Marcello Sala

IL FILO

- pubblicato in-   

COOPERAZIONE EDUCATIVA n. 6-7 / 1988

La Nuova Italia

 

Un insegnante e i suoi ex alunni

 

Un filo

tanto sottile

da essere invisibile

a chi lo cerca

un filo segreto e indocile

un filo tenace e delicato

attraversa il tempo e le storie

le dimenticanze e i malintesi

la pigrizia e la paura.

Per nascondere la mia lontananza

pensavo che voi

foste ormai lontani

al di là dell'amore

e dell'amicizia.

Ma forse c'è qualcosa

che ci portiamo dentro

e che nessuno di noi da solo

può lasciar morire

perché è di tutti

non ci appartiene.

Noi gli apparteniamo

ci può ritrovare

anche se non sappiamo trovarlo

(dicembre 1980)

 


Iscriversi alla facoltà di legge per diventare giudice ai miei occhi non è cosa “normale”, soprattutto oggi. Perciò chiesi a Luca di scrivere un articolo per Cooperazione Educativa che ricostruisse il rapporto tra questa sua scelta e il suo passato scolastico, a partire da quei tre anni nella scuola media di Via Cagliero. Pensavo che sarebbe stato interessante per degli insegnanti specchiarsi nel futuro che contribuiscono, o si illudono di contribuire, a costruire attraverso i loro alunni.

Ma la scrittura di Luca [1] fu per me qualcosa di più: una provocazione che mi costringeva a fare i conti prima di tutto con l'immediatezza dell’esperienza vissuta, creando in me una tensione alla verità, una sensibilità a riconoscere e distinguere le razionalizzazioni a posteriori, che servono a nascondere, dalla razionalità di un più maturo sguardo all’indietro che serve per capire.

E ancora una volta ebbi desiderio di loro, dei “sopravvissuti” della 3a H. Decisi che avrei usato come provocazione anche nei loro confronti il viaggio di Luca nella propria memoria, perché potessimo tornare a parlarci, a stare insieme. E come ogni volta il desiderio era compagno della paura: paura di avere di fronte degli sguardi estranei che ti chiedono cosa vuoi da loro. Quel riferimento comune di esperienza che è stato il vivere tre anni insieme è ancora una realtà quando su di esso si sono stratificate le storie di ciascuno di noi e frapposti i veli colorati della memoria? È possibile un ricordo collettivo? Ed è possibile parlarne? È una fuga dalla realtà o è la verità da cui fuggiamo? o che altro?

Ma è nel nostro incontrarci di nuovo che ritrovo la realtà del nostro rapporto, come un qualcosa di imprevedibile, che può crescere senza che facciamo coscientemente nulla per farlo crescere.

Il desiderio di scrivere di questa nostra storia viene come conseguenza dell'incontro di due passioni. Ma il "rischio della scrittura" porta con sé altri dubbi: è possibile consegnare questo nostro essere insieme a qualcun altro attraverso la scrittura? E poi non ce la sentiamo comunque di parlarne oggi in modo critico e distaccato, di frapporre ancora un altro filtro; preferiremmo ricostruirlo attraverso le sue tracce indelebili, i suoi documenti originali, con la trascrizione dai nastri magnetici delle nostre conversazioni, togliendo solo qualche "cioè..." di troppo e censurando qualche parolaccia. Ma è possibile che il dialogo si sostenga attraverso la scrittura senza i nostri sguardi? E, se è possibile, che senso ha per noi?

Sono domande cui non sappiamo rispondere; eppure quando chiedo ai ragazzi se lo vogliono la risposta è semplicemente “sì”. Il perché sta forse in quel "coraggio di un’utopia" di cui parlava Giovanna Minasi nella sua lettera alla redazione di Cooperazione Educativa [2].

Ma sono io che ora trovo così difficile scrivere, dare alla luce l’eros che sta sotto questo rapporto “fuori tempo” tra un insegnante e i suoi ex-alunni.

DIALOGHI SULL’AMORE

La scena si svolge nel soggiorno di una casa moderna, arredata con evidente senso della geometria, con molti oggetti di origine naturale o costruiti artigianalmente. Una nuvola di fumo ondeggia nella stanza; l'aria che entra da una finestra semiaperta, a giudicare dagli atteggiamenti dei presenti, è quella di una gelida sera di febbraio. I sette personaggi siedono in circolo: Beatrice, Giacomo, Luca, Micol su un divano e su due poltrone, Claudia e Marcello sulla moquette marrone che ricopre il pavimento, Mario su una sedia, un po’ in disparte fuori dal cono di luce; Claudia appoggia la testa sulle ginocchia di Luca. Per terra, al centro del circolo, un microfono collegato a un registratore. Quando la scena inizia Claudia sta concludendo un lungo intervento.

Claudia: <<...non esiste un ambiente in cui io sono completamente me stessa. Anche nella nostra esperienza di teatro... probabilmente mi aspettavo di ricreare l'ambiente delle medie, e mi sono invece sentita costretta a vivere solo una certa parte di me. Lì mi sono resa conto di questa divisione, ma in fondo oggi la vivo abbastanza bene, perché ciò che sto cercando è una persona, non un ambiente, con cui essere veramente tutta me stessa. In questo senso ero innamorata della 3a H allora, in tutti i suoi aspetti e persone.>>

(nella pausa che segue tutti sembrano riflettere sulle parole di Claudia)

Marcello (con voce un po’ sovratono, quasi cercando la provocazione): <<Io ho dei dubbi su questo. L’amore è il momento in cui sei meno te stesso, è il massimo dell’essere fuori di te...>>

Giacomo (enfaticamente, agitandosi sulla poltrona): <<Come sono d'accordo!>>

Luca (con insolita forza): <<Io non sono d'accordo>>

Marcello (la sua voce è più sicura ora): <<È il momento in cui perdi te stesso, a cominciare dalla tua libertà.>>

Claudia (con un sorriso incredulo, e a voce alta): <<Non è vero!>>

Marcello (sembra seguire un filo che gli si dipana dentro): <<È il momento in cui cambi di più, in cui esci più da te stesso e diventi un’altra cosa. .>>

Luca (sconcertato): <<Puoi spiegarti meglio?>>

Marcello: <<Insomma, cercando di semplificare...>>

Luca (illuminandosi improvvisamente di un sorriso): <<Questa è la seconda puntata del treno!>>

I visi di Micol, Claudia, Mario, Giacomo e Marcello si aprono in una risata; Beatrice guarda interrogativamente i volti degli altri.

 

Fine delle vacanze di Pasqua del 1980, viaggio di ritorno dalla Garfagnana. Nel corridoio del treno, affollato all’inverosimile, Micol, Mario, Luca, Claudia mi si stringono intorno; ogni persona che passa disperde il gruppo in un groviglio di membra e bagagli e strappa una smorfia di dolore a me che tento invano di proteggere il mio braccio bendato al collo; e subito dopo, come mosche momentaneamente allontanate dal miele, il gruppo si riforma immediatamente senza che la tensione evidente che lo aggrega sia stata interrotta o turbata.

Mi interrogano sull’amore, sul loro amore, con una serietà indifesa: "Ma si può fare l'amore anche nell’acqua?" "Come si fa a distinguere l'amore dall’amicizia?". E io mi sento forse per la prima volta nella pienezza di questo ruolo (ruolo? professione? mestiere... mi accorgo ora che non esiste la parola giusta) di educatore. Era questo che cercavo, che intuivo, quando senza nulla sapere, me lo sono scelto. Mi sento felice per essere stato scelto, "Pensiamo che tu abbia l'esperienza dell’amore", e un irresponsabile amor proprio si intreccia alla responsabilità del potere che in questo momento ho su questi ragazzi quindicenni, senza che abbia il tempo di dipanarli. Sono giovane, non ho ancora imparato che i veri maestri si scherniscono quando il loro insegnamento rischia di confondersi con il loro carisma personale e preferiscono insegnare quando i loro allievi non hanno bisogno di loro.

Rispondo alle domande così come loro si aspettano da me, con le mie esperienze personali, anch'io senza difese, ma anche senza perdere la lucidità delle parole, cosciente di dovermi affidare a questo veicolo infido. La naturalezza e l'innocenza del nostro dialogo, incurante della pubblicità e incongruenza del luogo, non può che essere provocatoria, come dirà poi Norberto, seduto per tutto il tempo nello scompartimento dietro le mie spalle, accanto a due signore per bene molto scandalizzate: "Così piccoli!...".

Marcello (respirando forte come per vincere una reticenza): <<Il più grande amore della mia vita è quello che mi ha sconvolto di più, nel senso proprio di farmi cambiar vita. Le cose che prima mi interessavano non mi piacevano più, e me le sono gettate dietro le spalle per ritrovarmi con questa persona su altri piani. E questo mi ha creato poi grossi problemi quando è venuta meno la grande tensione dell’innamoramento: scoprivo che i nuovi interessi in realtà erano legati a quella persona e non erano profondamente miei come quelli che avevo vissuto per vent’anni. Quello che subisci è un grosso sbandamento prima di riuscire a rientrare in te stesso; a meno che la nuova situazione non sia durata così a lungo da fare in tempo a cambiarti veramente. Anche l'amore per la 3a H l'ho vissuto come un'uscita da me stesso.>>

Giacomo (sornione): <<Io sono d'accordo con te, ma vorrei sapere una cosa: quant’è il tempo necessario per riuscire a cambiare.>>

Marcello (sovrastando lo scoppio di risa e indicando Giacomo): <<Lui non c'era sul treno.>>

Giacomo (schernendosi): <<No, io ero fuggito: questo me lo ricordo bene.>>

Luca: <<Dipende tutto da che cosa intendiamo con "essere te stesso". Una cosa è continuare ad essere quello che eri prima dell’incontro; altra cosa è rileggere la tua storia, quindi anche gli amori che ti sconvolgono, prendendo coscienza di una tua nuova identità.>>

Marcello: <<È chiaro che sei sempre tu il soggetto del cambiamento. Proviamo a dirlo in altri termini: tu sei in equilibrio con te stesso, un equilibrio dinamico fatto di piccoli spostamenti dalla posizione centrale; se lo spostamento è grosso, il riassestamento è più difficile, comporta oscillazioni su posizioni contrastanti e anche il rischio di cadere fuori equilibrio. Il peso che devi spostare è costituito dalla tua storia, perciò più è pesante la tua storia e più difficile è il riassestamento.>>

Mario (quando la sua voce si inserisce nel cerchio di luce, tutti si voltano verso di lui come se si fossero dimenticati della sua presenza): <<Ci sono punti in cui devi scegliere se rompere con la tua storia o portartela dietro... portandola avanti. Ma non ha senso aver costruito per anni qualcosa per poi buttarlo via. Una persona che cerca qualcosa non può cambiare tutto perché nella sua vita arriva un’altro.>>

Claudia (col tono di una protesta che ha trovato appoggio nelle parole di Mario): <<L'essere me stessa sono le mie idee, le cose cui tengo, i miei principi. Io mi accorgo immediatamente che il mio rapporto con una persona non può andare avanti se mi costringe a cambiare qualcosa di me.>>

Beatrice (con l'aria di non potersi trattenere più a lungo dall’intervenire): <<Quando Claudia diceva "cerco l'amore" intendeva "cerco una persona che mi accetti per tutto quello che sono", una persona davanti alla quale anche se mi spoglio non provo nessuna vergogna. La vostra (guarda Marcello e Giacomo) è una visione nichilista dell’amore. Amore è lasciarsi andare completamente e dire "io e te viviamo come un’unica persona, cresciamo assieme". Crescere assieme vuol dire anche passarsi delle emozioni, comunicarsi delle cose, ma è un vero e proprio crescere, per cui se tu impari, per amore di una persona o per amore della 3a H, che sono belle anche altre cose che prima non conoscevi, è una tua crescita interiore. Quando cresci, non hai buttato te stesso diventando un altro per amore.>>

Claudia: <<È un evolversi. E poi ormai io sono grande... (la sua voce viene soverchiata dall’improvviso scoppio di risa e dai lazzi dei compagni; lei sorride, poi riprende con convinzione) ormai ho delle idee radicate in me, e comunque sia sento che non riuscirò a cambiare: piuttosto tronco, non riesco a convivere con questo conflitto interiore; perché sono io che sono in conflitto, non è l'altro che mi ci costringe. Rispetto all’altro sono disposta a delle mediazioni, non a degli stravolgimenti.>>

Luca (fissando Marcello): <<Dicci cosa stai pensando!>>

Marcello (dopo una pausa in cui gli occhi di tutti si volgono verso di lui): <<Non vorrei, perché sto per dire la battuta scema “da grande”: "ne riparliamo tra dieci anni". Questo che fate è il discorso del “prima”: nessuno è disponibile al ricatto di un altro che ti chiede di rinunciare a una serie di cose tue per stare con lui. In realtà le cose non si presentano così, quanto piuttosto tu ti ci trovi dentro senza riuscire a controllare quello che ti succede. Insomma l'amore... anzi l'innamoramento: cominciamo a chiarire i termini...>>

Luca (interrompendo con voce seriosa): <<Francesco Alberoni sostiene... (la risata che segue sembra sciogliere la tensione) poi passiamo all’erotismo che è più... (la fine della frase si perde tra le risa)>>

Marcello (quando riprende il suo tono è disteso ma convinto): <<Quello che dico non ha nessun valore “didattico”: lo dico come esperienza personale, uno può percorrere altre strade. L’innamoramento è una situazione in cui ti rendi conto che ti perdi per l'altro. E non è che decidi di abbandonare il tuo mondo per non perdere quella persona, ma perché sei convinto che lei ti ha fatto scoprire qualcosa di meglio. E ciò accade perché tu cerchi ciò che ti manca; sei attratto e ti innamori di una persona che è diversa da te, perché ha ciò che non hai e di cui improvvisamente senti la mancanza, anche se prima non ne eri cosciente.>>

Luca: <<Per tornare alla 3a H, nel mio caso ha spostato il baricentro e finora non sono riuscito a ritornare alla posizione di equilibrio, se non parzialmente e limitatamente nel tempo.>>

Marcello: <<Il mio innamoramento per la 3a H ha portato a un equilibrio nuovo, forse perché è durata tanto e perché ero più giovane, più che per età per il fatto che la mia storia si può dire che cominciasse lì. Nel caso del mio grande amore lo sbilanciamento è stato più violento ed è durato troppo poco per le mie capacità di cambiamento. (con ironia nella voce ma non negli occhi) Peccato! perché mi piacevo di più quand’ero sbilanciato.>>

Giacomo (con voce distesa): <<Probabilmente dipende anche da come finisce l'amore. Nel caso della 3a H non è finita per una rottura, per la scoperta di una incompatibilità, ma per una causa esterna come la fine della scuola, che ha tolto il terreno su cui si reggeva l'esperienza comune.>>

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MITO O STORIA?

La mia reticenza a scrivere è semplicemente paura dell’eros o coscienza che una scrittura “erotica” non si improvvisa? E poi chi mi garantisce da me stesso? ciò che scriverei sarebbe la storia vera di questo rapporto o una mia fantasia che neppure gli altri del gruppo riconoscerebbero come propria? Ecco perché avrei preferito lasciare che questa storia si scrivesse da sé, attraverso i documenti originali. Sarebbe stato di più un raccontare collettivo, nato nel momento in cui questo rapporto veniva vissuto collettivamente, e non individualmente razionalizzato o mitizzato.

Nella registrazione di quell’incontro a casa mia, nel febbraio '86, sette anni dopo la fine della 3a H, trovo forse una risposta non solo mia ai miei dubbi.

Marcello: <<Quando ho chiesto a Luca di scrivere del legame tra le scelte di oggi e le esperienze scolastiche di ieri, la ragione immediata era la sua scelta inconsueta e importante di studiare per diventare giudice, ma più o meno esplicitamente, e anche con una certa paura, volevo verificare se la mia memoria della 3a H era un mito o se aveva un fondamento “storico”. Per me era stata un’esperienza molto grossa, sia legata a voi, sia ad altre vicende di quel periodo che gravitavano comunque attorno alla scuola di Via Cagliero, ma volevo cercare in voi un riscontro e avevo paura di scoprire che tutto apparteneva al mio immaginario.>>

Claudia: <<A me è capitato di rileggere la mia agenda del '84 dove, per un certo periodo, scrivevo quello che mi succedeva e quello che facevo (ciò che pensavo si intravedeva anche se non lo scrivevo). Mi sono accorta con stupore che, anche se quelle cose non le ho mai dimenticate e non ho mai cercato di rimuoverle, non le ricordo come in realtà erano accadute, ma le ho già analizzate e riguardate con gli occhi di oggi. È già una memoria trasformata, filtrata, “matura”... Questo per dire che questo processo di filtrazione è presente in me, completamente inconscio, e sfugge al mio controllo. Probabilmente se avessi tenuto un diario durante la scuola media, riuscirei a rivivere i sentimenti autentici che provavo. Ho pensato che potrebbero aiutarmi i lavori fatti allora, ma credo che, anche se è vero che metto parte di me stessa in tutti i lavori che faccio, sono però sempre stati qualcosa fatto perché altri li potessero leggere: sono quindi stati filtrati all’origine. Trovo comunque, con rammarico per tutte le cose perdute e al tempo stesso con piacere per la scoperta di essere maturata, che non riesco in nessun modo a recuperare l'innocenza di quei giorni. Non so se sia brutto o bello ma è così. Non so neanche se era innocenza o qualcosa d'altro, ma ho la precisa sensazione che le cose che riuscirei a ricordare sono molto diverse da quelle che erano in realtà. Sta di fatto che probabilmente è troppo tardi per fare questo lavoro di recupero o forse lo è per me.>>

Marcello: <<Quando Claudia oggi parla della sua propensione di allora per la razionalità e la concretezza, io mi scopro sorpreso; non perché lei fosse irrazionale, ma perché ai miei occhi non appariva. Come insegnante non avevo la lucidità di capire quello che mi accadeva intorno; non l'avevo perché anche a me stava succedendo qualcosa di importante; e allora ciò che ai miei occhi caratterizzava Claudia all’interno della classe finiva per essere ciò per cui Claudia era importante per me: il fatto che era la più piccola e che veniva a sedersi sulle mie ginocchia. Ognuno finiva per assumere ai miei occhi una connotazione particolare; il problema è che finivo per vedere delle persone solo quell’aspetto ignorandone altri.>>

Giacomo: <<C'è una cosa in ciò che diceva Claudia prima che sento molto vera per me: probabilmente il ricordo di quella che è stata la nostra esperienza delle medie è molto vago. E questo accade, oltre che per il fatto banale che è passato tanto tempo, perché mancano a noi, non a Marcello, quelli che io chiamo dei “resti archeologici”ì della nostra esperienza, del materiale sul quale ripensare; ciò che conserviamo riguarda l’aspetto più scolastico. Mi dispiace tantissimo quando, ascoltando raccontare un episodio, mi accorgo che non lo ricordavo: mi mancano delle cose precise da rivedere con la mente. Il ricordo di quel periodo è magari bellissimo, ma generico. Se poi si tratti di un mito in fondo non m'importa nulla: in sostanza l'importante per me è che è stata una cosa collettiva, mito o no, che ci coinvolgeva tutti, che vivevamo tutti ogni giorno.>>

Marcello: <<Mito però è anche quello che ti crei su una serie di riti collettivi, un esaltarsi a vicenda, senza che alla immaginazione corrisponda una realtà.>>

Luca: <<Quell’immaginazione allora faceva parte della nostra realtà e come tale l'abbiamo vissuta.>>

Giacomo: <<L'importante comunque è che era una cosa condivisa, in modi e con atteggiamenti diversi, ma condivisa da tutti; questo era positivo.>>

I PAPÀ DI CLAUDIA

Nella mia crisi di oggettività avevo anche pensato di affidarmi a un documento “ufficiale”. La forma e l'occasione ne farebbero una fonte credibile, se non fosse che il contesto in cui fu scritto era esso stesso un “fuoriluogo”. La convulsa agonia finale, tra crisi della politica e riflusso, di una scuola "sperimentale" degli anni '70, cresciuta nella breve stagione della partecipazione e investita dal femminismo, non è certo un osservatorio esterno e distaccato.

Scuola media sperimentale di via Cagliero Milano, giugno 1979: RELAZIONE FINALE SULLA CLASSE 3a H

<<I bambini della 1a H che incontrammo ai primi di ottobre del 1976 mostravano quella che nel linguaggio degli insegnanti viene definita "difficoltà ad esprimersi": errori di ortografia, di grammatica, di sintassi, carenze nell’articolazione del discorso, e soprattutto "povertà di contenuti". In genere noi insegnanti delle medie a questo punto ce la prendiamo con gli insegnanti delle elementari e ci apprestiamo a rifare per altri tre anni quello che ad essi imputiamo di aver fatto senza successo per cinque.

Ma "esprimersi" significa esprimere se stessi, comunicare ad altri qualcosa di sé e prima ancora scoprire questo qualcosa dentro di sé. I bambini, nella scuola e fuori, vengono abituati a non esprimere se stessi ma a comunicare ciò che l'adulto si aspetta, ciò che serve a guadagnarne la simpatia, la benevolenza, la tolleranza. Il comportamento dei bambini che avevamo di fronte era legato a stereotipi come la preoccupazione di fare bella figura e la paura di essere giudicati. Il rapporto con l'insegnante si instaura sotto il segno ambivalente della paura e della furberia: "ti rispetto perché sei più forte, ma appena posso te la faccio".

In queste condizioni è chiaro che la comunicazione era bloccata: l’informazione che i ragazzi davano di sé attraverso il lavoro scolastico era estremamente reticente. L'unico modo per migliorare la comunicazione in tutti i suoi aspetti era di agire su questo blocco, aiutando i ragazzi a eliminare la censura sul proprio comportamento, a recuperare una spontaneità nel dire e nel fare.

Meno difese significa una maggiore disponibilità ad accettare esperienze in cui c'è da rischiare la propria partecipazione a livello sia culturale che emotivo; sincerità nella partecipazione, disponibilità al coinvolgimento aumentano la possibilità di entrare nel merito e nel cuore dei discorsi. È qui che uno comincia ad avere qualcosa da dire. Il modo di comunicare non è indipendente dal fatto che esiste qualcosa da comunicare, qualcosa di vero e personale, o dal clima in cui la comunicazione si svolge.

È difficile dire come possono gli insegnanti creare il clima favorevole; più facile forse dire che cosa evitare. L'insegnante ha comunque un rapporto asimmetrico con i ragazzi; lui è un adulto, con tutte le caratterizzazioni che questo status comporta: è protetto dall’istituzione di cui fa parte e possiede tutta una serie di strumenti culturali in più. È inutile negare questo superiorità: il problema è come usarla. Ad esempio, un insegnante che, dopo aver promesso un atteggiamento democratico, ricorre alle punizioni perché "si è superato il limite" del tutto soggettivo o estemporaneo della sua tolleranza, usa l'istituzione per difendere i propri privilegi e non come garanzia dei diritti di tutti; un insegnante che non gioca nella comunicazione gli stessi livelli di personalità, di sincerità, che richiede ai ragazzi, sta interpretando il proprio essere adulto non come una ricchezza, ma ancora una volta come una difesa e un privilegio.

L'atteggiamento che l'insegnante ha di fronte alle opinioni personali dei ragazzi è essenziale. I ragazzi sentono, al di là del comportamento apparente, se l'adulto è disposto ad accettare il confronto senza pregiudizi, cioè senza giudizi di valore a priori. Se riconosce dentro di sé la dignità e, attraverso di essa, il diritto all’espressione personale di tutti, allora l'adulto sarà rispettoso delle opinioni altrui anche se partecipa alla discussione con il peso della sua autorità culturale, il bagaglio quantitativamente superiore delle proprie esperienze.

Dal punto di vista della liberazione dell’espressione di sé, è più autoritario un insegnante che non critica le opinioni degli alunni, ma non mette mai in discussione la propria, che non uno che attacca alcune opinioni ma che lo fa nel merito e senza barare, mettendo in gioco veramente ciò che pensa e sente.

Naturalmente questo mette profondamente in crisi non tanto il ruolo dell’insegnante, ma la persona stessa dell’adulto nei suoi rapporti con i ragazzi. È ciò che è accaduto ad alcuni di noi; e chi non ha accettato di vivere la propria crisi, mettendo in gioco solo la professionalità di esperto della Materia e di tecnico della didattica, è rimasto ai margini o addirittura tagliato fuori dalla comunicazione con i ragazzi.

Anche per i ragazzi comunque il processo di liberazione dell’espressione di sé non è stato né breve, né facile, né privo di contraddizioni. Chiedevano continuamente, con una vena di incredulità "posso scrivere questo, dire quest'altro?" A Claudia capitò, la prima volta che riuscì a scrivere qualcosa di personale, di scoppiare a piangere: si sentiva esposta e indifesa nel darci in pasto qualcosa di suo. E molti continuarono, per più di un anno, a non volere che ciò che avevano scritto venisse letto pubblicamente.

Ma quand'anche fossimo riusciti a sbloccare i ragazzi per quanto riguarda il parlare e lo scrivere, li avremmo poi riprodotti a nostra immagine e somiglianza, cioè degli esseri con una grande testa e senza un corpo. La difficoltà, il disuso, il disagio a usare e capire l'immagine, il gesto, il suono, il contatto e, perché no, l'odore, indotti da questa scuola e da questa cultura dominante, costituiscono senza dubbio un impoverimento della nostra capacità comunicativa.

Educazione corporea per noi significa non solo conoscere e controllare il proprio corpo e il suo movimento, ma dare spazio alla sensibilità, all’emotività, a quelle potenzialità che sono patrimonio della persona, ma che non sono produttive o almeno razionalizzabili, affinché non vengano represse fino all’atrofia e al silenzio o fino all’esaltazione psicotica; affinché ognuno ne possa fare strumento  e contenuto di esperienze di comunicazione, anche se intraducibili perché irriducibili al linguaggio delle parole.

Claudia Luca 79 b

La necessità dell’educazione corporea non è stata per noi una scoperta frutto di elaborazioni culturali: si impose come bisogno di comunicazione al di là delle parole, a partire dal giorno in cui, assistendo a un saluto particolarmente affettuoso tra due insegnanti, i ragazzi reagirono con una sorpresa in cui lo sconcerto di non riuscire a incasellare l'evento nei loro stereotipi ("Ma...siete sposati?") non riusciva a nascondere un profondo interesse, una tensione emotiva, che era una pressante e incosciente richiesta.>>

Claudia aveva tre papà: quello originale, io e Luca. Così il suo “lessico familiare” esprimeva quello che oggi chiama "sconfinato bisogno di affetto come tale, indipendente dalle persone", un grande bisogno di verità e completezza nei rapporti.

I suoi occhi, aperti con solare fiducia sul mondo, non riuscivano a vedere segni che potessero discriminare persone che il suo affetto assimilava. La sua innocenza ancora si ritraeva sconcertata dall’accettare, e prima ancora dal credere, che non fosse possibile vivere con la corporeità dei gesti dell’infanzia quel desiderio che così naturalmente si ritrovava dentro.

Forse fu la figura di Alessandra, una professoressa che assomigliava più alla concretezza e alla quasi ovvia bizzarria di un personaggio di un libro di favole moderne, che aiutò Claudia, prima che fosse troppo tardi, a ritrovare l'affettuosa familiarità di un bacio. E la tenerezza dell’appoggiare il capo alla mia spalla fu poi solo il riprovare la rassicurante sensazione di accoccolarsi sulle ginocchia di un potere amico.

La titubante dolcezza di quei gesti ci impedì allora di comprendere fino in fondo il significato che assumevano in quel contesto: baciare un ruolo e sedersi sulle ginocchia di un’istituzione sono atti rivoluzionari.

Per me comunque fu l'inizio di tutto.

<<... ma fu solo dopo più di due anni che i ragazzi, e non tutti ancora, riuscirono a esprimere la propria emotività anche tra loro e non solo con gli adulti, vincendo le insicurezze e le paure; ma per questo ci volle il clima tutto speciale di un soggiorno all’isola d'Elba che trasformò una gita scolastica in una settimana di vita in comune.>>

BARBARA NACQUE UNA SERA...

E scivolo

L'estate aspettò a morire

aggrappandosi tenacemente

alle foglie ancora verdi

e l'aria trattenne ancora

il canto degli uccelli

e l'ultimo sapore del mare

Aspettavano per te

e forse tutti aspettavamo

al di là della distrazione

o dell'incredulità

Pochi furono i testimoni

ma tutti furono irradiati

quando dal fondo buio delle paure

dal pozzo freddo della coscienza

calda e luminosa

grande e generosa

pura e irragionevole

scoppiò la tua felicità

         (ottobre 1978)

Barbara era una bambina grande, con una sensibilità esasperata, che la rendeva tesa e triste. La coscienza della miseria della vita, che la portava a rifiutare l'ipocrisia e la cattiveria, le negava anche la speranza di una redenzione lasciandole la paura e l'insicurezza di chi si sente debole e solo, l'angoscia di chi sogna spazi infiniti di libertà e si sente nella gabbia della propria impotenza.

Poi ci fu l'Elba.

E musica

(dalla relazione sulla classe 3a H, giugno 1979)

<<Il fine primario di decondizionare la comunicazione dagli stereotipi, dalle rigidità, dalle separatezze che impongono, per ogni ambiente, forme e contenuti espressivi diversi e standardizzati non può essere raggiunto finché l'esperienza dei rapporti rimane legata dentro la scuola a certe attività, segregate nel tempo e nello spazio.

In questo senso il tentativo di “globalizzare” il rapporto con il gruppo classe, cioè di estenderlo a tutte le attività e i momenti che caratterizzano la vita di un ragazzo è stato per noi al centro dell’esperienza all'Elba, in cui la prospettiva culturale e di lavoro era intrecciata con la dimensione della convivenza.

Anche qui ci sembrò necessario che la scelta fosse fatta fino in fondo: non un albergo allora, ma una casa in cui toccava a noi gestire tutti i servizi. Questa situazione non solo responsabilizza i ragazzi rispetto alla gestione di una vita organizzata in comune, ma costringe anche a giocare dentro il tessuto dei rapporti del gruppo ogni momento della giornata, ogni iniziativa, ogni aspetto della propria realtà personale: niente resta fuori, nascosto o mistificato. C'è un grande salto di verità nella comunicazione interpersonale se si è nelle condizioni di condividere tutto ciò che si fa, e che si è, con le stesse persone, senza potersi costruire una maschera diversa per ogni interlocutore.>>

Forse a far maturare la crisi in Barbara fu la lontananza dal contesto quotidiano, da una famiglia troppo mitizzata per non destare il sospetto di essere coinvolta nell’origine dei suoi problemi; forse fu l'imprevista concretezza che gli spazi e i ritmi del vivere insieme davano a una situazione più “naturale”. Quella sera, sconcertato, quasi preoccupato da qualcosa che non capivo, assistetti al suo ubriacarsi in giochi scatenati, all’alzarsi di tono del suo riso esasperato, fino a una specie di crollo nervoso.

Quella del giorno dopo fu l'alba del suo corpo, capace ormai di dolcezza e di abbandono. La sensibilità verso ciò che accade dentro alle persone, finora lama impietosa per frugare nelle debolezze e nelle impotenze, si schiuse in una attenzione paziente e calorosa, piena d'iniziative soprattutto verso i compagni più emarginati, culturalmente più deboli o dal comportamento più difficile. Nessun pietismo o senso del dovere: era come se scoprisse che loro più che altri avessero spazio per la sua attenzione. Fu appassionata e forte nel difendere il primato del rispetto umano, il diritto ad essere deboli.

Chi nasce non può tornare indietro ma può iniziare a morire: il rientro nella dimensione quotidiana non poté cancellare i segni della vita nuova dal suo corpo e dal suo comportamento, ma azzannò il sogno alla gola. L'aver assaggiato il frutto proibito le rendeva la realtà più inaccettabile e il suo immaginario tormentato trovò la sua dimensione nel grande mito della Natura. La malinconia la dominava, ma finché stette con noi il dolore, vissuto per quello che era senza mistificazioni, trovava un’espressione, veniva lanciato agli altri come un grido.


Non ho il volo di un gabbiano

non ho le sue ali per volare

non ho che questa gabbia di cemento

una palla al piede che mi tiene incatenata

non ho che questo cielo grigio e sporco

non ho che voi e forse non capite

                             (gennaio 1979)

Ma l'impatto con il primo anno di liceo fu devastante, fece saltare gli equilibri, le già scarse capacità di mediazione, le difese così fragili. Dicevano di lei le compagne: <<Sta così male perché non accetta che si annulli completamente la personalità di una persona; perché in fondo viene annullata: non ha più importanza quello che pensa una persona, i suoi sentimenti, i suoi stati d'animo, i suoi problemi, ma ha importanza il suo profitto. Barbara non accetta questa cosa e si rifiuta anche di studiare; o meglio lei studia, ma non è motivata.>>

La disillusione, la stanchezza, il senso di vuoto non solo produssero disinteresse e apatia ma la spinsero a rivolgere la sfiducia verso se stessa e la propria possibilità di cambiare; e quanto più cresceva il bisogno degli altri tanto più fievole si faceva la sua presenza e la voce che li avrebbe chiamati. Per sopravvivere fu costretta a rinnegare quell’esperienza e tutti noi.

Ogni volta che penso a lei mi chiedo se un adulto che ha responsabilità nei confronti di persone che crescono, ha il diritto di esporle a questi rischi. Mi rispondo che l'aprire piccoli spazi alla pratica di un'utopia è ciò che può fare la differenza tra una esistenza subita e la non rinuncia alla ricerca della felicità, che può divenire la fonte di energia di un’intera esistenza. E se invece fosse solo il tragico inganno di una droga? uno spazio artificiosamente sottratto alla realtà usato per far credere l'impossibile? Se non possono essere vere tutte e due, qual'è la vera realtà?

Erano queste le domande che presero a tormentarmi quando rimasi orfano della 3a H; e se proposi di passare qualche giorno di vacanza insieme e perché non potevo trovare delle risposte senza di loro.

IL GRANDE FREDDO

Quando partimmo per la Garfagnana, a Pasqua del 1980, quasi un anno era passato dall’ultima volta che la 3a H era stata tale: gli esami di licenza nessuno li ricorda, tanto inconciliabile ed estranea ne era l'esperienza. I ragazzi avevano iniziato nuove esperienze scolastiche, e qualcuno aveva fatto in tempo anche a concluderle. Anch’io avevo abbandonato la "Cagliero", ormai “normalizzata”, per non tradire un sogno. Un grande freddo da cui la primavera forse non sarebbe nata più; i ragazzi nel vecchio edificio che era stata una scuola si erano costruiti un unico grande letto in cui dormivano tutti insieme: le risate e gli schiamazzi fino alle ore piccole erano come un falò in cui bruciare le paure. La mia aveva il sapore amaro di un rimorso.

 

Pecio: <<Ho abbandonato la scuola (per odontotecnici) perché non riuscivo ad andare avanti; non mi piaceva quello che avevo scelto: non era come credevo. I prof, anche se non porti i libri, se ne fregano. Loro ti mettono i voti bassi e basta: credo che ci prendano gusto. Il professore, anche se tu esci senza dire niente, non ti chiede "dove vai", non ti guarda neppure: tu non esisti per lui, lui parla e basta. Ti puoi anche mettere a giocare a carte, basta che non fai casino. Dà gli ordini solo quando vuole lui: e poi ti sbatte dal preside.>>

Mario: <<Nella scuola serale dove andavo io la gente arrivava "ciao" "ciao", ognuno si sedeva al suo banchetto, quello che ti sedeva accanto neppure lo guardavi, ognuno si faceva gli affari suoi. Si ascoltava quello che diceva il prof, senza pensare che gli altri magari avevano voglia di stare insieme, di parlare un po’. In laboratorio mica potevi chiedere all’altro "scusa, mi aiuti..." perché ti mandava al diavolo. Chiedere una cosa al prof era una battaglia che dovevi fare. I prof, che già facevano scuola di giorno, quando venivano lì spiegavano una sola volta, e tu o capivi o non capivi, per loro era lo stesso. C’era poi il prof che leggeva un pezzo da un libro e se tu volevi lo studiavi. In confronto alla "Cagliero" mi è sembrato uno schifo di scuola. Là si faceva tutto insieme>>

Claudia (I liceo scientifico): <<A me la “Cagliero" è servita molto. Anche andando in una scuola tradizionale non studio per raggiungere il voto ma per imparare qualcosa di mio, mentre noto che il resto dei miei compagni fanno tutto per la sufficienza sulla pagella.>>

Luca (I liceo scientifico): <<Per me l’importante non è il voto o il giudizio, ma come si insegna.>>

Claudia: <<Ma no, perché se vuoi imparare, riesci a imparare anche se ti insegnano male. Tu torni a casa e puoi cercare di spiegarti le cose da solo.>>

Sonia (IVa ginnasio): <<A me interessa anche il metodo, come una cosa viene insegnata. Se ti interessa solo sapere, va bene, ma se ti interessa lavorare in un certo modo, magari con lavori di gruppo o ricerche, allora non ti va più bene che l’insegnante insegni male e che tu debba rifare tutto a casa. Lo puoi fare, ma perché dovresti accontentarti? E poi è difficile; non puoi decidere di studiare una cosa come piace a te: l’insegnante esige una certa cosa e se sei solo non puoi andare a dirgli che tu vuoi studiare in un certo modo; perché sei in una classe.>>

Luca: <<E poi non ne hai i mezzi.>>

Claudia: <<Puoi cercare di accontentare l’insegnante e poi anche studiare come piace a te.>>

Sonia: <<Ma te ne manca il tempo. E poi da solo non ci riesci. Per quanto riguarda i voti posso dire che non sono riusciti a farmi credere di essere incapace. Ad esempio nei temi di italiano prendevo quasi sempre cinque, però non ho cominciato a pensare "non so più scrivere"; anzi sono piuttosto soddisfatta delle cose che scrivo. Non è il voto in sé che dà sicurezza. Anche quando l’insegnante mi dice "qui dovevi esprimerti così" o mi cancella qualcosa non è che io dica "il mio tema non va bene" o "ho delle idee sbagliate". Non mi faccio condizionare dal suo giudizio soprattutto sulle mie idee e sul modo di esprimerle.>>

Mario: <<È come mio padre: lui vorrebbe condizionarmi, proprio come farebbe un insegnante. Lui vorrebbe farmi lavorare anche di domenica; ma a me non interessa lavorare di domenica o spendere meno soldi in divertimenti, perché lui è un tirchio. Io non mi faccio impressionare, anche se me lo dice mille volte; può anche picchiarmi, ma a me va bene di fare certe cose e lui non può impedirmelo. E così se la prof dice che una cosa è sbagliata, è sbagliata per lei; per te se una cosa è giusta, è giusta e basta. Puoi cambiare le parole, ma la sostanza la mantieni.>>

Marcello: <<Micol, tu sei nella stessa classe di Sonia, e quindi giocano su di te gli stessi fattori esterni: per te esiste il potere degli insegnanti di convincerti di certe cose o ti senti in fondo libera di decidere autonomamente?>>

Micol: <<Per le idee, l'insegnante non mi può dimostrare che ho torto: mi può dire una sua opinione e io posso tenermi la mia. Io riesco a non farmi condizionare, anche perché cerco di evitare i temi dove ci sono opinioni molto personali da esprimere.>>

Luca: <<Allora ti ha condizionato, perché hai paura.>>

Micol: <<No, perché io posso non dire le cose che penso, non perché sono diverse da quelle che pensa lei, ma perché può non interessarmi dirle a lei, perché non è una persona con la quale mi interessa stabilire un dialogo su certi argomenti.>>

Sonia: << Agli insegnanti interessa far avere agli studenti una preparazione a livello culturale. Come si sentono queste persone, come vedono l'insegnamento, come si trovano, come siano i rapporti all’interno della classe, non ha importanza. Addirittura si può dire che all’insegnante non interessa che tu studi o che tu capisca: non è un problema suo trovare il modo di farti capire le cose; sei tu che le devi capire. Proprio non si preoccupa di te...>>

Micol: <<È vero: io ho visto una volta in classe uno che piangeva... tu puoi anche piangere, disperarti, ma lei non ti guarda neanche, continua imperterrita a spiegare, magari ti chiede anche qualcosa, pur vedendo in che stato sei; se ne frega. Noi ci fermavamo, chiedevamo "che cos’hai" "come stai" "perché fai così", lei no: continuava a spiegare. Secondo me noi ci troviamo male perché alla "Cagliero" eravamo abituati a considerare le scuola il nostro luogo di ritrovo. La scuola era il nostro interesse principale: andavamo lì non solo per studiare, ma anche per parlare, per discutere; ci fermavamo lì anche dopo. In vece qui è tutta un’altra cosa: devi saperti trovare degli interessi fuori dalla scuola. Quando vai a scuola, ti fai le tue ore, te ne freghi dell’insegnante e del rapporto che puoi istaurare con lei, e poi te ne vai a casa e ti cerchi  i tuoi centri di interesse. Anche se, con tutto quello che c'è da studiare a casa, non c'è neppure il tempo per stare con altre persone.>>

Mario: <<Questa cosa dell’insegnante che spiega solo una volta mi sembra molto sbagliata. Se una cosa non la capisco, me la deve rispiegare, magari in modi diversi, finché non la capisco. Se lei non mi risponde, allora vuol dire che proprio è una st.....>>

Micol: <<Magari te la rispiega anche, ma indispettita, con l'aria di dirti che sei un rompipalle o di chiederti che cosa vuoi da lei.>>

Marcello: <<Stabilito che gli insegnanti sono così, forse il discorso da fare è un altro: come noi ci poniamo... come voi riuscite a porvi di fronte a questo dato di fatto. Dire "è una st...." va bene, ma quando l'hai detto cos’hai risolto? Se non accetti questo atteggiamento rischi una rabbia impotente: vorresti che fosse diverso, e invece non cambia, quindi ci stai male. Il problema è come reagisci: o riesci a cambiare questa situazione... non so come, non so se qualcuno ha esperienze di questo genere... oppure ti ritagli degli spazi e riesci a sopravvivere.>>

Mario: <<Le cose giuste ognuno se le crea, le vive dentro. Io faccio una cosa che a me sembra giusta; se poi all’altro che mi sta vicino non sembra giusta... vuol dire che ne discutiamo.>>

E panchina

 Se questo è ed era un gruppo, è Mario il suo vero pilastro, anche se nessuno sembra accorgersene, neppure io, che ogni volta me ne stupisco. Con la sua (apparente) ingenuità e la sua (vera) semplicità riesce a dare il senso che la verità è forse più semplice e vicina di quanto può apparirci, ed è in fondo attorno ad essa che ci ritroviamo.

Quella sua calma forza era sicuramente una dote personale, ma la candida caparbietà con cui non accettava le cose inaccettabili la intuivo come un prodotto di quella nostra esperienza.

LA SCATOLA

Come non riesco ad accettare che le vite di questi ragazzi oggi sono del tutto indipendenti, così è con incredulità che penso che c'è stato un tempo in cui essi neppure si conoscevano e che sono finiti insieme per la coincidenza di scelte altrui e di eventi casuali. Mi è più congeniale pensare che, benché inconsapevoli, tutti loro fossero legati a un unico filo che a un certo punto li tirasse verso il luogo dove dovevano incontrarsi. Ma questo non lo vivo tanto con il senso dell’ineluttabilità del destino, quanto con lo stupore di un miracolo.

Mario capitò nella media sperimentale di via Cagliero probabilmente perché una scuola a tempo pieno risolveva qualche problema di una famiglia numerosa e non certo abbiente. Appena giunto nella metropoli da un paese della Calabria, fu assegnato alla classe 1a H per una combinazione di “parametri”, in cui non si sarebbe certo riconosciuto.

Le orecchie ancora piene dei silenzi delle colline, le gambe ancora calde di percorsi avventurosi, il cuore ancora pulsante per le imprese del suo diventare uomo, stava per conoscere solo ora, attraverso il dolore della prigione, la libertà che il tempo e lo spazio della sua infanzia avevano coltivato dentro di lui.

Lo salvò il suo sguardo aperto che cercava solo uno spazio abbastanza grande per contenerlo, la sua grande curiosità e attenzione che chiedevano solo di avere qualche oggetto su cui posarsi.

Certo la nuova scuola doveva sembrargli strana (<<Alla “Cagliero” qualunque cosa di strano si poteva farla... >>), ma gli fece intravedere ciò che anche la città e la cultura “colta” potevano offrirgli di nuovo, di esplorabile, di amabile. O forse anche soltanto si limitò a non reprimere la poesia che aveva dentro, la cura verso se stesso e verso gli altri che le sue radici alimentavano. E lui nella maniera più semplice ha capito fino in fondo il nucleo forte di quella esperienza, il suo senso educativo (<<Il voto per me non serve a niente. Alla “Cagliero” senza voti si studiava per imparare. La scuola a questo deve servire. >>)

Mi piace pensare che la sua fedeltà sia figlia di questa consapevolezza e che il suo cercarmi per raccontarmi la sua vita di oggi nasca dal sentimento di una radice comune. Con sorridente imbarazzo mi chiede quando ci rivediamo tutti insieme, anche se magari se ne starà silenzioso ad ascoltare gli altri, e io sento che siamo come i fedeli custodi di un tesoro prezioso.

<<I miei rapporti nel laboratorio dove lavoro sono solo rapporti di lavoro, appunto, e sul piano pratico è come se l'esperienza fatta a scuola non mi fosse servita a niente. Invece mi è servita per ritrovare me stesso. Quand’ero in Calabria la vita era molto diversa, vivevo alla giornata, non ero molto cosciente di me stesso. Un pezzo alla volta in quei tre anni mi sono ricostruito, e sono contento di esserci riuscito. E questo mi serve moltissimo anche adesso, per le decisioni da prendere: influenza il mio modo di pensare. Io di quella esperienza è come se avessi fatto un pacco, che ho messo in una scatola, che si apre da sola quando ne ho bisogno. È molto pratica!>>

IL CORPO E IL TEATRO

Micol nella classe era quella che riusciva a capire le situazioni al di là dell’apparenza e quindi anche a coglierne le contraddizioni. Lei allora viveva la sensazione di essermi “antipatica” ed è comprensibile: in una situazione in cui io perdevo lucidità e avevo una visione romantica del mio rapporto con la classe, sicuramente avrò sopportato con un certo fastidio chi invece, non facendosi prendere troppo dall’euforia, sapeva cogliere anche le dinamiche negative, offuscando quella mia immagine. Insomma io avevo come congelata Micol nella razionalità di questo ruolo, nella estraneità di questo distacco.

E invece c'era stato, durante il primo anno, un episodio che la riguardava di tutt’altro segno. Erano i giorni dell’ “occupazione” del seminterrato della scuola e un paio di volte Anna ci fece fare dei giochi col corpo. Quella volta il gioco consisteva nello sdraiarsi a terra a stella con le teste al centro e i piedi verso l'esterno: in questa posizione alzando le mani sopra la testa si incontravano le mani degli altri senza vederle. E io ebbi una storia molto intensa con queste mani, che scoprii solo dopo essere quelle di Micol. Erano le mie prime esperienze del genere e le vivevo con tutto l'egocentrismo di chi nasce. Perciò dimenticai che quelle mani appartenevano a qualcuno, come se la mia memoria non potesse spingersi più in là del campo d'azione dei miei sensi. Solo sette anni dopo, durante l'esperienza comune di teatro, riscoprii in Micol questa disponibilità a mettersi in gioco, questa tensione a comunicare, attraverso il corpo. E capii di avere accettato in lei solo l'altra faccia, e di non avere riconosciuto questa, per una ragione che avrebbe dovuto invece rendermela familiare: anche lei, come me, aveva bisogno di contesti particolari per concedersi; come se, per chi non ha ancora ricondotto a unità il proprio essere due, non fosse possibile accettare la convivenza in sé di due realtà troppo diverse se non giustificandone l'espressione con la diversità dei contesti.

Anche altri trovarono in quegli incontri del giovedì, nella sfida ad esprimersi con il corpo, la possibilità di una libertà nuova. Come Giacomo, la cui spontaneità era rimasta ostaggio della sicurezza, prigioniera del senso di responsabilità, che sono il prezzo dovuto per la superiorità intellettuale; Giacomo, che aveva imparato a difendersi da se stesso con l’ironia, e che ora esplorava con attenzione discreta una parte misconosciuta di sé. O come Giorgio, che poteva finalmente concedersi di vivere la propria sensibilità lasciando che scorresse come linfa in un corpo, non più costretto ad esporla alla macina della dialettica o a proteggerla in uno scontroso e vulnerabile riserbo.

Che di questo spazio franco di ricerca personale si trattasse divenne evidente quando, dopo un anno, riproponemmo l'idea iniziale dimenticata di uno spettacolo: l'ipotesi di partenza, ingenua certo, era che il nostro lavoro sul corpo fosse di per sé qualcosa di comunicabile a un pubblico, ma la resistenza dei ragazzi a passare a questo nuovo piano, dove la spontaneità doveva fare i conti con altre esigenze, si manifestò subito in modo più o meno esplicito; Giorgio addirittura preferì rinunciare.

acqua b

Con quell’iniziativa di “teatro del corpo” avevo coinvolto una serie di amici insegnanti in un'impresa collettiva in cui mettere in gioco quelle nostre passioni o competenze personali, dalla fotografia alla psicomotricità, dalla coreografia alla poesia, dalla ricerca sonora al teatro d'animazione, che si erano incrociate come interessi comuni in rapporti interpersonali, mai ricondotti a una rete coerente. Mi era sembrato un lavoro interessante anche perché metteva alla prova la capacità di animare un gruppo di ragazzi al di fuori del contesto scolastico. Ma era chiaro che erano loro, i ragazzi della 3a H, allora diciassettenni, l'oggetto vero del mio desiderio.

Da qualche tempo avevo voglia di loro, ma la mia repulsione per i riti e le situazioni “dovute” mi faceva temere e rifiutare gli incontri, del resto molto rari, in cui ci si rifugiava nei ricordi, preferibilmente camerateschi o buffi per esorcizzare l'imbarazzo, per coprire il sapore agro del non riconoscersi più nel presente. Perché tra di noi ci fosse un rapporto non era sufficiente che la storia ci avesse scelti una volta, occorreva qualcosa che ci unisse ora, e poteva essere solo un’esperienza da vivere insieme; a suggerire quale ci pensò la voglia di teatro che mi era rimasta dal felice incontro con un gruppo che gestiva un corso di animazione per insegnanti. Con loro avevo scoperto il teatro come possibilità di esprimere e comunicare, liberando e dando forma a ciò che si ha dentro.

Ma perché, per coltivare questa fragile passione, non entrai nel laboratorio del "Teatro del Chiodo" continuando la ricerca con i miei maestri, e cercai invece di coinvolgere i ragazzi nelle stesse esperienze che io avevo fatto? La risposta più facile è che ciò che volevo era proprio coinvolgerli, perché sentivo di dover comunicare loro la scoperta di questo spazio che mi sembrava la maturazione di quel seme di comunicazione, di verità e di amore nella comunicazione, che era nato nella 3a H.

Analizzando ora quella scelta ci posso vedere qualcosa che, inconfessato o incosciente, forse sta dentro a tutto il mio rapporto con i ragazzi. Il mettersi in gioco con altri adulti, in una situazione di ricerca che già partiva da una rinuncia alle difese nell’offerta reciproca delle storie personali, portava con sé un carico di insicurezza e di paura che non rischiavo invece nel lavoro con i ragazzi, dove l'asimmetria del rapporto e la garanzia di muovermi su un terreno nuovo per loro, ma già noto a me, mi proteggevano, restituendomi a un ruolo pur sempre di educatore. E io non so dire, forse perché ho paura a scoprirlo, o forse perché davvero non lo si può districare, quanto il rapporto educativo sia un rapporto d'amore o di potere.

L'esperienza teatrale segnò anche un cambiamento significativo nella composizione del gruppo: alcuni ragazzi che non avevano fatto parte della 3a H vennero adottati.

LE AFFINITÀ ELETTIVE

Tato e Giorgio erano stati miei alunni di una terza il primo anno dopo la fine della mia esperienza in Via Cagliero. Il passaggio a una scuola “normale” dopo sei anni era stato forzato e attonito come il ripudio di un amore finito, anche se l'anno precedente io stesso avevo pronunciato, convinto, l'orazione funebre per la sperimentazione.

L'ultimo anno in Via Cagliero paradossalmente era stato il più “sperimentale”. Eravamo finalmente liberi dal ricatto della chiusura, liberi da quel sovrappiù di condizionamenti che gravano su una scuola la cui specificità dovrebbe consistere nell’averne di meno. Era finita la commedia dei paradossi che ci costringeva a ogni inizio di anno scolastico a lottare per evitare che lo spazio si restringesse fino a soffocarci, coscienti che la situazione di lotta ci si ritorceva contro nei termini di quel gradimento dell’utenza da cui dipendevano le nostre sorti, essendo l'iscrizione a richiesta e non territoriale; costretti i più combattivi a combattere a ogni nuova circolare restrittiva per difendere quel progetto contro cui l'anno prima ci si era battuti invano perché troppo restrittivo; coscienti di rinunciare ogni volta a qualcosa di “sperimentale” come prezzo per mantenere aperta la “sperimentazione”.

Insomma, con l'animo di chi non ha più niente da perdere, in quell’ultimo anno avevamo praticato con maggiore spregiudicatezza, soprattutto come consiglio di classe della 3a H, tutti gli spazi residui della nostra condizione particolare, utilizzando tutte le risorse ancora disponibili. Era stato l'anno delle ore di “pocket cultura”, del “progetto città”, del soggiorno all’isola d'Elba, della scuola di ballo...

Ciò che mi scosse dall’ottuso risentimento con cui avevo affrontato la nuova situazione nella scuola “normale” e mi fece riemergere da un sordo grigiore furono i ragazzi di quella terza. Il lavoro scolastico veniva sopportato senza entusiasmi come un inevitabile fardello, ma anche il solo accenno a problemi che riguardassero i ragazzi personalmente o che fossero presenti nel loro ambiente, scatenava discussioni animatissime. Dovetti istituzionalizzare, sottraendolo allo “svolgimento del programma”, uno spazio per i dibattiti, che venne sempre preceduto da accese pre-discussioni sulla scelta dell’argomento. Il confronto verbale non è la modalità migliore per affrontare problemi esistenziali, ma era forse il massimo che potevo fare con una classe che aveva una storia sua alle spalle cui io ero estraneo; del resto, in mezzo agli inevitabili stereotipi culturali e alla competitività dialettica si manifestava il calore di un’autentica partecipazione personale.

Rivedo come in una sequenza cinematografica gli esami di licenza di Tato, quello che più incarnava questo spirito della classe: inizio formale, tutta la commissione schierata dietro il lungo tavolo, domande molto “culturali” - dissolvenza - sono passati alcuni minuti, Tato accerchiato da un nugolo di insegnanti accaldati e scomposti; lui, che naturalmente non ha saputo tacere, che sta sostenendo, senza paura e con perfetta innocenza, una requisitoria contro la scuola, la loro scuola, e loro che, totalmente dimentichi della dignità del ruolo e dell’occasione, si accalorano a controbattere senza accorgersi che quello che stanno facendo, aggredendo o ragionando e anche con qualche cedimento verso una richiesta di comprensione, è sostanzialmente una auto-difesa. Nell’occasione più formale della manifestazione del potere attraverso il giudizio, sono loro i giudicati. Io sto da una parte, un po’ trepidante per lui, e infierisco sugli sconfitti con la mia silenziosa soddisfazione; riesco a frenare la stupida voglia di intervenire, ma non quella di manifestare a Tato la mia complicità: mi avvicino a lui e gli sussurro nell’orecchio "tieni duro, ragazzo!".

Fu questa disponibilità a mettersi in gioco, a rischiare se stessi e non solo le proprie idee in un confronto con gli altri, che mi spinse tre anni dopo, a proporre l'esperienza di teatro del corpo anche a un gruppo di ragazzi di questa classe che, "...senza la minima intenzione simbolica..." direbbe Enzo Jannacci, era anch’essa una 3a H.

Beatrice e Flavia non erano state mie alunne, ma la ragione per cui furono aggregate al gruppo non era in fondo diversa da quella che giustificava la presenza degli altri. Tutti all’interno dell’esperienza scolastica avevano accettato un rapporto personale con l'insegnante fuori dai ruoli, e avevano dimostrato un’attenzione alla propria crescita, tutti erano disponibili a una ricerca collettiva sulle forme del comunicare in cui l'oggetto della comunicazione per ciascuno era in fondo se stesso. Erano dunque tutte persone “scelte” per un'affinità, sperimentata, intuita o presunta.

La metafora delle “affinità elettive” stava a indicare una attrazione “naturale” tra le persone indipendentemente da, e a volte contro, la loro volontà, ma “elezione” significa operare attivamente una scelta, in piena coscienza. Di cosa si tratta dunque: affinità o scelta? E quello di sceglierci le persone con cui stare è un diritto?

Naturalmente nella scuola l'insegnante non si sceglie gli alunni, almeno nelle scuole dove la democrazia è una prassi civile di convivenza e dove non c'è una forte rappresentanza di "Comunità Educante". Ma questo è un discorso politico, come quello sulla “selezione” scolastica, e mi servirebbe per nascondermici dietro; la domanda mi punta il suo indice diritto: in una situazione come quella della scuola sperimentale, dove istituzionalmente non si bocciava e le classi venivano formate con equità, io ero capace di non scegliere tra i miei alunni?

Forse le motivazioni ideali o ideologiche che, per me come per tanti della mia generazione, stavano alla radice della scelta di fare l'insegnante, e sulla perdita delle quali non abbiamo forse riflettuto abbastanza quando ci siamo liberati della miseria della politica, mi conservavano ancora una sorta di vigilanza, di tensione etica al rispetto del diritto di tutti all’educazione.

Forse il mio comportamento era sufficientemente equo e non discriminatorio, se alla fine ormai della terza, quando durante un viaggio in treno, giocando al gioco della verità in cui tutti avevamo accettato di non tirarci indietro, Mario chiese a me se "avevo delle preferenze". Risposi che “dentro” le avevo, e che “fuori” toccava loro giudicare. Dissi anche che alcuni di loro mi davano più di altri ed era per questo che li preferivo. Non mi risposero se ciò era giusto, ma so che non li avrei ascoltati, perché quello era il massimo equilibrio che potevo ottenere da me stesso, e mi era indispensabile per fare l'insegnante.

La questione avrebbe potuto finire lì: con la fine degli esami di licenza avevo onorato il mio impegno etico-professionale con loro. E dunque che cosa ho da rimproverarmi per avere invitato alcuni di loro a partecipare, insieme a un gruppo di amici, fuori dal tempo e dallo spazio della scuola, a un'attività volontaria e gratuita? Fu Caino a rispondere "Sono forse io responsabile di mio fratello?!" Come potevo prendere l'iniziativa di coinvolgere delle persone in esperienze in cui l'asimmetria adulto-ragazzi ricreava, che lo volessi o no, un rapporto educativo, e poi pretendere di chiamarmi fuori da ciò che quel tipo di rapporto porta con sé?

I dubbi irrisolti sono incontrollabili; e quando hanno il volto preciso di persone trafiggono all’improvviso come rimorsi. Pecio, così debole da lasciarsi cambiare persino il nome (chi di noi si ricorda che si chiamava Mario anche lui) che si è perso letteralmente in una nuvola di fumo, non è stato forse abbandonato alla sua debolezza, per non offuscare l'immagine di un gruppo di bravi ragazzi in gamba, per non dover scegliere insieme a lui anche i suoi problemi?

Ha ragione dunque Flavia che oggi rifiuta i nostri “fuoriluogo” e le nostre affinità elettive per tentare una ricerca della verità in tutti i rapporti che vive, senza scegliere?

I BUONI E I CATTIVI

Ci sono persone che non è possibile non scegliere. Luca, il buono, il giusto, il dolce Luca, tutti lo amavamo. Perfino gli errori di ortografia in lui erano segni di sensibilità e maturità. Accadde negli ultimi mesi di scuola: nel suo linguaggio, sia scritto che parlato, aumentavano i momenti di incertezza, le scorrettezze, mancavano fluidità e ordine. Qualcosa non quadrava. Tutti conoscevamo l'intensità con cui riusciva a comunicare la sua partecipazione intellettuale ed emotiva. Osservando meglio ci accorgemmo che l'insicurezza si manifestava non in modo generalizzato, o periodico, o casuale, ma nelle situazioni in cui esprimersi con chiarezza e precisione avrebbe voluto dire formulare giudizi precisi e univoci. Era la sua profonda attenzione verso gli altri dunque, la sua visione non egocentrica della realtà, che lo portava alla problematicità, e quindi inevitabilmente all’incertezza, impedendogli di congelare le persone e i fatti in un linguaggio senza possibilità di errore.

Il rischio per le persone come Luca è di restare intrappolati dal mito della propria purezza: i loro insegnanti, ciechi d'amore, finiscono per ritenerli in grado di affrontare "qualsiasi tipo di studi superiori" come qualsiasi difficoltà della vita, quali eroi di un romanzo, quando invece sono soltanto buoni, dolci e giusti. Neppure li sfiora il dubbio che essi possano avere problemi banali o sporchi di quotidianità. E così questi ragazzi finiscono per dover pagare oltre al prezzo degli insuccessi, cui forse meno di altri sono preparati, anche la delusione di chi si aspettava tanto da loro.

Il peccato originale della maturità precoce condanna quelli come Sonia alla perfezione: tutti si aspettano da loro che sempre siano disponibili e sensibili, capaci di sopportare tutto, di comprendere e aiutare, perfino gli adulti. Se tentano di essere cattivi per una volta, per chiedere aiuto, la cattiveria non viene neppure riconosciuta e restano soli con la loro rabbia, la loro paura, la loro infelicità, alle quali nessuno riconosce loro il diritto.

Sonia rimase prigioniera di quel senso del dovere che in un adulto potrebbe chiamarsi orgoglio. Un meccanismo più grande di lei le impediva di rinunciare o di cedere prima degli altri: ogni abbandono le era precluso. Non si ribellò al ruolo che le veniva imposto, ma il suo entusiasmo per quelle situazioni che non pretendevano da lei prestazioni ma le offrivano spazi, il suo attaccamento alle persone che accettavano le sue debolezze erano una richiesta reticente e disperata. Nessuno la aiutò nella sua lotta di adolescente tra i limiti dell'io e l'aspirazione a una vita più bella, all’essere felice.

Solo a se stessa, alle proprie scritture segrete e alla propria riflessione solitaria, le era concesso chiedere aiuto per trovare ragione dell’infelicità. E quando più tardi con l'esperienza di lavoro sul corpo le fu offerta l'occasione per coltivare quella parte di sé che era sempre stata sacrificata, era troppo tardi. L'altra Sonia non poteva più nascere: non c'era più posto per lei, sarebbe stata troppo diversa per poterla accettare accanto alla prima e per tentare di ricostruire un’interezza. Fuggì, forse per sempre.

Per ironia, nella prigione di un giudizio che trova continuamente conferme forse perché solo quelle cerca, accanto ai buoni si ritrovano i cattivi. Quelli che si cuciono sulla pelle questo vestito, perché è l'unico modo per avere un posto nella considerazione degli adulti, o perché nella scuola essere irrimediabilmente cattivi ha i suoi vantaggi, garantisce una riduzione della richiesta di prestazioni; addirittura, se va bene, si è lasciati in pace.

Letizia faceva sempre di tutto per mostrare il suo lato peggiore: renitente al lavoro scolastico e intrattabile anche per i compagni. E quando, lontano da casa e da scuola, rivelò l'inatteso volto di una persona socievole, positiva e piena d'iniziative, nessuno quasi ci credette e ci fu più comodo tutto sommato tornare ad avere a che fare con lo stereotipo di lei che ci era più familiare, senza rimettere in discussione un equilibrio ormai raggiunto.

E fuoco

Le notizie su di lei durante gli anni seguenti erano solo tracce zigzaganti, finché un giorno precipitò in casa mia da una bicicletta sgangherata. Ciò che mi raccontò era facilmente previsto e coerente con il personaggio, con il suo irresponsabile rifiuto a una mediazione ragionevole con la realtà: insuccessi e cambi di scuola, abbandoni, lavori tentati e periodi di inattività, una condizione di normalizzata precarietà. Con tutto l'entusiasmo che dedicava alla coltivazione del suo mondo personale, mi disse delle sue vacanze nel Parco d'Abruzzo e del suo desiderio di lavorare come guardia-parco: una eterna sorridente bambina con la testa fra le nuvole e i piedi anche.

Ma quando Letizia parlando delle sue esperienze di lavoro affermò con tranquilla sicurezza <<Io sono capace di fare per bene il mio lavoro, ma non possono pretendere che stia lì con la testa>> capii che non sempre i maestri sono dove ci si aspetta che siano: il suo estraniamento, il suo disadattamento, la sua irragionevolezza, forse erano invece un tentativo, il più appassionato e coerente tra tutti noi, di vivere per intero quella sincerità di vita che avevamo insieme sfiorato. E mentre noi, che fieri e compresi ce la mostravamo l'un l'altro, abbiamo poi accettato nella nostra ragionevolezza di mediarla ogni volta, di confinarla nei 'fuoriluogo”, di rinchiuderla nelle “scatole”, lei, che agli occhi del nostro pregiudizio neppure appariva coinvolta, ne faceva il rischio intero della sua esistenza.

Avrei voluto che tornasse, ma la sua strada si perde in prossimità degli appuntamenti e lei non c'è quando ci ritroviamo, dopo sette anni, ad aprire di nuovo insieme la nostra “'scatola”.

RADICI

Sono occhi adulti ormai, che hanno "perso l'innocenza”, come dice Claudia, che si volgono indietro a guardare le radici del proprio presente.

Micol: <<Quando è finita la media io ho sofferto tantissimo, ho avuto una chiusura completa degli affetti; sto cominciando a riaprirmi adesso. Al liceo la situazione era di freddezza assoluta; ho vissuto come “in trance”: a parte gli affetti della famiglia o di quei compagni delle medie con i quali ero rimasta in contatto, vivevo unicamente nel ricordo.>>

Marcello: <<Eppure allora sostenevi che a scuola si può fare a meno del rapporto con l’insegnante e con i compagni, che bisogna sapersi trovare degli interessi fuori dalla scuola.>>

Micol: <<Beh, quello io l'ho detto mentre stavo vivendo quella situazione e, necessariamente, per non star peggio, dovevo cercare di affrontarla in modo più distaccato. Adesso posso anche riconoscere che stavo soffrendo.>>

Giacomo: <<Anche se la memoria del periodo della scuola media è offuscato, il legame tra il ricordo che ho del passato e quello che sono adesso si riassume in una sensazione molto chiara, molto netta: una diminuzione, che io riscontro in modo clamoroso, di spontaneità. Io ho sempre avuto, e ho tutt’ora, una grossissima difficoltà di espressione spontanea di qualunque sentimento. In quel periodo questa difficoltà si era affievolita, e se ne erano accorte le persone che ci guardavano con un occhio appena diverso da quello dei compagni di classe. Probabilmente è stata una parentesi lunga e bella, e mi ritrovo adesso ancora con questo problema.

Rispetto alle scelte successive, molto schematicamente: ho fatto il liceo scientifico perché mi sono convinto inizialmente che avesse qualcosa di scientifico, e prima di capire che non era così ho dovuto sperimentarlo. Non ne sono pentito: è stata un’esperienza bella anche quella ma per tutt’altri motivi. Anch’io ho avuto un trauma iniziale, ma poi subentra l'abitudine; e poi in quegli anni si cambia così velocemente che non ci si rende neanche conto. Il mio modo di rapportarmi con l'ambiente tra medie e liceo era diversissimo: prima andavo a scuola per ritrovarmi in quella classe, mentre dopo, anche se passavo a scuola più del tempo scolastico, non lo passavo nella mia classe. Ho comunque ricordi belli di quel periodo, di cose che sono continuate anche dopo.

Nell’articolo di Luca c'era una sensazione di malessere rispetto all’esperienza della scuola superiore, soprattutto nel suo aspetto “politico”, in rapporto ai suoi bisogni ed esigenze, come quello di giustizia. Ci ho pensato molto perché in sostanza era l'unica cosa che ci rendeva diversi. Io ho avuto un’esperienza che fin dall’inizio ho vissuto in modo completamente diverso: mi sentivo di fare le cose in cui credevo e perciò le facevo volentieri.

All’università ho fatto alcuni mesi a Matematica, dopo di che mi sono reso conto che mancava completamente ciò che, sia pure in modi diversissimi, aveva reso positive le esperienze precedenti. Dopo cinque mesi non avevo stabilito un rapporto minimo con nessuna persona. Non ce la facevo più, non avevo alcun interesse proprio ad andare fisicamente in università, perché non ci trovavo niente che potessi dividere con altre persone. Ora lavoro, felicemente.>>

Claudia: <<Forse sono io che sono particolare, ma sono sempre riuscita, anche in università, a ricrearmi un ambiente, per cui ho sempre avuto un interesse sia per il lavoro che per le persone che ho conosciuto, e che frequento anche al di fuori dello studio. Forse è stata anche l'esperienza delle medie che mi ha aiutato, perché mi sono accorta che se io ero spontanea per prima in fondo gli altri mi rendevano la stessa spontaneità, anche se all’inizio potevano essere restii.>>

Luca: <<La differenza sostanziale che ho trovato tra l'esperienza delle medie e quelle che sono seguite è che là un solo ambiente riusciva a darmi una pienezza di rapporti, di interessi, e quindi di vita, che ora invece mi devo conquistare in quattro o cinque ambienti diversi; e il rimettere assieme le esperienze è quasi impossibile.

Per me è stato importante, per tre anni della mia vita, essere in un ambiente che mi dava tutto ciò che in quel momento cercavo. Mi interessava allora comunicare con gli altri ma anche mettere alla prova me stesso, vedere se su tanti piani diversi, l'ascolto della musica piuttosto che il giocare in palestra o lo scrivere, riuscivo a dire qualcosa di mio. È stata un’esperienza complessiva, l'unica che io abbia avuto, in cui ho scoperto alcune parti di me stesso. E oggi mi accorgo che sono molto più diviso: ci sono persone che io vedo perché ho certi interessi o faccio certe scelte, altre perché ho rapporti affettivi con loro, altre ancora perché tento di fare, anche se con molti problemi, una scelta di fede. E mi sento spesso poco persona, o come diviso in compartimenti stagni.>>

Micol: <<Anch'io attualmente vivo scissa: da una parte c'è l’università e il dovere, dall’altra ci sono gli amici, le persone con cui esco, su cui riverso la mia affettività e da cui ne ricevo. Sono due cose assolutamente separate e anche la mia difficoltà a impegnarmi a fondo nello studio è proprio dovuta al fatto che non lo faccio con amore, ma per dovere. E anch’io ricerco l'unitarietà della vita.>>

Luca: <<Forse quella questione della politica, Giacomo, era un po’ riconducibile a questo problema. Io non volevo dare nessun giudizio, né sulle persone né su quello che facevano: era solamente una mia difficoltà, mi rendo conto, forse dovuta a una mia condizione prettamente scolastica (sono stato bocciato in terza).

In quel momento lì io dovevo scegliere, e forse non sono andato fino in fondo; io sentivo di fare determinate scelte, di avere determinate idee, anche politiche, però non riuscivo a collegarle al problema dell’affettività, e questo veramente mi faceva star male. E chiaramente alla fine ho scelto l'aspetto affettivo. Se vuoi è una cosa molto sbagliata, però alla fine quando una persona deve riuscire a vivere deve avere dei rapporti con gli altri; io ho privilegiato la schiettezza, nel senso della ricerca di rapporti reali, piuttosto che cercare di entrare in un ambiente poco conosciuto e con cui mi rendevo conto di avere poche possibilità di entrare in corrispondenza, magari per la mia timidezza.

Mi sono chiuso in quell’altra dimensione, che però mi dava qualcosa, che potevo realmente vivere senza angoscia. È stata una scelta di comodo essenzialmente: meno angosce e più riscontri affettivi. Ho dovuto così fare delle scelte di campo e delle scelte di amici rispetto agli interessi che avevo. Ed è la cosa per cui oggi non mi sento pieno: i miei interessi intellettuali nell’ambito degli amici arrivano solo fino a un certo punto.>>

Giacomo: <<Per me la tua non è una scelta di comodo: l'importante è fare in ogni situazione quello che ognuno si sente di fare. In questo senso allora ogni scelta è di comodo, ma non nel senso comune che gli si dava. Tu hai fatto una scelta diversa dalla mia, ma siamo partiti dagli stessi presupposti.>>

Marcello: <<Questo discorso della completezza anch'io lo sento molto vero. In quella esperienza della "Cagliero" si concentravano per me tutta una serie di cose che investivano la ricerca intellettuale o professionale e nello stesso tempo l'affettività, come la scoperta del corpo, dello stare insieme, del gioco come “tecniche di vita” E poi c'erano persone eccezionali, magari un po’ strane, ognuna delle quali rappresentava per me il significato di una scoperta; io molto egocentricamente, in modo cosciente o meno, le vivevo ognuna come aspetto di una mia crescita.

Non esisteva una parte dove mi giocavo gli affetti e un’altra dove studiavo o realizzavo la mia personalità, anche se momenti diversi richiedevano comportamenti diversi. Se per fare le schede di logica Claudia scendeva dalle mie ginocchia, o se mi mettevo a urlare per ottenere silenzio, io non sentivo che cambiasse qualcosa di sostanziale per me. E questo anch'io non l'ho avuto più. Così oggi magari da una parte faccio teatro con voi, dall’altra scrivo un articolo su "la ragnatela", in ognuno di questi ambiti cercando un pezzo di me stesso, ma senza che esista un luogo dove rimetterli insieme.>>

OGGI

L'asimmetria del rapporto tra me e loro sta soprattutto nel ruolo di “animatore” che ancora assumo. Sono io il garante del rispetto di quella tacita regola del gruppo che tende a evitare di incontrarsi così senza uno scopo per finire ai "ti ricordi...", ed è da me che parte l'iniziativa di proporre delle esperienze significative da vivere insieme: è stato così per il teatro, per l'incontro sulle “radici”, e ancora recentemente quando li ho coinvolti nell’esperienza della Casa Laboratorio di Cenci. Per me è come avere la chiave di una stanza che neppure il padrone di casa frequenta, un luogo in cui il tempo è fermo e solo il ritorno di certe persone lo rimette in moto; ed è perciò che quelle persone lì dentro si riconoscono ed è come se ripartissero dal punto dove si sono lasciate. E ciò che ho sentito con chiarezza quando, dopo tre anni di silenzio, ho chiamato Giorgio per proporgli i tre giorni a Cenci: il dialogo tra noi è stato subito a un livello di confidenza inconciliabile con la “quantità” della storia vissuta lontani uno dall’altro: eravamo rientrati insieme in quella stanza.

terra ombre

Questa asimmetria non è senza problemi, perché poi è difficile uscire da un ruolo. Al tempo dell’esperienza di teatro, per tutta la prima parte del lavoro io e gli altri adulti fungemmo da animatori, anche se la rotazione della funzione di guida a seconda del tipo di lavoro avrebbe dovuto portare ad attribuire il ruolo all’ “esperto” non all’adulto in quanto tale. Nella seconda parte, quando si trattava di costruire uno spettacolo e nessuno ne aveva esperienza, io proposi esplicitamente una costruzione collettiva, ma la risposta dei ragazzi di fatto fu quella di lasciare tutta l'iniziativa agli adulti, assumendo una posizione critica. Non si fecero coinvolgere, come se non riuscissero a impostare un rapporto con gli adulti diverso da quello di studenti (tutti tranne uno lo erano) nell’istituzione scolastica, e non cessassero di giocarne la costitutiva conflittualità con le armi di una nascente capacità dialettica.

Evidentemente non era sufficiente proporre a parole quello che era il capovolgimento di una realtà consolidata e mai messa in discussione nella loro esperienza fino all’adolescenza. O piuttosto la loro era la legittima reazione di chi si sente tradito dal “gran rifiuto”. Tato mi racconta oggi di quanto lo mettesse in crisi la mia richiesta di “darmi del tu” quando, verso la fine della terza media, alcuni colloqui fuori delle mura scolastiche avevano rivelato un rapporto più profondo e intimo tra di noi. Quella richiesta significava per lui un sottrarmi alla responsabilità di adulto in un rapporto educativo che l'uscita dallo stereotipo scolastico non faceva certo venire meno.

Tuttavia mi è sempre stato difficile accettare tranquillamente la contraddizione tra questa responsabilità e la loro indipendenza. Già quando occupavo un posto importante nella loro vita di tutti i giorni come insegnante, quando ero uno degli adulti che istituzionalmente e di fatto si assumevano il compito di occuparsi della loro crescita, c'era sempre una parte grande della loro vita cui non avevo accesso, non solo ovviamente fuori dalla scuola ma persino dentro. C'era un intreccio di rapporti, di eventi, tutta una storia sotterranea da cui ero tagliato fuori e di cui ero sostanzialmente geloso.

E oggi loro sono “grandi”, vivono ormai da adulti, e vivono senza che io abbia un ruolo “istituzionalmente” adulto nella loro vita: è possibile allora che la storia trascorra anche nella nostra stanza, là dove finora mi hanno sempre riservato la sedia a capotavola? Forse basta che verso la fine della serata la stanchezza allenti la tensione al ruolo di animatore, e che per una volta, invece di sentirmi responsabile di loro (per quella parte di loro che è in gioco lì quando siamo insieme), mi abbandoni a loro; forse basta questo perché qualcosa accada...

Marcello: <<Io vivo una situazione per certi versi simile a quella di Mario, in un ambiente poco stimolante. Da una parte questa “scatola”, come la chiama lui, delle esperienze passate che mi porto dietro, mi dà qualcosa in più, anche da un punto di vista della professionalità, ma dall’altra parte non ci sono riscontri, risposte positive. E sento che sempre di più vado perdendo questo qualcosa. A volte mi sembra di ritornare ad essere un insegnante tradizionale. Questo dipende anche dalla de-voluzione della scuola che sposta sempre più indietro il terreno del dibattito, delle questioni da risolvere, delle possibilità di scelta. E vivendo in questa cultura la riassorbo. Il fatto di avere fatto un’esperienza diversa mi fa capire questa regressione; il fatto di sentire che mi manca qualcosa e che è sempre meno possibile averla mi fa star male.>>

Mario: <<A me basta una sera insieme come questa e già è tornato tutto come prima.>>

Marcello: <<Ma questo non coinvolge il tuo ambiente di lavoro.>>

Mario: <<Non so se sono due cose separate, due metà di una stessa cosa. Ogni volta che reincontro certe persone la famosa scatola si apre.>>

Marcello: <<Ma ancora di più ti manca tutto il resto. Cosa vuol dire quando la scatola è chiusa?>>

Beatrice: <<Forse Mario vuol dire che la 3a H l'ha fatto crescere spiritualmente, gli ha dato la “tecnica” per affrontare la vita, il non aver paura di comunicare, di pensare. Per cui lui in qualsiasi situazione si trovi sta bene con se stesso, sa di poter essere sempre se stesso. Probabilmente tu vuoi qualcosa in più, che si realizzi anche al di fuori di te, nell’ambiente in cui sei, e che ti viene impedito dalle strutture sociali. Io cambierei mestiere, cioè cercherei di ricostruire una situazione come quella della 3a H al di fuori della scuola, visto che la scuola non lo consente.>>

Marcello: <<Qualcuno lo fa anche dentro la scuola, riuscendo a non creare separazione tra i propri interessi e il proprio lavoro. Ma sono persone eccezionali, che hanno una grossa forza e anche che non guardano in faccia a nessuno. Molti altri cambiano lavoro: conosco persone che hanno assunto il teatro come dimensione complessiva di vita.>>

Luca: <<E tu non hai mai pensato di fare qualcosa del genere?>>

Marcello: <<Io non so fare altro, tanto da poterci vivere. Non ho gli strumenti e probabilmente neppure la forza per farlo.>>

Claudia: <<Ma che cos’è la cosa che non va?>>

SULLE GINOCCHIA DI CLAUDIA

Marcello: <<Il problema si crea quando le cose che vuoi realizzare coinvolgono altri e non solo te. Se io volessi vivere oggi un’altra storia con le mani come quella con Micol, con chi me la vivo? con i miei ragazzini a scuola, in un ambiente in cui è impensabile il toccarsi?>>

Claudia: <<Probabilmente si tratta di ridimensionare queste cose riportandole alla realtà dell’ambiente in cui vivi. In fondo tu puoi fare il tuo lavoro a scuola e poi viverti queste cose con altre persone altrove.>>

Luca: <<È vero quello che abbiamo detto della completezza, ma è anche vero che dobbiamo comunque per vivere crearci delle situazioni, delle esperienze in cui noi crediamo. È chiaro che aver avuto insieme un’esperienza abbastanza complessiva ci condiziona, tutto il resto ci sembra monco, però è importante anche capire che un’esperienza come quella non possiamo più averla; quindi cerchiamo di fare ciò che è possibile, anche se sarà un’esperienza parziale.>>

Mario: <<Alla "Cagliero", scuola sperimentale com’era quando c'eravamo noi, qualunque cosa di strano si poteva farla...>>

Luca: <<Non è una questione di strutture. Noi non abbiamo fatto quell’esperienza perché era una scuola sperimentale, perché altri nella stessa scuola non hanno fatto la stessa esperienza. È una questione di persone e di circostanze che hanno creato un determinato gruppo che aveva delle affinità nel lavorare insieme. Le strutture contano fino a un certo punto: non è che la scuola ci desse chissà che... quella volta dal sotterraneo ci hanno anche sbattuto fuori.>>

Beatrice: <<Non saranno state condizioni sufficienti, ma erano pur sempre necessarie. Adesso non è più neppure possibile fare certe cose perché le strutture non lo consentono.>>

Marcello: <<Per fare un esempio: in "Cagliero" non esisteva la bocciatura e i problemi erano spostati su tutt’altro piano; dove sono ora il mio problema è chi bocciare, perché comunque bocciati ci saranno, indipendentemente da come la penso: così io mi trovo a discutere su chi e perché bocciare, accettando questo come terreno di discussione. Di fatto sto facendo qualcosa che era contrario alle mie convinzioni. È un problema in cui strutture e comportamenti personali sono intrecciati.>>

Mario: <<In questa situazione, sei costretto a prendere decisioni che contrastano con quello che hai dietro le spalle. Non puoi fare altrimenti.>>

Marcello: <<È proprio vero che non potrei fare altrimenti? E se così fosse dovrei concludere appunto che la mia situazione è quella di chi non può fare altrimenti che una cosa contraria alle sue convinzioni. In realtà non ho nessuna verifica che è la struttura a costringermi a certe scelte; non sono sicuro, ho paura di stare cambiando anch’io.>>

Beatrice: <<Ma in realtà tu non accetti, perché i dubbi te li fai venire.>>

Marcello: <<Magari l'anno prossimo, di fronte allo stesso tipo di scelta, i dubbi non li avrò neanche più.>>

Giacomo: <<Ma perché non riesci più a fare quello che eri riuscito a fare con noi?>>

Marcello: <<La risposta più facile è che la struttura me lo impedisce; una seconda potrebbe essere che non c'è più quella coincidenza di circostanze e di persone che allora avevano provocato certe dinamiche. E la risposta peggiore è che non ci provo neanche.>>

Micol: <<Ma tu puoi evolvere: non devi trasportare in altre situazioni quello che facevi con noi, ma elaborarlo dentro di te in altro modo. Non puoi ricreare ogni anno la 3a H: anche se la situazione, le circostanze, le strutture fossero le stesse: ricreare la 3a H sarebbe una paranoia; devi cercare altri sbocchi, per te stesso.>>

Giacomo: <<A me non convince la soluzione di cambiare ambiente: il mio lasciare l'università lo considero una fuga; non è comunque la soluzione dei problemi. Se hai delle difficoltà che sono tue, non le risolvi cambiando lavoro.>>

Micol: <<Secondo me si arriva a un certo punto in cui si sente che certe esperienze sono concluse e tu non hai più niente da dare. Capisci che gli sbocchi sono altri.>>

Beatrice: <<Se per Giacomo fosse stata veramente importante la matematica se ne sarebbe fregato di non avere rapporti in università. Siccome la matematica non è la sua vita ci rinuncia: non è una fuga, è una scelta, la scelta di comunicare con qualcuno piuttosto che fare una cosa che piace ma che costringe a rimanere isolati. Lo stesso per Marcello: certo gli piace il suo mestiere di insegnante, ma proprio in quanto come insegnante può avere un certo rapporto con i suoi ragazzi; se l’unica cosa che rimane è scrivere formule di matematica sulla lavagna e interrogare allora si elimina tutto il bello della faccenda.>>

Marcello: <<Riassunto perfetto.>>

Beatrice: <<Se cambiasse lavoro non sarebbe una fuga. Ha provato e riprovato a ricreare quello che gli piace, ma adesso la cosa è completamente cambiata.>>

Claudia: <<Sono cambiati i ragazzini.>>

Marcello: <<Non so: per una classe come la prima che ho adesso, se ci fosse in giro un’Anna, forse si potrebbe ricominciare. Ma io non ne ho la forza.>>

Micol: <<Non ne hai la forza o la voglia? Perché se tu ne avessi veramente voglia la forza la troveresti.>>

Marcello: <<Non è così semplice. È come le battaglie che facevi a scuola: una volta le facevi tutte, adesso ne fai una ogni dieci. È vero che potresti farle tutte, ma diventi nevrotico.>>

Beatrice: <<Adesso ti trovi più solo a farle.>>

Marcello: <<La cosa che ti brucia è che tu dopo ti trovi a incolpare te stesso: cos’hai fatto per ottenere le cose che vorresti? La posizione di Mario è più tranquillizzante: "io le cose ho tentato di farle, se poi la struttura le impedisce, non ci posso fare più nulla"; invece io non so effettivamente quali sono i margini di manovra, perché non li sperimento fino in fondo.>>

Micol: <<Non è necessario che tu fugga dalla scuola. Puoi anche rimanere e utilizzarla come fonte di reddito, dando naturalmente ciò che è giusto dare in termini di conoscenza. Dopo di che rivolgere questi tuoi interessi, energie, amore in altre cose.>>

Giacomo: <<Così diventerebbe proprio quel tipo di insegnante tradizionale di cui noi ci lamentavamo sui prati della Garfagnana. In questo si traduce il fatto di dare il minimo indispensabile.>>

Micol: <<Ma da quello che lui dice è proprio questo vogliono gli stessi ragazzi.>>

Giacomo: <<Questo non mi convince.>>

Claudia: <<Io correggerei il discorso di Micol nel senso che Marcello potrebbe rimanere aperto: se c'è un ragazzino che vuole costruire un rapporto, lui rimane disponibile.>>

Giacomo: <<Io, quando sono entrato alla "Cagliero" non è che volessi un certo tipo di rapporti.>>

Luca: <<Uno non può volere ciò che non conosce.>>

Micol: <<Io al liceo, con l'insegnante con cui mi interessava avere un rapporto, l'ho creato.>>

Luca: <<Quello di avere un rapporto personale con qualcuno è un problema diverso dal creare un ambiente particolare dove poter fare delle esperienze collettive, di lavoro, di cui ti rimane qualcosa. La scuola, come momento di crescita in cui si giocano altre cose è un fatto diverso: un bambino cui volere bene e che gli voglia bene se lo può trovare comunque, ma credo che non sia gratificante allo stesso livello.>>

Micol: <<Sono d'accordo, ma bisogna anche guardare in faccia la realtà, senza essere troppo utopistici. Sarà una cosa un po’ cinica, ma...>>

Marcello: <<Micol, non ci credo più ai tuoi discorsi cinici, perché sei anni dopo si scopre che erano difese per soffrire meno.>>

Claudia: <<Ormai la 3a H c'è stata e non ritorna più, perché la 3a H era quella. Era tutta una situazione particolare: è inutile cercare di ricreare da capo un ambiente. Al massimo puoi ricreare dei rapporti, non con tutti.>>

Giacomo: <<Dai! lunedì ci presentiamo tutti noi alla scuola di Marcello e si ricomincia: via i banchi!...>>

E mi viene voglia di sedermi sulle ginocchia di Claudia e di farmi coccolare.

 

 

3H 79

 

 

 

 

 

 

 



[1]  Luca Benecchi, "Le radici del futuro", in Cooperazione Educativa n. 1/2 1986.

[2]  Giovanna Minasi, "La passione di stampare", in Cooperazione Educativa n. 3 1986.