Circolo Bateson                                                                                                Seminario dicembre 2002

 

          

INDIVIDUO E SOCIETà: qualche riflessione su un problema di tipi logici

intervento di Marcello Sala

 

 

Vorrei  proporre una problematica che mi sta molto a cuore, tentando di tirare dei fili tra cose forse troppo diverse e personaggi molto eterogenei come Condorcet, Berlusconi, Pierre Rivière, Stefano Rodotà, Luigi Sala, Luigi Bobba, Tafazzi.

Comincerò con il porre un quesito. Immaginiamo una elezione in cui si presentano tre partiti: A, B, C. Gli elettori sono 15 milioni e i loro ordini di preferenza sono questi:

per 6 milioni  1° A  -  2° B  -  3° C

per 4 milioni  1° B  -  2° C  -  3° A

per 5 milioni  1° C  -  2° B  -  3° A

Se ogni elettore è libero di votare in coerenza con le proprie preferenze e lo fa, quale partito vince le elezioni? ………..

Dipende dalle modalità di votazione. Se si vota in turno unico  A vince con 6 milioni di voti contro i 5 di C e i 4 di B. Se si vota in due turni, B viene escluso dal ballottaggio, A riceve 6 milioni di voti e C vince con 9.

Questo esempio semplice e concreto (è una conseguenza del cosiddetto “paradosso di Condorcet”) dimostra come l’espressione sociale non corrisponde alla somma delle espressioni individuali.

Sto sostenendo che sono livelli logici distinti: non l’individuo / la società (questo è banale), ma l’insieme delle relazioni interindividuali (è quello descritto dalla statistica) / l’organizzazione sociale.

Recentemente, in una riunione formale del corpo diplomatico, Berlusconi si è rivolto con il “tu” a Ciampi: il “tu” è segna-contesto di un contesto di parentela o di amicizia, caratterizzato comunque da relazioni tra persone e non tra ruoli sociali istituzionali come quello di Presidente del Consiglio e Presidente della Repubblica.

Berlusconi in questo modo ri-classifica un contesto sociale come contesto di relazioni interpersonali; modificandone la rappresentazione collettiva, mette in crisi l’esistenza stessa di una dimensione sociale. La società esiste, cioè ha una effettività in certe forme, se esistono rappresentazioni collettive di quelle forme che ne rendano possibile una pratica attraverso istituzioni, norme ecc.; e reciprocamente una vita collettiva organizzata in certe forme genera una rappresentazione delle forme di organizzazione sociale: il sociale si regge su un circuito cibernetico, in cui rappresentazioni condivise e istituzioni si generano e si aggiustano circolarmente.

Quella ri-classificazione del contesto, che non rispetta le distinzioni di livello logico, gli attribuisce pertinenze incoerenti con il suo funzionamento.

Nel mio articolo “Pietà o giustizia” (www.marcellosala.it, articoli) provo a ragionare su queste due idee-sentimenti (non c’è un termine nel linguaggio della nostra cultura che rispetti la non separabilità dei due aspetti) che nella sfera comportamentale ed etica si pongono in conflitto: è un contrasto risolvibile soltanto se la loro pertinenza si riferisce a contesti diversi: le relazioni interpersonali e l’organizzazione sociale, appunto.

Il paradosso del vivente è quello di dover mantenere la distinzione tra contesti di livello logico diverso cui contemporaneamente appartiene. Il compito impossibile è trovare l’integrazione evitando la con-fusione.

Pietà e giustizia trovano la loro proiezione in funzioni sociali quali la Cura, la Sanità, l’Assistenza Sociale e l’esercizio della Giustizia e in istituzioni quali la Medicina e la Magistratura.

Un esempio del conflitto tra medici e giudici di straordinario interesse è quello documentato dall’équipe di Foucault in “Io, Pierre Rivière…”. Nel 1834 un giovane contadino della Normandia uccide madre, sorella e fratello; una volta catturato dà come spiegazione del proprio delitto un delirio mistico (“Dio me lo ha ordinato”); in seguito, attraverso una memoria scritta denuncia la precedente come una simulazione e ricostruisce il proprio percorso di omicida. Quella memoria viene usata dai medici e dai giudici, che, interpretandola e manipolandola dentro un proprio diverso codice (che è culturale e politico), ne fanno la prova rispettivamente della pazzia, e quindi della non responsabilità, o della consapevolezza e quindi delle punibilità penale. Siamo agli albori della psichiatria e del suo affermarsi come potere sociale e nasce anche in questo periodo un’idea della pazzia come turbamento non della ragione ma della sfera dei sentimenti, della volontà, del giudizio morale.

Ma nel 1835 il conflitto tra medicina e magistratura è su un territorio (quello dell’esercizio del potere di controllo) che sta in un unico livello, quello sociale (di lì a poco in Francia verrà sancita per legge la segregazione, anche preventiva, del pazzo pericoloso): l’alternativa è tra la reclusione in manicomio o in prigione di chi rappresenta un pericolo per il Potere.

170 anni dopo il conflitto tra psicologo e magistrato è tra livelli logici diversi, quello delle relazioni interpersonali e quello della organizzazione sociale.

Ciò che è successo nel frattempo  è l’affermarsi nella cultura della soggettività.

Un primo aspetto di questo mutamento riguarda la rappresentazione della patologia: l’intervento terapeutico come relazione con la soggettività della sofferenza. Il conflitto è di pertinenza: il delitto è fonte di sofferenza per chi lo commette o è una fonte di danno per altri individui e quindi per la società?.

Faccio una digressione su quel “e quindi”: ciò che rende fatto sociale un danno a degli individui è la solidarietà.

Stefano Rodotà su Repubblica ha ricordato che la solidarietà non è una virtù privata che appartiene al dominio delle relazioni interpersonali: è una condizione della convivenza civile che appartiene al dominio sociale; su di essa si basa il contratto fondamentale tra cittadino e Stato come organizzazione di cittadini.

Quando ero piccolo facevo a mio padre (Luigi Sala) delle domande su come funziona il mondo. Una volta mi spiegò  che i cittadini versano una parte di ciò che guadagnano e di ciò che hanno allo Stato che provvede a fornire quelle costruzioni e quei servizi che il singolo cittadino non potrebbe mai realizzare da solo: ospedali, strade ecc.

L’ ”educazione civica” paterna è stata per me fondamentale perché ha coperto aree che la scuola, almeno ai miei tempi, non copriva. Alla sua base non c’era tanto un’idea politica di “patto sociale” quanto qualcosa di più elementare e profondo (adesso ho gli strumenti per capire che in gioco era l’epistemologia): l’idea stessa di società, cioè di un livello di esistenza diverso dalla somma delle esistenze individuali (per certi versi più della somma, come si comprende se si pensa agli ospedali alle strade ecc., per certi versi meno, se si pensa alle limitazioni che pone all’individuo).

Adesso proviamo a farci queste tre domande in successione: 1) quanti genitori ritengono “normale” che i propri figli ad una certa età abbiano accesso a consumi individuali come il telefonino, le vacanze, il motorino ecc.? 2) quanti genitori ritengono “normale” che i propri figli forniscano una parte del loro tempo di vita alla organizzazione sociale? 3) che significato ha in questo contesto l’abolizione della obbligatorietà del servizio militare?

Luigi Bobba, presidente delle ACLI, nell’ultimo congresso dell’associazione ha proposto una campagna per l’obbligatorietà del servizio civile. Sostengo questa iniziativa non per il suo valore politico, ma per il suo valore etico (mi interessa l’ “educazione civica”, cioè l’assunzione da parte dei giovani di comportamenti adeguati alla vita sociale) e prima ancora per il suo valore epistemologico (come cittadino mi interessa la sopravvivenza di una rappresentazione della organizzazione sociale “positiva”, cioè capace di renderla effettiva, attraverso istituzioni e norme, e di mantenerla viva attraverso la partecipazione).

Una quarta domanda: che significato ha in questo contesto la riduzione delle imposte?

Sulle strade di Italia si usa segnalare con un lampeggio dei fari agli automobilisti che provengono in senso inverso la presenza delle forze dell’ordine. Lo scopo è di consentire agli altri automobilisti di non essere colti in fallo nei loro comportamenti fuori norma per poi poterli riprendere. E qui c’entra l’ultimo personaggio: Tafazzi[1]. La mia domanda è sempre stata: perché dovrei rendermi complice di comportamenti che mettono in pericolo me, degli inermi pedoni, altri automobilisti e gli stessi che li adottano? per solidarietà con quale categoria di persone dovrei comportarmi in modo così insensato? quella degli automobilisti?

Ma la chiave della risposta si trova solo se si sposta la domanda più a monte: perché dovrei rendermi complice di comportamenti fuori norma? Infatti si scopre che non c’è risposta sensata se non in una rappresentazione culturale dello Stato, e quindi di chi lo rappresenta, come nemico.

Non mi interessa qui se questa rappresentazione abbia spiegazioni storiche, mi interessa sapere se vogliamo tenercela e coltivarla (Tafazzi…).

Tornando alla soggettività, la questione investe anche il rapporto tra ruolo sociale e individuo che lo interpreta.

Di qui la problematica che investe la figura del giudice: il ruolo sociale, e quindi il contesto di pertinenze in cui si inserisce, è separabile dalla ineliminabile soggettività della persona-giudice? è in essa assorbito? se è distinguibile, come?

È un problema che esiste da quando esistono i giudici, ma si ripropone oggi in un contesto culturale in cui la soggettività ha un ruolo centrale. È chiaro quali sono le risposte alle domande precedenti per chi dà del tu al Presidente della Repubblica.

Anche per l’insegnante, e qui torno a casa mia, esiste un problema di livelli logici: se la relazione interpersonale è parte strutturale della relazione di insegnamento, esiste un ruolo sociale dell’insegnante? Esso si assorbe nella relazione? Se no, come si caratterizza oggi, concretamente nella pratica educativa, a partire dalla scuola? Come si distingue e si integra con il livello della relazione interpersonale? Per fare un esempio prendiamo la funzione di valutazione, che dal punto di vista pedagogico appartiene strutturalmente al ruolo sociale e, sempre da un punto di vista pedagogico, appare incompatibile con la relazione interpersonale (sospensione del giudizio, accoglienza come accettazione dell’altro…).

 

 



[1]  Tafazzi è il personaggio, reso popolare dal trio di comici “Aldo Giovanni e Giacomo”, che non fa altro che ripetere il gesto di colpirsi i genitali con una bottiglia.