del personale, quello che progetta la comunicazione educativa e, a maggior ragione, quello che la gestisce in interazione con gli utenti.

Mi pare che non manchi la creatività, ovvero la capacità di inventare situazioni che rompano le barriere tra scuole, musei, impianti sportivi, parchi di divertimenti ecc. (le iniziative che ho preso come esempi lo dimostrano) e che ricostituiscano quell’interezza di contesto, naturale nello sviluppo dei bambini piccoli e poi negata, in cui l’apprendimento non è cosa separata dal gioco. Quello che serve ancora è l’esercizio inesauribile di un pensiero critico che entri nel merito e nel dettaglio della sostanza scientifica-epistemologica-pedagogica di ogni iniziativa. E questo a sua volta richiede che la formazione crei spazi di ricerca-azione dove chi eroga un servizio abbia la possibilità di osservare il proprio agire e rifletterci sopra per migliorarlo.

 



[1]   Dall’intervista a un animatore in Musei con l’anima: persone molto speciali tra il pubblico e la scienza, sul portale ULISSE della SISSA nel novembre 2006 (http://ulisse.sissa.it/scienzaEsperienza).