Chi ha prestato servizio militare sa quanto in quel
contesto l’addestramento “tecnico” sia trascurabile, mentre non manca
assolutamente mai l’esperienza dell’imposizione assurda. Quando
capita, ingenuamente si dà la colpa alla stupidità del ceto militare, e
invece si tratta di qualcosa di strutturale: il senso della pedagogia
militare sta precisamente nell’obbedienza (qualcuno ricorda lo scontro di Don
Milani con i cappellani militari?). Eseguire ordini
assurdi è un addestramento, significa imparare un principio fondamentale: è
indispensabile per la sopravvivenza, prima ancora che per lo scopo stesso di
una forza militare, che gli ordini non siano discussi, ma incondizionatamente
eseguiti, da chi ha una visione troppo limitata della situazione e non può
quindi averne un giudizio coretto (naturalmente il fatto che chi dà gli
ordini abbia una visione più ampia della situazione e che dia ordini adeguati
costituisce una premessa, che qui non discuteremo). La
guerra è una condizione in cui non può esservi spazio per la
discussione, né tanto meno per una divergenza di sentimenti. Per Tolstoj la
guerra non è una scienza o una tecnica, ma una storia, ovvero una catena di
contingenze; in “Guerra e pace” ci ha insegnato (precedendo le moderne teorie
del “caos deterministico”) come da piccoli eventi locali casuali e dalla loro
amplificazione e deriva possono scaturire esiti di massa. Quello che viene
definito “il morale della truppa” è un elemento decisivo e quindi, sempre per
la sopravvivenza e per il raggiungimento dello scopo, occorre non solo che
tutti condividano l’obiettivo ma che ne siano emotivamente coinvolti, mossi
da un sentire comune, che siano dunque com-mossi. Ho
maturato una profonda avversione per una “pedagogia della commozione” che nasce
da un errore espistemologico, da una falsa
premessa, quella che “nella scuola non è dato spazio ai sentimenti”: nella
scuola, come dovunque, che lo si voglia o no, i sentimenti ci sono, magari
“sottobanco”; il problema semmai è che non c’è un riconoscimento del loro
ruolo strutturale nell’educazione, il problema è di dare loro forma attraverso
l’esperienza e una possibilità di rielaborazione; come per le conoscenze del
resto. Sulla base di questa falsa premessa ci si adopera, in ambito
educativo, per “suscitare” sentimenti. Naturalmente soltanto quelli buoni.
Prova ne ho quando uso la parola “com-mozione” nel suo significato esatto
(etimologico, ma così trasparente) di “muovere insieme”, riferendola alle
adunate oceaniche di Hitler: lo sconcerto e lo scandalo testimoniano di una
rimozione. Rimozione della parte dolorosa e soprattutto conflittuale dei
sentimenti. Ma di questo lasciamo parlare gli psicologi che commentano sui
giornali gli omicidi compiuti da quegli adolescenti che vicini di casa e
insegnanti costernati ricordano come “ragazzi così per bene”. La
guerra, proprio perché richiede compattezza emotiva, richiede com-mozione, e
perciò non può lasciare spazio alla ragione e alla conoscenza, che hanno la
caratteristica strutturale di essere critiche: è questo il senso della
forma di comunicazione organica allo stato di guerra, la propaganda.
“Il sonno della ragione genera mostri” è il titolo che ha dato a una serie di
sue opere Francisco Goya, autore di quei “Disastri della guerra” in cui,
rompendo con una tradizione epica e celebrativa, la mostra grondante di
orrore. Giusto dieci anni fa scrivevo su questa rivista un articolo
dal titolo “La guerra e la manutenzione del pensiero”: la guerra era
apparentemente un’altra, ma ora di nuovo mi trovo a incanalare la rabbia
dell’impotenza e lo sgomento nel tentativo di usare ciò che ho imparato come
educatore per salvare qualcosa di ciò che in guerra va perduto. Quando si è
in guerra è troppo tardi, perché la guerra, per sua necessità, implica
l’impossibilità di rilevare, discutere, eliminare proprio quegli errori
epistemologici che ne sono alla base e che ne saranno, come ferite della
mente, gli effetti; forse i più profondi perché vanno oltre la morte dei
corpi individuali. La guerra elimina la complessità perché vive di semplificazioni.
Ecco perché quella delle semplificazioni è una logica che prepara e sostiene
la guerra. “Complessità” non è un termine generico da attribuire a tutto ciò
che per il momento è ingarbugliato e confuso. Un’idea chiara e distinta della
“complessità” è che esistono diversi livelli di pertinenza di un fenomeno,
che questi livelli vanno tenuti distinti per evitare errori epistemologici
dalle conseguenze distruttive, ma contemporaneamente sono integrati,
perché la vita è esattamente questo: integrazione di livelli distinti di
organizzazione (come i diversi organi nell’organismo). Dentro la guerra una delle parti combatte per eliminare
l’altra, ma la guerra in sé elimina ciò che la può contrastare: lo spirito
critico. Lo spirito critico, se non si cede a una logica semplificatoria
(e perciò bellica) che contrappone il cognitivo all’affettivo, il razionale
all’emotivo, non è l’alternativa alla solidarietà, ma è ciò che impedisce
alla solidarietà di essere anch’essa funzionale alla guerra attraverso la
forma della contrapposizione amici/nemici. Nel mondo animale i deboli (i piccoli in particolare)
vengono protetti (in genere dai genitori biologici ma a volte anche dal
branco) o eliminati (dai predatori ma a volte anche dai genitori) attraverso
comportamenti innati, geneticamente trasmessi, che rispondono al principio di
conservazione della vita a di là delle vite. Con la specie umana la vita supera
una soglia qualitativa: nella misura in cui anche la conservazione delle vite
individuali diventa un “valore” è l’organizzazione sociale che risponde a
questa funzione, al di là dei meccanismi genetici. È da questo punto
dell’evoluzione che relazioni tra individui e fenomeni sociali diventano due
livelli distinti e integrati. LA
VERITà Abbiamo
avuto il merito di scoprire e raccontare a scuola le storie, nascoste
da quell’unica storia scritta dai vincitori, dai potenti. Ma anche qui una
logica di guerra ci ha fatto contrapporre la soggettività delle storie a una
presunta oggettività (più o meno “scientifica”) della storia. E forse poi
abbiamo dimenticato la nostra ricerca su questa difficile relazione per
coltivare l’ “autobiografia”, che viene dalla letteratura e dalla psicoanalisi,
più adeguata a saturare bisogni individuali. E ora ci ritroviamo con la
difficoltà a pensare la tragica attualità senza l’indispensabile strumento di
una conoscenza storica. Dire
che ogni soggetto ha diritto a raccontare la propria storia è solo una parte
del discorso, che può bastare a vivere nello stesso mondo soltanto se i
soggetti non condividono alcun contesto: la “globalizzazione” ci ha precluso
per sempre questa comoda via d’uscita. Se a qualche livello ha senso parlare
di una umanità che abita il pianeta e di una catena di contingenze
sviluppatasi nel tempo e che la riguarda nel suo complesso, allora bisogna
ammettere che è pertinente porsi il problema di una Storia che è
qualcosa di diverso e di più della somma delle storie individuali (le quali
sono del resto individuali solo nel soggetto narrante). E qui non possiamo non sporcarci le
mani con il problema della “verità”. Sarà paradossale, ma se legittimamente
insegniamo che non è possibile stabilire qual è la verità, la menzogna è
invece definibile perché è indipendente dal contenuto e riguarda l’azione del
soggetto. In questi giorni, come in ogni situazione di guerra, abbondano
esempi di una di queste azioni positive di menzogna, quella che consiste nel
nascondere una parte facendo credere che ciò che si mostra è il tutto. E la
parte che manca spesso è proprio quella che viene dalla conoscenza storica. E
allora: credo alla storia che racconta Bin Laden o a quella che raccontano
Bush, Berlusconi e Oriana Fallaci sull’Occidente (che è anche la mia
storia, anche se non “soggettivamente”)? E ci credo perché ho deciso prima
con chi stare? Oppure mi pongo il problema della “verità storica”? Non è
necessario cadere nella trappola dell’oggettività ma qualche forma di
intersoggettività andrà pure costruita se si vuole accedere a “un livello
logico superiore”; perché è soltanto lì che si può pensare di risolvere il
conflitto, a partire dal fatto che insieme alle rappresentazioni soggettive
si ricostruiscono come tali anche i relativi punti di vista. Perché il
conflitto è tale solo se c’è un contesto dove sia possibile rappresentarlo
come tale, altrimenti ognuno resta solo, contro l’altro, rinchiuso nella
propria rappresentazione soggettiva, emotivamente connotata [1]. E
in questo caso vince il più forte, e non ha alcuna rilevanza chi ha
ragione. Naturalmente
so di fare una provocazione usando un termine ambivalente come “ragione” che
(anche per ragioni di “archeologia delle idee”) mette in relazione il campo
semantico delle forme di pensiero con quello giudiziario. Quando
parliamo ai nostri alunni di una “giustizia” e addirittura pretendiamo che
sia “internazionale” siamo coscienti del fatto che nessuna giustizia è
possibile senza una forma di “verità giudiziaria”? senza pretendere che sia
la Verità di Socrate, ma che consenta decisioni, a cominciare da qualche
risarcimento di chi ha subìto dei torti, che è uno dei sensi fondanti del
vivere sociale. Possiamo
ridicolizzare la materia “educazione civica”, ma come insegniamo ai bambini
la responsabilità, la cui mancanza gli psicologi di cui sopra indicano come
una delle chiavi del disagio (e della criminalità) giovanile? Una
responsabilità che si misuri anche sugli effetti delle proprie azioni e non
soltanto sulla soggettività delle intenzioni, sugli effetti e non solo sulle
cause del comportamento, sul benessere di tutti e non soltanto proprio, esteso
tuttalpiù al proprio circolo empatico. Ci ha
insegnato Nelson Mandela che una riconciliazione è possibile non con l’oblio,
non solo con la pietà, ma con il perdono che passa attraverso
l’assunzione-attribuzione di responsabilità, la quale richiede una ricostruzione
storica sicuramente intersoggettiva. GENTIL-UOMINI? Nel
1991, durante la guerra precedente a questa (o, da un altro punto di vista,
durante la fase precedente della stessa guerra), venne riportato dai giornali
un episodio che richiama antecedenti letterari e testimonianze storiche
relative alla Grande Guerra (riflettiamo
anche su questa denominazione). Due gruppi di ufficiali, irakeni da una parte
e americani dall’altra, durante le rispettive missioni di osservazione, si
erano inopinatamente trovati nello stesso luogo. Anziché sterminarsi a
vicenda si erano cavallerescamente scambiati il saluto militare, rientrando
poi alle proprie basi. Ricordo il commento positivo di un nostro amico che
nell’episodio leggeva la testimonianza del sopravvivere, nella barbarie della
guerra, di sentimenti di umanità. Anche
qui si tratta del problema epistemologico di vedere (e quello politico di
mostrare) una parte e non il tutto, ovvero di non vedere il contesto appena
più ampio di una situazione. Perché non vedere quegli ufficiali tanto
“cavallereschi” per quello che sono: degli sterminatori di civili. Che questa
sia diventata la loro caratterizzazione professionale nel corso dei secoli lo
dicono appunto la Storia con i suoi documenti e la scienza con i suoi dati
statistici. Allargando
il quadro, attribuendo i significati in relazione ai contesti, si può
interpretare il gesto di quegli ufficiali anche da un altro punto di vista:
forse il fatto di guardarsi negli occhi e il contatto fisico è una condizione
che inibisce il guerriero moderno abituato a uccidere grandi numeri di persone senza vederle morire. E allora si
può interpretare l’episodio come il riconoscimento reciproco, attraverso
forme rituali, di appartenenti a una stessa casta (maschile). Non a caso la
parola “cavalleresco” si riferisce a un determinato contesto culturale e
storico, in cui i guerrieri utilizzavano armi che implicavano il toccare
direttamente l’avversario, il vedere il suo sangue, l’udire le sue grida. Sono
solo sentimenti di pietà o di rispetto per i bambini, che non vanno più a
letto presto, che impediscono di mostrare il contesto reale, cioè gli effetti
della guerra, in quella televisione così ricca di parole su la guerra? SILENZIO
E RUMORE L’11 settembre ero in una libreria
del centro per la presentazione di un libro sullo yoga. Davanti ai nostri
occhi un gruppo di praticanti eseguiva una dimostrazione: movimenti e posture
ai limiti delle possibilità fisiche, eppure i corpi comunicavano una grande
naturalità. Una pratica che ho sempre associato al silenzio (e all’ascolto)
sembrava coinvolgere nel silenzio anche l’incongruo ambiente circostante. Poi
la persona che dirigeva il gruppo ha annunciato quanto era successo. Forse ha
detto la parola “grave” e ha concluso con qualcosa come “continuiamo a
costruire” nel momento in cui manifestava l’intenzione di proseguire la
dimostrazione: non ricordo bene; ricordo invece perfettamente la compostezza
della voce e la semplicità delle poche parole con cui ha annunciato che vi
era stato un attentato e le torri di New York erano state rase al suolo,
lasciando che fosse l’evento a comunicare se stesso e che le persone avessero
lo spazio per mettersi in relazione con esso. L’emozione
è un fatto fisico. Scarichi ormonali, vasocostrizioni e vasodilatazioni,
modificazioni del tono muscolare nei vari distretti corporei secondo precise
distribuzioni mettono il corpo in condizioni di reagire aumentando le
possibilità di sopravvivere. La coscienza di queste modificazioni viene dopo,
anche in senso evolutivo: l’uomo è l’unico essere vivente ad avere sentimenti,
con le loro rappresentazioni mentali e i loro oggetti, che può comunicare. Questa
emozione aveva il suo centro allo stomaco, una stretta che andava a bloccare
il respiro. Non so se il termine adeguato sia “angoscia”, so che alzava una
barriera di silenzio dall’esterno. E dentro questo spazio i pensieri: non
erano certo chiari e distinti, ma avevano a che fare con ciò che era
accaduto, le modificazioni della realtà che comportava, per me, per
tutti. Lasciando
la libreria sono passato frettolosamente davanti a una selva di schermi che
mi rimandavano un “mezzobusto” di cui non distinguevo le parole. Ma su alcuni
scorrevano le immagini esagerate di esplosioni: ci ho messo più di un istante
a capire che si trattava di un film. Da
subito ciò che era accaduto nella realtà è entrato nel circuito mediatico,
inglobato nella matrice usuale di dibattiti, retorica, strumentalizzazione
politica, nel flusso continuo, che ormai è divenuto rumore di fondo. Passano
così tre giorni, finché arriva il momento in cui tutto il mondo civile
dovrebbe fermarsi e fare silenzio attorno a quanto accaduto. Sono a
casa e ho la televisione accesa. I tre minuti sono riempiti da un abile
montaggio di immagini, da scritte e da una musica triste e solenne. Sono
emozionato, ma questa volta il centro di applicazione è la gola e mi vengono
le lacrime agli occhi. Immagino milioni di persone nelle stesse condizioni e
capisco la differenza: questa è commozione. Il
silenzio certo può essere un significante da riempire di significato, ma è in
se stesso, nella sua materialità percettiva, che per il nostro udito esso ha
una qualità tanto potente da essere insopportabile. Il silenzio come spazio
in cui il pensiero cessi di essere separato dall’emozione, senza la quale non
ha qualità affettiva ed etica, e l’emozione dal pensiero, senza il quale è in
balia di qualsiasi potere manipolatorio. Solo
quando saremo morti potremo fare silenzio? (inutile aggiungere che vorrei che
questa frase non fosse motivo di commozione, ma un pensiero, carico di
emozione, da pensare). FINCTION Nemmeno il più accanito
costruttivista negherebbe che esiste qualche differenza tra quella che
abbiamo chiamato storia e quella che fino a poco tempo fa abbiamo chiamato
invenzione fantastica, e che in questa differenza c’entra in qualche modo il
rapporto con la realtà, con ciò che è “realmente” accaduto. Di
solito il problema che ci si pone come genitori o insegnanti, soprattutto nei
confronti di bambini piccoli, è di convincerli che l’orrore che vedono alla
TV non è reale (la parola che di solito usiamo però è “vero”), perché non si
spaventino di una paura superiore alle loro forze. E sappiamo che, per lo
strutturarsi di un equilibrio emotivo nello sviluppo dei bambini, il mondo
della creazione fantastica è fondamentale. Una
delle premesse di quella civiltà che si sovrappone alla biologia delle
generazioni che si succedono è quella di investire sui figli culturalmente
oltre che geneticamente. Il riconoscere loro primariamente un diritto alla
felicità ci porta immediatamente al dovere di proteggerli. Ma in quale mondo
dovrebbero essere felici? E questo ci porta alla politica. Perché il problema
non è forse anche, contemporaneamente, complementariamente,
di insegnare loro che la realtà non è quella del “Mulino bianco”? Insisto
sull’ “anche”, perché l’errore peggiore che facciamo non è quello di
proteggerli troppo o di esporli troppo alla realtà, ma, ancora una volta, di
separare le due cose e di scegliere una contro l’altra, dimenticando che la
vita umana nasce, e non solo simbolicamente, dall’unione complementare del
maschile e del femminile (o forse oggi tecniche come la clonazione
forniscono una possibilità concreta al delirio di onnipotenza di maschi e
femmine?). Ce
la siamo costruita noi la difficoltà a distinguere il reale dal virtuale
(infatti si parla, con una espressione paradossale, di “realtà virtuale”).
Anche qui lascio a psicologi, sociologi, antropologi e cyberscienziati
di fare il loro mestiere, ma a noi resta da fare il nostro di insegnanti. Ho
speso una buona parte del mio impegno professionale come insegnante di
scienze a convincermi (al liceo non avevo studiato bene Kant
e ho dovuto rimediare più tardi con Bateson) e
convincere altri che la scienza non è “oggettiva”, che non esiste una realtà
“lì fuori” che si svela progressivamente alla nostra coscienza, e che la
verità non è una sua rappresentazione interna. Come sempre la guerra abolisce
la “e” e impone la “o” (quella dell’ aut-aut non quella del vel): per combattere la nostra guerra contro l’
“oggettività” ci siamo trovati ad affermare il paradigma della soggettività,
abbandonandoci a una interpretazione ingenua dal punto di vista del pensiero
(ignorando quanti avevano pensato al problema, da Kant
alla fenomenologia), ma molto efficace dal punto di vista delle scelte
formative. E
allora, dopo aver visto la sceneggiatura perfetta della distruzione delle
torri di NewYork, da insegnante mi chiedo: come
potremo far capire ai bambini che non si tratta di una finction? |