Marcello Sala

LE FERITE DELLA MENTE

Non smettere di insegnare a pensare

-pubblicato in- 

Cooperazione  EDUCATIVA

n. 1 / 2002

Junior

 

Chi ha prestato servizio militare sa quanto in quel contesto l’addestramento “tecnico” sia trascurabile, mentre non manca assolutamente mai l’esperienza dell’imposizione assurda. Quando capita, ingenuamente si dà la colpa alla stupidità del ceto militare, e invece si tratta di qualcosa di strutturale: il senso della pedagogia militare sta precisamente nell’obbedienza (qualcuno ricorda lo scontro di Don Milani con i cappellani militari?). Eseguire ordini assurdi è un addestramento, significa imparare un principio fondamentale: è indispensabile per la sopravvivenza, prima ancora che per lo scopo stesso di una forza militare, che gli ordini non siano discussi, ma incondizionatamente eseguiti, da chi ha una visione troppo limitata della situazione e non può quindi averne un giudizio coretto (naturalmente il fatto che chi dà gli ordini abbia una visione più ampia della situazione e che dia ordini adeguati costituisce una premessa, che qui non discuteremo).

La guerra è una condizione in cui non può esservi spazio per la discussione, né tanto meno per una divergenza di sentimenti. Per Tolstoj la guerra non è una scienza o una tecnica, ma una storia, ovvero una catena di contingenze; in “Guerra e pace” ci ha insegnato (precedendo le moderne teorie del “caos deterministico”) come da piccoli eventi locali casuali e dalla loro amplificazione e deriva possono scaturire esiti di massa. Quello che viene definito “il morale della truppa” è un elemento decisivo e quindi, sempre per la sopravvivenza e per il raggiungimento dello scopo, occorre non solo che tutti condividano l’obiettivo ma che ne siano emotivamente coinvolti, mossi da un sentire comune, che siano dunque com-mossi.

Ho maturato una profonda avversione per una “pedagogia della commozione” che nasce da un errore espistemologico, da una falsa premessa, quella che “nella scuola non è dato spazio ai sentimenti”: nella scuola, come dovunque, che lo si voglia o no, i sentimenti ci sono, magari “sottobanco”; il problema semmai è che non c’è un riconoscimento del loro ruolo strutturale nell’educazione, il problema è di dare loro forma attraverso l’esperienza e una possibilità di rielaborazione; come per le conoscenze del resto. Sulla base di questa falsa premessa ci si adopera, in ambito educativo, per “suscitare” sentimenti. Naturalmente soltanto quelli buoni. Prova ne ho quando uso la parola “com-mozione” nel suo significato esatto (etimologico, ma così trasparente) di “muovere insieme”, riferendola alle adunate oceaniche di Hitler: lo sconcerto e lo scandalo testimoniano di una rimozione. Rimozione della parte dolorosa e soprattutto conflittuale dei sentimenti. Ma di questo lasciamo parlare gli psicologi che commentano sui giornali gli omicidi compiuti da quegli adolescenti che vicini di casa e insegnanti costernati ricordano come “ragazzi così per bene”.

La guerra, proprio perché richiede compattezza emotiva, richiede com-mozione, e perciò non può lasciare spazio alla ragione e alla conoscenza, che hanno la caratteristica strutturale di essere critiche: è questo il senso della forma di comunicazione organica allo stato di guerra, la propaganda. “Il sonno della ragione genera mostri” è il titolo che ha dato a una serie di sue opere Francisco Goya, autore di quei “Disastri della guerra” in cui, rompendo con una tradizione epica e celebrativa, la mostra grondante di orrore.

Giusto dieci anni fa scrivevo su questa rivista un articolo dal titolo “La guerra e la manutenzione del pensiero”: la guerra era apparentemente un’altra, ma ora di nuovo mi trovo a incanalare la rabbia dell’impotenza e lo sgomento nel tentativo di usare ciò che ho imparato come educatore per salvare qualcosa di ciò che in guerra va perduto. Quando si è in guerra è troppo tardi, perché la guerra, per sua necessità, implica l’impossibilità di rilevare, discutere, eliminare proprio quegli errori epistemologici che ne sono alla base e che ne saranno, come ferite della mente, gli effetti; forse i più profondi perché vanno oltre la morte dei corpi individuali.

La guerra elimina la complessità perché vive di semplificazioni. Ecco perché quella delle semplificazioni è una logica che prepara e sostiene la guerra. “Complessità” non è un termine generico da attribuire a tutto ciò che per il momento è ingarbugliato e confuso. Un’idea chiara e distinta della “complessità” è che esistono diversi livelli di pertinenza di un fenomeno, che questi livelli vanno tenuti distinti per evitare errori epistemologici dalle conseguenze distruttive, ma contemporaneamente sono integrati, perché la vita è esattamente questo: integrazione di livelli distinti di organizzazione (come i diversi organi nell’organismo).

Dentro la guerra una delle parti combatte per eliminare l’altra, ma la guerra in sé elimina ciò che la può contrastare: lo spirito critico. Lo spirito critico, se non si cede a una logica semplificatoria (e perciò bellica) che contrappone il cognitivo all’affettivo, il razionale all’emotivo, non è l’alternativa alla solidarietà, ma è ciò che impedisce alla solidarietà di essere anch’essa funzionale alla guerra attraverso la forma della contrapposizione amici/nemici.

Nel mondo animale i deboli (i piccoli in particolare) vengono protetti (in genere dai genitori biologici ma a volte anche dal branco) o eliminati (dai predatori ma a volte anche dai genitori) attraverso comportamenti innati, geneticamente trasmessi, che rispondono al principio di conservazione della vita a di là delle vite. Con la specie umana la vita supera una soglia qualitativa: nella misura in cui anche la conservazione delle vite individuali diventa un “valore” è l’organizzazione sociale che risponde a questa funzione, al di là dei meccanismi genetici. È da questo punto dell’evoluzione che relazioni tra individui e fenomeni sociali diventano due livelli distinti e integrati.

LA VERITà

Abbiamo avuto il merito di scoprire e raccontare a scuola le storie, nascoste da quell’unica storia scritta dai vincitori, dai potenti. Ma anche qui una logica di guerra ci ha fatto contrapporre la soggettività delle storie a una presunta oggettività (più o meno “scientifica”) della storia. E forse poi abbiamo dimenticato la nostra ricerca su questa difficile relazione per coltivare l’ “autobiografia”, che viene dalla letteratura e dalla psicoanalisi, più adeguata a saturare bisogni individuali. E ora ci ritroviamo con la difficoltà a pensare la tragica attualità senza l’indispensabile strumento di una conoscenza storica.

Dire che ogni soggetto ha diritto a raccontare la propria storia è solo una parte del discorso, che può bastare a vivere nello stesso mondo soltanto se i soggetti non condividono alcun contesto: la “globalizzazione” ci ha precluso per sempre questa comoda via d’uscita. Se a qualche livello ha senso parlare di una umanità che abita il pianeta e di una catena di contingenze sviluppatasi nel tempo e che la riguarda nel suo complesso, allora bisogna ammettere che è pertinente porsi il problema di una Storia che è qualcosa di diverso e di più della somma delle storie individuali (le quali sono del resto individuali solo nel soggetto narrante).

E qui non possiamo non sporcarci le mani con il problema della “verità”. Sarà paradossale, ma se legittimamente insegniamo che non è possibile stabilire qual è la verità, la menzogna è invece definibile perché è indipendente dal contenuto e riguarda l’azione del soggetto. In questi giorni, come in ogni situazione di guerra, abbondano esempi di una di queste azioni positive di menzogna, quella che consiste nel nascondere una parte facendo credere che ciò che si mostra è il tutto. E la parte che manca spesso è proprio quella che viene dalla conoscenza storica.

E allora: credo alla storia che racconta Bin Laden o a quella che raccontano Bush, Berlusconi e Oriana Fallaci sull’Occidente (che è anche la mia storia, anche se non “soggettivamente”)? E ci credo perché ho deciso prima con chi stare? Oppure mi pongo il problema della “verità storica”? Non è necessario cadere nella trappola dell’oggettività ma qualche forma di intersoggettività andrà pure costruita se si vuole accedere a “un livello logico superiore”; perché è soltanto lì che si può pensare di risolvere il conflitto, a partire dal fatto che insieme alle rappresentazioni soggettive si ricostruiscono come tali anche i relativi punti di vista. Perché il conflitto è tale solo se c’è un contesto dove sia possibile rappresentarlo come tale, altrimenti ognuno resta solo, contro l’altro, rinchiuso nella propria rappresentazione soggettiva, emotivamente connotata [1].

E in questo caso vince il più forte, e non ha alcuna rilevanza chi ha ragione.

Naturalmente so di fare una provocazione usando un termine ambivalente come “ragione” che (anche per ragioni di “archeologia delle idee”) mette in relazione il campo semantico delle forme di pensiero con quello giudiziario.

Quando parliamo ai nostri alunni di una “giustizia” e addirittura pretendiamo che sia “internazionale” siamo coscienti del fatto che nessuna giustizia è possibile senza una forma di “verità giudiziaria”? senza pretendere che sia la Verità di Socrate, ma che consenta decisioni, a cominciare da qualche risarcimento di chi ha subìto dei torti, che è uno dei sensi fondanti del vivere sociale.

Possiamo ridicolizzare la materia “educazione civica”, ma come insegniamo ai bambini la responsabilità, la cui mancanza gli psicologi di cui sopra indicano come una delle chiavi del disagio (e della criminalità) giovanile? Una responsabilità che si misuri anche sugli effetti delle proprie azioni e non soltanto sulla soggettività delle intenzioni, sugli effetti e non solo sulle cause del comportamento, sul benessere di tutti e non soltanto proprio, esteso tuttalpiù al proprio circolo empatico. Ci ha insegnato Nelson Mandela che una riconciliazione è possibile non con l’oblio, non solo con la pietà, ma con il perdono che passa attraverso l’assunzione-attribuzione di responsabilità, la quale richiede una ricostruzione storica sicuramente intersoggettiva.

GENTIL-UOMINI?

Nel 1991, durante la guerra precedente a questa (o, da un altro punto di vista, durante la fase precedente della stessa guerra), venne riportato dai giornali un episodio che richiama antecedenti letterari e testimonianze storiche relative alla Grande Guerra  (riflettiamo anche su questa denominazione). Due gruppi di ufficiali, irakeni da una parte e americani dall’altra, durante le rispettive missioni di osservazione, si erano inopinatamente trovati nello stesso luogo. Anziché sterminarsi a vicenda si erano cavallerescamente scambiati il saluto militare, rientrando poi alle proprie basi. Ricordo il commento positivo di un nostro amico che nell’episodio leggeva la testimonianza del sopravvivere, nella barbarie della guerra, di sentimenti di umanità.

Anche qui si tratta del problema epistemologico di vedere (e quello politico di mostrare) una parte e non il tutto, ovvero di non vedere il contesto appena più ampio di una situazione. Perché non vedere quegli ufficiali tanto “cavallereschi” per quello che sono: degli sterminatori di civili. Che questa sia diventata la loro caratterizzazione professionale nel corso dei secoli lo dicono appunto la Storia con i suoi documenti e la scienza con i suoi dati statistici.

Allargando il quadro, attribuendo i significati in relazione ai contesti, si può interpretare il gesto di quegli ufficiali anche da un altro punto di vista: forse il fatto di guardarsi negli occhi e il contatto fisico è una condizione che inibisce il guerriero moderno abituato a uccidere grandi numeri di  persone senza vederle morire. E allora si può interpretare l’episodio come il riconoscimento reciproco, attraverso forme rituali, di appartenenti a una stessa casta (maschile). Non a caso la parola “cavalleresco” si riferisce a un determinato contesto culturale e storico, in cui i guerrieri utilizzavano armi che implicavano il toccare direttamente l’avversario, il vedere il suo sangue, l’udire le sue grida.

Sono solo sentimenti di pietà o di rispetto per i bambini, che non vanno più a letto presto, che impediscono di mostrare il contesto reale, cioè gli effetti della guerra, in quella televisione così ricca di parole su la guerra?

SILENZIO E RUMORE

L’11 settembre ero in una libreria del centro per la presentazione di un libro sullo yoga. Davanti ai nostri occhi un gruppo di praticanti eseguiva una dimostrazione: movimenti e posture ai limiti delle possibilità fisiche, eppure i corpi comunicavano una grande naturalità. Una pratica che ho sempre associato al silenzio (e all’ascolto) sembrava coinvolgere nel silenzio anche l’incongruo ambiente circostante.

Poi la persona che dirigeva il gruppo ha annunciato quanto era successo. Forse ha detto la parola “grave” e ha concluso con qualcosa come “continuiamo a costruire” nel momento in cui manifestava l’intenzione di proseguire la dimostrazione: non ricordo bene; ricordo invece perfettamente la compostezza della voce e la semplicità delle poche parole con cui ha annunciato che vi era stato un attentato e le torri di New York erano state rase al suolo, lasciando che fosse l’evento a comunicare se stesso e che le persone avessero lo spazio per mettersi in relazione con esso.

L’emozione è un fatto fisico. Scarichi ormonali, vasocostrizioni e vasodilatazioni, modificazioni del tono muscolare nei vari distretti corporei secondo precise distribuzioni mettono il corpo in condizioni di reagire aumentando le possibilità di sopravvivere. La coscienza di queste modificazioni viene dopo, anche in senso evolutivo: l’uomo è l’unico essere vivente ad avere sentimenti, con le loro rappresentazioni mentali e i loro oggetti, che può comunicare.

Questa emozione aveva il suo centro allo stomaco, una stretta che andava a bloccare il respiro. Non so se il termine adeguato sia “angoscia”, so che alzava una barriera di silenzio dall’esterno. E dentro questo spazio i pensieri: non erano certo chiari e distinti, ma avevano a che fare con ciò che era accaduto, le modificazioni della realtà che comportava, per me, per tutti.

Lasciando la libreria sono passato frettolosamente davanti a una selva di schermi che mi rimandavano un “mezzobusto” di cui non distinguevo le parole. Ma su alcuni scorrevano le immagini esagerate di esplosioni: ci ho messo più di un istante a capire che si trattava di un film.

Da subito ciò che era accaduto nella realtà è entrato nel circuito mediatico, inglobato nella matrice usuale di dibattiti, retorica, strumentalizzazione politica, nel flusso continuo, che ormai è divenuto rumore di fondo.

Passano così tre giorni, finché arriva il momento in cui tutto il mondo civile dovrebbe fermarsi e fare silenzio attorno a quanto accaduto. Sono a casa e ho la televisione accesa. I tre minuti sono riempiti da un abile montaggio di immagini, da scritte e da una musica triste e solenne. Sono emozionato, ma questa volta il centro di applicazione è la gola e mi vengono le lacrime agli occhi. Immagino milioni di persone nelle stesse condizioni e capisco la differenza: questa è commozione.

Il silenzio certo può essere un significante da riempire di significato, ma è in se stesso, nella sua materialità percettiva, che per il nostro udito esso ha una qualità tanto potente da essere insopportabile. Il silenzio come spazio in cui il pensiero cessi di essere separato dall’emozione, senza la quale non ha qualità affettiva ed etica, e l’emozione dal pensiero, senza il quale è in balia di qualsiasi potere manipolatorio.

Solo quando saremo morti potremo fare silenzio? (inutile aggiungere che vorrei che questa frase non fosse motivo di commozione, ma un pensiero, carico di emozione, da pensare).

FINCTION

Nemmeno il più accanito costruttivista negherebbe che esiste qualche differenza tra quella che abbiamo chiamato storia e quella che fino a poco tempo fa abbiamo chiamato invenzione fantastica, e che in questa differenza c’entra in qualche modo il rapporto con la realtà, con ciò che è “realmente” accaduto.

Di solito il problema che ci si pone come genitori o insegnanti, soprattutto nei confronti di bambini piccoli, è di convincerli che l’orrore che vedono alla TV non è reale (la parola che di solito usiamo però è “vero”), perché non si spaventino di una paura superiore alle loro forze. E sappiamo che, per lo strutturarsi di un equilibrio emotivo nello sviluppo dei bambini, il mondo della creazione fantastica è fondamentale.

Una delle premesse di quella civiltà che si sovrappone alla biologia delle generazioni che si succedono è quella di investire sui figli culturalmente oltre che geneticamente. Il riconoscere loro primariamente un diritto alla felicità ci porta immediatamente al dovere di proteggerli. Ma in quale mondo dovrebbero essere felici? E questo ci porta alla politica. Perché il problema non è forse anche, contemporaneamente, complementariamente, di insegnare loro che la realtà non è quella del “Mulino bianco”?

Insisto sull’ “anche”, perché l’errore peggiore che facciamo non è quello di proteggerli troppo o di esporli troppo alla realtà, ma, ancora una volta, di separare le due cose e di scegliere una contro l’altra, dimenticando che la vita umana nasce, e non solo simbolicamente, dall’unione complementare del maschile e del femminile (o forse oggi tecniche come la clonazione forniscono una possibilità concreta al delirio di onnipotenza di maschi e femmine?).

Ce la siamo costruita noi la difficoltà a distinguere il reale dal virtuale (infatti si parla, con una espressione paradossale, di “realtà virtuale”). Anche qui lascio a psicologi, sociologi, antropologi e cyberscienziati di fare il loro mestiere, ma a noi resta da fare il nostro di insegnanti. Ho speso una buona parte del mio impegno professionale come insegnante di scienze a convincermi (al liceo non avevo studiato bene Kant e ho dovuto rimediare più tardi con Bateson) e convincere altri che la scienza non è “oggettiva”, che non esiste una realtà “lì fuori” che si svela progressivamente alla nostra coscienza, e che la verità non è una sua rappresentazione interna. Come sempre la guerra abolisce la “e” e impone la “o” (quella dell’ aut-aut non quella del vel): per combattere la nostra guerra contro l’ “oggettività” ci siamo trovati ad affermare il paradigma della soggettività, abbandonandoci a una interpretazione ingenua dal punto di vista del pensiero (ignorando quanti avevano pensato al problema, da Kant alla fenomenologia), ma molto efficace dal punto di vista delle scelte formative.

E allora, dopo aver visto la sceneggiatura perfetta della distruzione delle torri di NewYork, da insegnante mi chiedo: come potremo far capire ai bambini che non si tratta di una finction?

 



[1]   Su queste tematiche: Marianella Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili, Le Vespe 2000.