Marcello Sala

AI CONFINI DELL’INFINITO

MATEMATICO

-pubblicato in- 

IL CROGIOLO n. 11-12-13 / 1990

Ceratti

 

 

  Quanto segue è tratto da una conversazione svoltasi in una classe seconda media. Le riflessioni dei ragazzi, le loro immagini, le loro ipotesi aprono una finestra sulle loro visioni del mondo[1].

   È l'insegnante a fare la domanda-provocazione: <<Qual è l'insieme più numeroso che conosci? Di quanti elementi è composto?>>

QUANTI SONO I GRANELLI DI SABBIA?

   Le risposte dapprima si indirizzano su oggetti fatti di parti modulari (cellule del corpo, quadretti del quaderno) o su grandi collezioni di oggetti (le stelle, le persone o le auto (!) che ci sono nel mondo, i granelli di sabbia).

   Ben presto come quantità massima compare l'infinito, e da qui in poi il dibattito sarà su che cosa è infinito e cosa no, che è probabilmente il modo con cui i ragazzi pongono il problema "che cos'è l'infinito?".

   Subito ci sono dubbi che insiemi di oggetti reali possano essere infiniti. Dice Michela: <<I granelli di sabbia si possono contare tutti in tutto il mondo e quando li hai contati tutti son finiti.>>

   L'infinito viene associato all’universo, allo spazio. Ma anche qui c'è qualche contestazione: <<Lo spazio potrebbe essere infinito, ma non è detto che in ogni spazio ci siano stelle>> dice Andrea, che ha elaborato, e disegnato, una sua cosmologia.

   A questo punto è maturo il grande salto verso l'astrazione: i numeri stessi sono infiniti. Sarà Raffaele a giustificare la scelta: <<Qualunque oggetto prima o poi finisce, invece i numeri sono una cosa teorica che non può finire. Si può dire "ci sono cinquemila miliardi di granelli di sabbia", perché ci sono i numeri; se ce ne fossero settemila si direbbe "settemila miliardi"; per i numeri non c'è problema che finiscano, c'è il problema che i granelli finiscono.>>

   Molti condividono la scelta dei numeri come esempio d'infinito e Katia spiega il meccanismo che i matematici chiamerebbero "principio d'induzione": <<Tanti uno, mettendoli insieme, dà sempre un numero più grande che non finisce mai.>>

   Ma c'è chi, come Antonello, non è d'accordo: <<Non c'è niente d'infinito. Dei grandi matematici hanno pensato numeri grandissimi ma poi si sono fermati.>> E Andrea ci dà la chiave epistemologica di questa presa di posizione: <<I numeri dipendono dalle conoscenze di una persona; chi ha tante conoscenze può arrivare a un certo numero di numeri, chi è analfabeta non li sa neppure.>>

FINISCONO I NUMERI?

   Ma un'altra scuola epistemologica si contrappone a questa: <<Non c'entra la conoscenza: l'insieme dei numeri, senza che qualcuno li pensi, è infinito.>> sostiene Giovanna. E Michela: <<Non sono i numeri che finiscono; certi numeri si sa che continuano, sono i matematici che si sono stancati di calcolarli.>> (il riferimento è al calcolo di pigreco).

   Antonello non si arrende: <<Ma proprio perché si sono fermati non si può dire che il numero è infinito: se se ne calcolasse un'altra cifra magari potrebbe finire.>>

   Brunella trova l'esempio cruciale: <<I numeri periodici si sa che non finiscono: per come sono fatti. Si può andare avanti quanto si vuole ma risulta sempre la stessa cifra.>>

   La dimensione dell’infinito non è solo lo spazio o la quantità, è anche il tempo: un discorso sull’infinito coinvolge inevitabilmente "la fine".

   Alessandro sostiene la prima teoria: <<I numeri finiranno alla fine del mondo, quando non ci sarà più nessuno a inventare numeri>>

   Antonello naturalmente è d'accordo: <<I numeri finiscono, qualsiasi cosa finisce: come finisce la vita nel mondo finiscono anche i numeri, perché senza uomini le cose non possono andare avanti.>>

   Dall’altra parte si schiera Raffaele: <<Se finisce il mondo finisce la conoscenza umana, non c'è più nessuno che può contare, ma i numeri non finiscono. I numeri esistono da sempre, da quando ci sono cose da contare.>> I numeri esistono dunque come qualità degli insiemi, e l'uomo non li ha inventati, ma soltanto scoperti.

   Giovanna approda a una posizione dialettica: <<Per il calcolo dei numeri come pigreco, quando il mondo finisce l'operazione è sempre infinita, però se non c'è nessuno che la pensa, è finita.>>

   La domanda <<"Dove" esisteranno i numeri quando non ci saranno più gli uomini a pensarli?>> provoca un ripensamento di Antonello che scopre l'essere "in potenza": <<I numeri esisteranno anche se non sono pensati, ma come dietro una porta che resta chiusa.>> Nelle risposte degli altri affiora l'immagine di una Mente sovraindividuale che pensa i numeri (Dio) o di una continuità delle menti pensanti al di là della fine (il "Paradiso").

RI-PRODURRE INFINITI

   Ma infinito non è solo "qualcosa di molto grande": una variante più dinamica e meno afferrabile di infinito è quella che propone Andrea: <<Per me le cose infinite sono solo quelle che si possono riprodurre.>>; ma Katia non è convinta e pone un problema linguistico-concettuale: <<Le cose che si riproducono non sono sempre le stesse, perciò non si può dire che "quelle" cose sono infinite.>>

   Alessandro applica il concetto ai numeri: <<Anche i numeri sono diversi uno dall’altro, perciò non si può dire che sono infiniti.>> ma Raffaele vede le cose da un altro punto di vista: <<I numeri non sono diversi uno dall’altro: Alessandro dice che uno è uno e due è due, ma è anche vero che possiamo considerare due come due volte uno e così via.>>

   Così entra nell’universo del discorso anche il "meccanismo di produzione" dell’infinito. Danilo scopre la combinatoria come generatrice di infinito: <<Se i numeri sono infiniti, anche le parole lo sono.>>, <<Se comprendiamo anche le parole senza senso.>> precisa Giovanna e Laura chiarisce il meccanismo come <<composizione di lettere>>; ma Katia ne individua i limiti nella limitazione del numero di lettere.

   Un altro meccanismo generatore è quello della ricorsività. I ragazzi non conoscono l'Achille del paradosso, ma la tartaruga sì: è quella di LOGO, il software che ha permesso loro disegnare spirali con il computer. Non sembrano esserci dubbi sul destino delle spirali centrifughe: <<Se avessimo uno schermo più grande avremo potuto continuare all’infinito.>> come dice Andrea. Ma sulle spirali centripete la maggior parte pone il limite di visibilità del prodotto come limite del processo.

   Per accettare l'infinitamente piccolo ci vuole la grande dimestichezza con l'astrazione di Raffaele: <<Se il lato della spirale si dimezza sempre, si continua all’infinito.>> o l'intuizione di un'immagine come quella di Luca: <<La spirale magari si sposta sempre più in profondità.>>

   Antonello che "non crede e non crederà mai che esiste un infinito" prende ciò che i matematici chiamerebbero il "limite", cioè il valore verso cui tende una funzione ma che non può essere raggiunto, come effettivo punto di arrivo del processo quantitativo non solo in diminuzione ma anche in aumento.

GEOMETRIA DELL'INFINITO

   Ma quant'è grande un infinito? Alessandro, quando i numeri si erano affacciati come esempio dell’infinito, aveva proposto <<i numeri relativi, perché vanno sia da una parte che dall’altra: sarebbero come due infiniti.>> Così, quando l'insegnante chiede se è più grande l'infinito dei numeri sull’asse delle ascisse o quello delle ordinate corrispondenti già in numero infinito a ogni ascissa, Alessandro non ha esitazioni a rispondere che <<l'infinito dell'asse x è più piccolo dell’infinito del piano.>>; e molti compagni sembrano condividere la non problematicità della risposta.

   Massimo va controcorrente con una strana risposta: <<I due infiniti sono uguali: infinito significa che non finisce mai. Un esempio è quello della linea chiusa.>> Nell’esempio della linea chiusa che può essere percorsa infinite volte c'è probabilmente l'immagine di un infinito legato non alla grandezza ma al tempo e alla ciclicità.

   Alla domanda se la migliore rappresentazione geometrica dell’infinito sia una linea chiusa o una retta, Michela sceglie la prima <<perché la linea chiusa siamo sicuri che continua sempre, mentre la linea aperta può incontrare una fine prima o poi.>> La scelta trova sostenitori, ma Brunella sceglie la linea retta (disegnata come un segmento con puntini agli estremi) perché, argomenta, la linea chiusa non è di per sé infinita: tuttalpiù lo è il movimento di chi la percorre. E poi il punto di inizio del movimento costituisce anche una fine, tanto che è possibile constatare il compimento di un giro; invece, come sostiene Raffaele, <<sulla retta un inizio lo crei tu quando ci salti dentro per camminarci sopra, ma la retta di per sé non ha l'inizio né la fine.>>; come dire che sulla linea chiusa il punto segnato dall’inizio del movimento viene in qualche modo incorporato nella natura della linea che diviene un "giro" con inizio e fine determinati, mentre nella retta il punto di inizio del movimento resta un accidente di cui si perde memoria.

   Michela si sente in dovere di precisare che sceglie <<la linea chiusa per l'infinito in generale, e la linea aperta per l'infinito dei numeri.>>

   Andrea sceglie l'elica (il "cavatappi" come dice lui) come immagine dell’infinito e si aprono nuovi orizzonti. Subito chiusi da un suono di campanella, simbolico e concreto segno di rottura.

UN SILENZIO EPISTEMOLOGICO

   Io credo che il senso educativo di questa esperienza stia nella ricerca epistemologica dei bambini. E si può trovare anche una indicazione operativa nel valore metodologico del silenzio: il silenzio non solo come non-insegnamento, ma come atteggiamento di ascolto, cioè di accoglienza del pensiero altrui non per giudicarlo, usarlo o tollerarlo ma per reagire e interagire con esso.

   Il silenzio come spazio "democratico" dove lo sforzo di comunicare non implica l'assunzione del linguaggio dell’insegnante e dei libri di testo, che impone a priori categorie chiuse, che in nome di un pensiero chiaro e distinto esclude la complessità. Il silenzio e l'ascolto come spazio protetto dove costruire una relazione (e la formula ricorrente <<Non sono d'accordo con...>> testimonia il prevalere dell’esigenza di una ricerca d'identità).

   Il silenzio non come il vuoto in cui perdersi, ma come spazio in cui possono riemergere i vissuti e si può costruire la consapevolezza del loro significato. Un silenzio pieno della memoria delle esperienze fatte (la contemplazione affezionata del cielo, il gioco della costruzione delle spirali, l'osservazione metamatematica, quasi estetica, dei numeri), in cui le menti, e non solo le coscienze razionali, possono esprimere e riconoscere le loro relazioni con il mondo.

 



[1]  Quiz per i lettori: individuare almeno cinque personaggi finiti sui libri di storia della filosofia o della matematica per aver sostenuto e dibattuto idee come quelle espresse dai ragazzini della 2a B 1989-90 della scuola media Anna Frank di Cinisello Balsamo (MI).