Marcello Sala

GIOCHI DI GUERRA,

GIOCHI DI PACE

- pubblicato in-   

COOPERAZIONE EDUCATIVA

n.  8 / 1987

La Nuova Italia

 

LE GUERRE ELETTRONICHE

   Il computer ha la fedina sporca: è di quelli che, a causa dell’ambiente in cui nascono, sembra abbiano il destino segnato.

   Gli erano appena spuntati i tubi elettronici (1943) che già faceva calcoli balistici per i congegni automatici di tiro dell'artiglieria; come hobby si interessava alle ricerche sulla bomba atomica.

   Divenuto adulto, all’apice della sua carriera criminosa, è in grado di gestire praticamente da solo un bel conflitto nucleare totale; nell’attesa si diverte simulandolo.

   E che dire della "corruzione di minorenni" che sembra essere il suo passatempo preferito, da quando la sua presenza è dilagata anche nei bar e nelle stesse nostre case? In un paese come il nostro dove è stata proibita la vendita di armi giocattolo (ma non di quelle vere) gli è stato facile colonizzare lo spazio ludico dei bambini e dei giovani con giochi in cui fa più punti chi è più veloce a distruggere l'avversario con armi sofisticatissime dall’effetto spettacolare.

   Attraverso i "war-games" elettronici, medium prestigioso e desiderato, passa una serie di stereotipi culturali più o meno sofisticati che si pongono come "la proiezione di un nuovo modello sociale emergente, che ha il nucleo familiare al centro e che vede la casa come un bunker da difendere contro i nemici esterni, che sono in sostanza tutti gli altri" (dagli atti dello stage M.C.E. su "Il computer tra videogiochi e didattica", Calalzo 1985).

   Ce n'è abbastanza perché qualcuno invochi la pena di morte per il computer. Velleità! esso gode dell’immunità, grazie alle protezioni dei potenti, ma anche grazie alle benemerenze acquisite in campo sociale, e soprattutto alla insostituibilità che ha saputo costruirsi. Ma poi noi siamo vecchi seguaci di Beccaria e abbiamo anche votato per l'abolizione dell’ergastolo: crediamo nella rieducazione, nella possibilità di riscattare il proprio passato, nel proverbio "l'occasione fa l'uomo onesto". Insomma siamo di quelli che pensano che il computer può essere (rimanere, diventare?) uno strumento, per di più estremamente flessibile e che sia possibile tentarne una "riconversione", con tutto ciò che questo significa, anche in campo educativo.

LA 3a G GIOCA A MORRA

   La preside entrando rimase decisamente sconcertata: l'aula era percorsa da un vociare fatto di scoppi improvvisi e rapidi di voci con cui i ragazzi, disposti a coppie, accompagnavano bruschi slanci delle braccia alle cui estremità le mani presentavano alcune dita stese e altre ripiegate. Non c'era dubbio: la terza G stava giocando a "morra"; mancavano soltanto il fumo e i mezzi litri di vino sui tavoli.

   La giustificazione che in fondo si trattava pur sempre di numeri nell’ora di matematica mi sembrò subito piuttosto debole, perciò decisi di raccontare tutta la verità. Quella che si stava svolgendo era una esercitazione pratica, necessaria per familiarizzare con le regole di questo gioco. L'obbiettivo era quello di provare a programmare il computer per giocare a "morra". Ma il mio vero perfido obbiettivo da insegnante era quello di far scontrare i ragazzi con la necessità di formalizzare, di "matematizzare" le regole del gioco per renderle gestibili dalla macchina.

   Questo tuttavia era solo l'aspetto più "scolastico" della faccenda: in realtà quello era anche un primo sbocco operativo di un discorso sul gioco e sulla competitività che in un primo tempo aveva visto i ragazzi impegnati in un "ampio dibattito".

   La base di discussione era stato un elenco di una quarantina di frasi scritte da altrettanti ragazzi cui era stato chiesto di sostituire ai puntini di <<...gioco...>> la prima cosa che fosse venuta loro in mente. L'analisi delle frasi aveva messo in luce le caratteristiche che i ragazzi attribuivano al gioco: il "divertimento" cioè il "di-vertere" dalla realtà quotidiana (l'immaginario) e dall'obbligo (la libertà), la parziale ma consistente sovrapposizione con la pratica di uno sport, la prevalente dimensione collettiva.

   Una seconda fase del dibattito si era centrata sul "giocare con..." "giocare contro...", ed era approdata ad alcune conclusioni. Assunta come definizione di "competizione" quella di una situazione di "premio selettivo" in cui cioè la disponibilità di un premio è inferiore alla quantità dei partecipanti (esemplificazioni ecologico-etologiche a cura dell’insegnante), i ragazzi avevano colto la differenza tra la competizione insita nelle regole del gioco e quella determinata dal contesto.

   Ad esempio, il gioco della "morra" a livello di regole non è competitivo nel singolo evento (entrambi i giocatori possono azzeccare la previsione sul numero di dita stese), ma lo è nel complesso del suo svolgimento (vince chi arriva a tot punti). In un gioco come "nascondino" che non ha fini competitivi dichiarati (l'esito di un singolo turno di gioco comporta semplicemente l'assegnazione dei ruoli nel turno successivo) determina comunque, sostengono i ragazzi, una classifica di "bravura" specifica.

   Mi aveva colpito l'incapacità dei ragazzi di trovare esempi di giochi non competitivi; mi sarei aspettato che l'assenza di un "competitore" in carne e ossa li avrebbe indotti a citare i giochi fatti da soli. Invece erano stati loro a parlare di "sfida" nel gioco solitario: sfida contro un "altro" macchina, come nel caso dei "games" elettronici, o contro un "altro" presente sotto le specie di un record da battere, un punteggio da superare, o infine contro un "altro"-sé stesso nella volontà di migliorare una propria prestazione precedente.

   Forse confondevano il livello della competitività come contenuto della simulazione, per esempio in una battaglia di soldatini, con quello della competitività dei giocatori? No, anche qui la loro analisi era molto lucida: Gabriele aveva ricordato ciò che tutti i bambini, o ex, sanno: che quando si simula una situazione di competizione (battaglia di soldatini, corsa di macchinine ecc.) in realtà si "tiene per" una delle parti, riportando così l'atteggiamento competitivo a livello della soggettività del "regista" del gioco.

   Insomma, a livello dialettico la posizione dei ragazzi era chiara e decisa: c'è sempre una competizione nel gioco. Per metterli in crisi mi attaccai ai racconti di Lele sui suoi giochi con animali domestici: come fai a fare un gioco competitivo con uno che pratica la competizione solo "sul serio" per la riproduzione o la sopravvivenza, e che oltretutto lo fa a livello istintivo senza avere la coscienza della competitività?

   M'ero tirato la zappa sui piedi: ad Antonio bastò citare un mio recente discorso sul tema "come gli alunni sono condizionati dalla scuola a fare le graduatorie di merito tra di loro anche senza accorgersene"; già, il fatto che i protagonisti non ne siano coscienti non fa diminuire affatto la competitività. Anzi, si lavora proprio sull’ipotesi opposta.

   Un elenco di giochi non competitivi riuscii a ottenerlo solo portando i ragazzi indietro nella loro storia con ricordi di quand’erano più piccoli o con osservazioni sui fratellini: giochi con materiali destrutturati (sguazzare nelle pozzanghere o nel mare, pastrugnare con il fango o la sabbia, rotolarsi nella neve), giochi di costruzione-creazione (dal "lego" al "das" al semplice disegno, al castello di sabbia), giochi di simulazione diretta ("facciamo che tu eri...") o mediata (bambole, trenino ecc.). L'ipotesi era dunque quella di un progressivo aumento della componente competitiva con l'età.

   A questo punto però il ruolo della dialettica era esaurito, era tempo di fare delle esperienze. E quindi era anche il momento di assumere una ipotesi di lavoro, che di fatto è una ipotesi educativa e culturale.

DARWIN E KRUPP

   Schematicamente la questione viene presentata così: la competitività è un fatto genetico o culturale?  Se chiedete a cento ragazzi chi è Darwin è probabile che almeno quaranta pensino a una nuova rock-star: eppure almeno novanta hanno sentito dire che "il più forte sopravvive" e sono pronti a giurare che si tratta di una legge naturale provata dalla Scienza. Ignoranza? Certo, ma l'ignoranza fa parte del gioco: sostituire la formulazione "il più forte sopravvive" a "l'ambiente seleziona i più adatti" non è una semplificazione a scopo divulgativo, è una vera e propria mistificazione.

   Intanto il "più adatto" non è affatto la stessa cosa del "più forte" così come se lo immagina un ragazzino di scuola media: con tutti i muscoli di fuori e magari verde come Hulk. L'altra falsa idea che passa con quello stereotipo è che gli animali siano perennemente in un atteggiamento soggettivo, emotivo, di aggressione nei confronti dei propri simili che sentono di dover eliminare per guadagnarsi un premio. In realtà il meno adatto si elimina "da sé" con la sua minore capacità di procurasi cibo o di sfuggire alla predazione. All’interno di alcune specie le lotte dirette avvengono solo tra maschi (!) per la riproduzione, e il premio in palio non è la propria sopravvivenza individuale, ma la continuità del proprio patrimonio genetico, fatto che si pone fuori dall’ambito della "intenzionalità soggettiva" (ricordiamoci che parliamo di istinti) del singolo animale.

   E chi ha detto poi che questo discorso, che abbiamo tentato di rimettere nei termini corretti per gli animali, valga anche per l'uomo? L'uomo si è di fatto sottratto alle leggi dell’equilibrio naturale, tanto che è l'unico a poterlo alterare; e si è sottratto al dominio degli istinti sul comportamento: ne è la prova migliore la capacità di porsi domande su questo argomento (comportamento in contraddizione con la definizione di istinto).

    Insomma anche se si può discutere su quanto grande è l'area di sovrapposizione tra "umanità" e "animalità", non si può negare che il discorso sulla competitività non può essere posto negli stessi termini "naturali" che per gli animali. Caratteristica dell’uomo è proprio quella "intenzionalità soggettiva" (chi vuole può chiamarla "volontà" "coscienza" o come altro gli pare) che pone il suo comportamento in una sfera diversa se non altro quantitativamente (e per molteplici ordini di grandezza) da quella della specie e della ereditarietà.

   C'è poi un'altra buona ragione per scartare l'ipotesi della competitività (del sentimento della competitività non della competizione per le risorse) come fatto "naturale", che è poi la ragione decisiva: è un'ipotesi che non porta da nessuna parte, se non alla rassegnazione, all’acquiescenza. Un modo di pensare che, di fronte alla guerra o, ancora più assurdamente, di fronte ai preparativi a freddo di una situazione di guerra e di distruzione totale, giustifica come "naturale" e soprattutto lascia fare, è un modo di pensare che sicuramente fa comodo a chi fabbrica cannoni.

SE A MORRA GIOCANO I CINESI CHI VINCE NON È IL PIÙ FORTE

   La pietra rompe la forbice, la carta avvolge la pietra, la forbice taglia la carta: sono le regole della "morra cinese". I simboli vengono rappresentati con la mano: i due giocatori giocano un simbolo alla volta, contemporaneamente.

   Naturalmente il prof, che è un po’ monomaniaco, la morra cinese la vedeva come una struttura matematica, definita, così sosteneva lui, dalla relazione "x batte y" (con x e y appartenenti all’insieme {pietra, carta, forbice}). Perciò i ragazzi della 3a G su un gioco che sembrava così semplice finirono per lavorare ore e ore. Si scoprivano cose interessanti però: per esempio che "perdere" non è affatto l'inverso di "vincere", almeno matematicamente. Meno male che nei momenti di pausa si poteva giocare a morra cinese.

   La cosa più strana saltò fuori quando analizzando la relazione d'ordine si scoprì che da essa non scaturiva una graduatoria, una gerarchia. Normalmente una relazione del tipo "x supera y in..." o "x è più... di y" porta a costruire un ordine in cui c'è un primo elemento che è quello che supera tutti gli altri, un secondo che supera tutti tranne il primo ecc. Detto matematicamente queste relazioni sono "transitive": se x supera y e y supera z, allora x supera z. La relazione "supera" nella morra cinese non è invece transitiva: se pietra supera forbice e forbice supera carta, non è vero che allora pietra supera carta".

   La matematica ha un senso se è una rappresentazione, astratta quanto si vuole, di rapporti che nella mente umana si stabiliscono tra elementi della realtà: la scoperta della non transitività della morra cinese voleva dire la scoperta che vincere non è necessariamente essere superiori in assoluto, che il motivo di una vittoria (aver giocato pietra contro forbice) diventa esso stesso motivo di sconfitta (la stessa pietra contro carta), voleva dire relativizzare i rapporti di supremazia, minare la base "matematica" di quel senso di sicurezza che più o meno consciamente viene ricercato nello stabilirsi di rapporti di forza.

LA 3a G COSTRUISCE UN "GAME"

   La realizzazione della versione computerizzata del gioco della morra non era servita per rispondere a un profondo bisogno dei ragazzi della 3a G di giocare a morra con il computer, o del loro insegnante di evitare l'accusa di trasformare la scuola in un bar. Era stata una prima esperienza pratica di costruzione di un gioco elettronico che era servita da una parte a demitizzare il "video-game" come oggetto meraviglioso e pressoché magico e dall’altra a fare i conti con i problemi di progettazione e di programmazione.

   L'uso del linguaggio LOGO aveva permesso di scomporre il progetto complessivo in componenti sempre più semplici, di affidare a ogni gruppo la costruzione di un pezzo del progetto, di utilizzare una rappresentazione grafica che facilitasse il rendersi conto della collocazione del proprio lavoro all’interno del progetto complessivo e il seguire le operazioni di assemblaggio finale.

   Le difficoltà insite nella realizzazione di questo gioco avevano portato all’acquisizione "in situazione" di una serie di strumenti concettuali e linguistici (variabile-valore, predicato-argomento, scelte condizionate, strutture gerarchiche ecc.) che costituivano un grosso passo in avanti non solo nella capacità di programmare un computer, ma in generale a livello cognitivo. Insomma la 3a G era pronta per progettare e costruire un videogioco tutto suo.

Senza titolo-3.jpg   Come punto di riferimento fu assunta la "matrice" della morra cinese (figura).

   I ragazzi dovevano utilizzare questo modello modificandone i contenuti, cioè ridefinendo il campo di valori delle giocate e quello dei valori corrispondenti a tutte le combinazioni possibili di giocate. L'idea era quella di simulare, seppure in maniera estremamente schematica, i comportamenti di due Stati (valori delle giocate) e le relative conseguenze (valori corrispondenti alle combinazioni di giocate).

   Sui possibili comportamenti degli Stati le proposte furono più o meno convergenti su due varianti: una a due soli valori, definiti come "attacco nucleare a sorpresa" e "iniziativa diplomatica", e una a più valori, come ad esempio "attacco a sorpresa", "preparativi di difesa", "offerta di trattative".

   Il dibattito vero fu sulla definizione delle conseguenze e sulla attribuzione dei punteggi a ciascuna di esse. La naturale tendenza del "pensiero concreto" dei ragazzi a ragionare più sul referente reale che non sulla struttura del modello portò i ragazzi a fare i conti con la realtà della politica e della storia, o meglio con l'immagine che di esse abbiamo.

   Il discredito internazionale, cui va incontro uno Stato che attacca di sorpresa mentre l'altro presenta un piano di pace al tavolo della trattative, conta più o meno del vantaggio militare acquisito?       L'esigenza di estrema semplificazione imposte dalla forma gioco potrebbe a prima vista sembrare un ostacolo alla profondità della riflessione; invece la necessità di rappresentare con un unico punteggio una situazione, che gli interventi stessi dei ragazzi mostravano sempre più complessa, costrinse a valutare il peso relativo e i rapporti reciproci tra le variabili in gioSenza titolo-2.jpgco, con un impegnativo lavoro di analisi e di sintesi.

   Fu elaborata alla fine la seguente matrice (figura). Ai termini "vittoria" e "sconfitta" è attribuito un significato di vantaggio o svantaggio acquisito da quello Stato, indipendentemente dall’altro: in altre parole se uno Stato "perde" non è detto che l'altro "vinca".

   Anche qui all’estremo schematismo non corrisponde affatto una semplificazione delle questioni in gioco, né tanto meno a un arresto della riflessione e del dibattito. Proprio la semplicità della matrice dà la possibilità di cogliere la situazione con un unico sguardo sintetico. Si vede allora che le strategie possibili per i giocatori, che impersonano gli Stati, sono essenzialmente due: se sceglierò di giocare "pace" il mio avversario "vincerà" comunque, mentre l'alternativa per me è tra il rischio di "perdere" e la possibilità di "vincere" con lui, alternativa che sta nelle mani del mio avversario; se scelgo di giocare "guerra" il mio avversario "perderà" comunque, mentre per me l'alternativa è di "vincere" contro di lui o di "perdere" anch'io".

   La discussione che si era subito aperta tra alcuni dei ragazzi su quale fosse la strategia migliore era servita appunto a mettere in evidenza il significato profondo delle diverse strategie al di là anche del gioco: la recente vicenda del dirottamento della nave "Achille Lauro" offriva riferimenti interessanti con la contrapposizione tra i progetti di attacco militare legati alla "fermezza" e la strada delle trattative a ogni costo per salvare la vita degli ostaggi.

   Come ogni discussione però il rischio era quello della contrapposizione ideologica con chiusura sulle posizioni di partenza. Proposi perciò di riprenderla solo dopo aver acquisito qualche dato in più che ne allargasse la base di esperienza. In questo caso l'esperienza poteva essere quella dei comportamenti reali dei giocatori. Aggiunsi al progetto del gioco una registrazione delle giocate e dei risultati che potesse fornire materiale per una successiva osservazione e riflessione.

   Oltretutto la funzione di mezzo di registrazione, di memoria affidabile, giustificava l'uso del computer per un gioco che si poteva benissimo giocare anche senza la macchina. Ai ragazzi naturalmente non serviva nessuna giustificazione per motivare l'uso della macchina, e rimaneva comunque il valore specifico, a livello di abilità, del lavoro di progettazione e programmazione dell’automa, ma a me comunque non piaceva creare un'abitudine al computer, che deve invece essere uno strumento finalizzato.

   La realizzazione del gioco prevede partite di dieci giocate. A ogni giocata i due giocatori in modo indipendente comunicano alla macchina la loro scelta: il computer garantisce la segretezza non facendo neppure comparire sullo schermo il simbolo giocato, che invece custodisce nella sua memoria elettronica. Una stampante riporta su carta tutti i dati di una partita: scelte dei giocatori a ogni giocata, punteggio realizzato in conseguenza di quelle giocate secondo la matrice, punteggio accumulato complessivamente, fino alla decima giocata.

attacco o trattative

   Ciò che segue è il resoconto dello sviluppo che il gioco è andato assumendo attraverso le successive partite e le riflessioni che i ragazzi facevano osservando, come avevo loro suggerito, i dati stampati. È la storia di ciò che è avvenuto nella 3a G ma mi sembra emblematico di un percorso di riflessione significativo e generalizzabile.

   Le prime partite, a parte pochi ragazzi che già hanno individuato una propria strategia, registrano un alternarsi abbastanza casuale di "attacchi" e di "trattative" nelle giocate di ciascun giocatore, con una leggera prevalenza dei primi. I punteggi complessivi alla fine di queste partite sono 5 a 4, 5 a 6, 5 a 5 ...

   In una seconda fase si registra un aumento delle scelte di "attacco" e i punteggi complessivi si allontanano dalla parità a favore di chi ha giocato di più "attacco": 5 a 2, 7 a 2, 9 a 3, 7 a 0. Sembra il trionfo dell’apprendimento per prove ed errori: la "selezione naturale" premia la strategia vincente. Si diffonde la voce tra i ragazzi che per vincere si deve giocare sempre "attacco".

   A questo punto la svolta: i punteggi tornano in pareggio: 1 a 1, 0 a 0 dopo dieci giocate. I ragazzi realizzano che nel momento in cui una strategia vincente è patrimonio di tutti non è più vincente. Ma c'è di più.

   Riporto la loro attenzione sul significato del punteggio complessivo, perché si è perso nell’agonismo e anche perché la sua struttura mette in evidenza l'accumulo di uno dei due tipi di risultato mentre maschera l'accumulo dell'altro. Secondo il codice stabilito nella fase di costruzione, in cui era stato sintetizzato il rapporto tra il modello-gioco e la realtà rappresentata, finire a 0 punti significa aver accumulato dieci "sconfitte", cioè dieci situazioni di svantaggio per la propria nazione, che vanno dalle distruzioni materiali alla perdita di prestigio e credibilità internazionale.

   Segue una fase di incertezza in cui mentre qualcuno cerca ancora di battere l'avversario giocando "attacco", altri riconoscono la necessità di uscire dallo stallo dello 0 a 0 e tentano qualche "trattativa", senza una strategia; e così sono questi ultimi a essere frustrati da quelle che considerano sconfitte per 1 a 3, 0 a 2 ecc.

   Poi si verifica un 10 a 9 ed è una partita chiave sia per il suo contenuto specifico sia perché sposta il piano della riflessione collettiva a un livello molto più analitico. Da qui in poi ogni partita diventa significativa perché rende visibile l'evolversi delle strategie, le intenzioni dei giocatori e il modificarsi del loro comportamento nel rapporto con il comportamento dell'altro.

PIRRO: CHI ERA COSTUI ?

   Ma come mai quel 10 a 9 ? È successo che i due giocatori, raccogliendo il messaggio sul significato dei punteggi bassi, si sono messi d'accordo per giocare sempre "trattative", garanzia del massimo punteggio. Soltanto che uno dei due non ha resistito alla tentazione di superare l'avversario e all’ultimo ha giocato "attacco" facendogli perdere un punto. I ragazzi sembrano trascurare del tutto l'entità del punteggio raggiunto e ciò che significa nel codice del gioco, e si lasciano colpire invece dal rapporto tra i due giocatori, dalla sconfitta o vittoria relativa. Le partite successive dimostrano che è passato il messaggio “se giochi ‘trattative’ sei fregato”.

   Sono deluso, ma mi trattengo dal fare una predica: gioco invece una partita in cui ostentatamente scelgo sempre "trattative". Finisce 7 a 10 : i ragazzi commentano naturalmente che ho "perso", ma io, attraverso la drammatizzazione del "discorso del Presidente alla nazione", faccio loro notare che la mia nazione ha totalizzato una quantità di vantaggi superiore a quelli ottenuti in qualsiasi loro partita "vinta", cioè sposto il metro di giudizio dal rapporto di supremazia nei confronti dell’avversario al valore di un certo comportamento nei confronti del "benessere nazionale".

   La cosa non va subito liscia perché c'è chi dichiara di preferire comunque un 1 a 0 perché "almeno c'è la soddisfazione di aver battuto l'avversario". Le partite successive mostrano dinamiche più complesse, anche perché si è introdotta una variante. Conoscere solo alla fine della partita le mosse fatte dell’avversario porta a concentrare l'attenzione sulla strategia delle proprie scelte ma non dà una realistica simulazione del rapporto dinamico con le scelte dell’avversario. Si è deciso perciò di mantenere la registrazione complessiva stampata su carta dei dati dell’intera partita, ma in più di far comparire sullo schermo a ogni giocata le scelte fatte, il punteggio relativo e il punteggio accumulato fino a quel momento. Ogni giocatore dunque gioca in base al feed-back immediato del risultato delle proprie scelte.

   Una partita tipica di questa fase inizia con il giocatore A che  gioca "attacco" e il giocatore B "trattative": il risultato è 1 per A e 0 per B. Il giocatore B, visto l'esito negativo del suo approccio, nella seconda giocata sceglie "attacco" per tentare di recuperare lo svantaggio, ma nel contempo A, accettando l'invito di B a puntare su una "trattativa" che faccia guadagnare punti a entrambi, passa a giocare "trattativa". Si pareggia così la situazione precedente. A questo punto entrambi decidono di "mettersi le spalle al sicuro" come punteggio e giocano entrambi "attacco": il risultato è 0 a 0 e il punteggio complessivo resta sull'1 a 1. Vista la scarsa efficacia della scelta precedente entrambi, sempre indipendentemente uno dall'altro, decidono di "fidarsi" e giocano "trattative" guadagnando 1 punto a testa. Alla giocata successiva però nessuno dei due sa rinunciare al tentativo di acquisire un vantaggio rispetto all’avversario, col risultato che nessuno dei due incrementa il punteggio. E più ci si avvicina alla fine più forte e la paura di essere battuti senza poi poter recuperare e così il punteggio finale è un disastroso 3 a 3, senza neppure la soddisfazione di aver superato l'avversario.

   Insomma la preoccupazione della supremazia nei confronti dell’avversario continua a prevalere rispetto all’attenzione all’accumulo dei propri vantaggi.Ma mi viene da pensare che forse il secondo elemento è marginale proprio perché appartiene più al terreno delle riflessioni sul e attorno al gioco. Provo allora a ricollocarlo dentro l’ambito del gioco vero e proprio proponendo una specie di torneo in cui ognuno giocherà due partite con avversari diversi e alla fine si terrà conto dei punti accumulati da ciascun giocatore.

Nel linguaggio della simulazione, ogni Stato attraverserà due “crisi” e si vedrà alla fine quale Stato ne uscirà nella situazione di maggior vantaggio. Dal punto di vista della condotta di gioco si tratta di promuovere una visione di gioco più larga e con obiettivi meno immediati: si rende necessario anche un nuovo strumento di monitoraggio sotto forma di un tabellone che registra la situazione aggiornata dei punteggi.

E GLI SCONFITTI SARANNO VICITORI

   All'inizio non succede nulla di nuovo, anzi si parte con uno 0 a 0 (entrambi i giocatori hanno scelto per dieci volte "attacco"), che spinge il prof sull’orlo di una crisi depressiva; ma poi sempre più persone decidono di rischiare giocando "trattative". Nel totale delle otto prime partite ci sono 63 giocate di "trattative" su 160 (39%), nella seconda tornata esse aumentano a 108 (67%).

   Poiché per la struttura del gioco i punti si realizzano solo in corrispondenza delle giocate "trattative", la scelta dei ragazzi viene premiata con un aumento corrispondente dei punti complessivi, 108 contro 67 appunto. Quello che nessuno aveva previsto e che sconvolge tutta la filosofia del gioco è che questo aumento di punti va a vantaggio di chi ha giocato “trattative”.

    Se si guarda la matrice dei risultati, la scelta delle “trattative” è perdente (o si pareggia o si perde), mentre chi gioca “attacco” pareggia o vince. Questo porta a prevedere che un aumento complessivo delle giocate “trattative”  porti sì a un aumento dei punti realizzati, ma a favore di chi gioca “attacco”. E invece la classifica finale ci dice in modo chiaro il contrario: i primi cinque per punti accumulati in due partite (rispettivamente 18, 16, 15, 15, 14 su 20 possibili, mentre quelli che hanno giocato più volte "attacco" (20, 15, 12 volte su 20) hanno i punteggi più bassi (rispettivamente 0, 6, 8).

   Certo a livello individuale qualche scompenso c'è. Antonio, che ha giocato trattative 17 volte, ottiene 15 punti come Lino che le ha giocate solo 12 volte, frequenza quest’ultima che a Marco ha fruttato solo 10 punti, ma a livello complessivo i risultati sono incontrovertibili. Da notare anche, in questo capovolgimento finale, che tre dei primi cinque in classifica, e tra questi il primo, non hanno vinto neppure una delle due partite (un pareggio e una sconfitta).

   Alla fine i ragazzi dimostravano di accusare decisamente il colpo dell’inattesa conclusione, ma io non credo molto alle conversioni improvvise (Paolo di Tarso mi perdoni); mi aveva convinto di più lo spostamento progressivo della loro strategia di gioco verso le “trattative”. Comunque sarebbe stupidità più che presunzione dedurre dal finale che questo lavoro è riuscito a mutare il loro atteggiamento da competitivo e bellicoso in collaborativo e pacifico

   Un insegnante ligio ai dettami della “programmazione curriculare” avrebbe a questo punto attuato una verifica "scientifica"; ma io non lo sono, come dimostra lo sviluppo di questo lavoro che è quanto di meno programmato si possa immaginare, perciò non sono in grado di dire oggi quali cambiamenti si siano verificati nei ragazzi (del resto anche lui, il “ligio”, non lo avrebbe scoperto, con la differenza di presumere il contrario).

   Alla fine di un’esperienza come questa è difficile sentirsi soddisfatti. Anche se non fossi convinto che i meccanismi che presiedono i destini del mondo sono sempre più inaccessibili, sarebbe enorme e difficile anche soltanto il compito di creare una mentalità di pace, sia pure tra i bambini. Verrebbe da concludere che abbiamo il mondo che ci siamo creati, tanto radicati sono nella nostra cultura i presupposti di un modo di affermare se stessi e di risolvere i rapporti conflittuali attraverso l’annientamento dell’altro.

  Eppure, se invece di guardare verso l’obiettivo troppo splendente, con il risultato di accecarmi, mi volto a guardare il cammino comunque fatto, allora mi riprende quell’assurda fiducia vetero-illuministica che vede una possibilità e che passa attraverso la liberazione dai condizionamenti e dagli stereotipi.

   E sono convinto che, anche se il tipo di lavoro fatto nella 3a G ha interessato solo una modalità particolare del proprio rapportarsi con la realtà e con gli altri, e che quindi difetta di quella globalità che un'educazione alla pace richiede, pure, anche in questo caso di coinvolgimento prevalentemente razionale, la chiave sta nell’esperienza, nel creare occasioni per sperimentare, per mettersi alla prova in un confronto problematico con una situazione, per ricercare e costruire la propria razionalità.