Marcello Sala

PROGETTO “FATTORIA AMICA”

relazione sugli incontri di formazione

 

I incontro

 

La metodologia proposta per questi incontri si ispira alla “ricerca-azione” dove sono gli stessi soggetti che svolgono l’attività a divenire ricercatori, ovvero a riflettere criticamente sulle proprie esperienze allo scopo di migliorarne la qualità.

Il formatore in questo contesto favorisce la rielaborazione critica, proponendo delle situazioni stimolo, curando l’interazione comunicativa, promuovendo lo scambio, raccogliendo e restituendo ai partecipanti quanto è emerso dall’interazione, sostenendo i processi attraverso cui ogni persona ricava dalla propria esperienza, dalle proprie competenze, dalla propria cultura, risorse per progettare e gestire l’esperienza di incontro con i bambini nel proprio contesto di lavoro e di vita.

 

Il problema di cui ci occupiamo è quello della gestione degli incontri con i bambini delle scuole nelle sedi delle aziende agricole.

Premessa: nel caso dei bambini non esiste una “tecnologia”, ovvero un sistema di procedure e strumenti, applicabile in qualunque situazione e che garantisca il successo rispetto agli obiettivi che ci si prefigge.

In questo campo essenzialmente si impara dall’esperienza, il che significa due cose, non separabili: fare l’esperienza e riflettere criticamente su di essa (collettivamente).

 

Ciò che conta è il modo con cui i soggetti (bambini e bambine, agricoltori e agricoltrici, ma anche insegnanti) vivono l’esperienza e quindi in gioco ci sono le aspettative reciproche, gli investimenti affettivi, le culture di provenienza con i loro sistemi di significati e di valori e quindi le diverse rappresentazioni delle stesse situazioni, ecc.

Ciò che conta è anche la materialità delle situazioni: i tempi, gli spazi, le strutture, gli oggetti, le azioni dei corpi che in essi si muovono, le regole, i messaggi scambiati. Un sistema che richiede una “regia” attenta a creare delle condizioni favorevoli e una “strategia” capace di reagire agli imprevisti, di trasformare i limiti in risorse.

 

Qualcuno ha parlato di un senso di inadeguatezza al nuovo compito educativo. Ma forse dovremmo domandarci “a che cosa dovremmo essere adeguati?” ovvero “qual è il compito educativo cui siamo chiamati nelle ‘fattorie pedagogiche’ ?” senza dare per scontato che esso sia lo stesso che hanno gli insegnanti o i genitori, o che corrisponda all’immagine che ce ne siamo fatti attraverso esperienze in altri contesti, come la scuola. La fattoria sarà pure “pedagogica”, ma non è la stessa cosa di una scuola. Ha dei limiti e delle risorse diverse.

 

Quali elementi utili per rispondere a queste domande sono emersi dunque da tutto il materiale (memorie di esperienze, sensazioni, reazioni alle situazioni-stimolo proposte dal formatore, riflessioni…) che gli stessi partecipanti hanno messo a disposizione del gruppo nello scambio comunicativo?

 

Sull’accoglienza. Questo momento chiave dell’interazione con i bambini ha due significati diversi: “ti do un’immagine positiva di me facendoti stare bene” ed anche “ti faccio entrare in casa mia, un mondo di cui io conosco l’ordine (le regole, i significati) e tu no”

Questi due significati sono contemporaneamente presenti. Se viene meno il primo, manca la prima condizione necessaria per comunicare con i bambini che si sentono respinti. Se viene meno il secondo, si crea dis-ordine perché i bambini non conoscono l’ordine di quell’ambiente; i bambini si mettono in rapporto con l’ambiente in un modo non adeguato, che il “padrone di casa” non può tollerare.

Il fatto di non conoscere l’ordine (il senso) dell’ambiente in cui entriamo non vuol dire che non ne abbiamo un’immagine, anzi spesso il problema nasce dal fatto che la realtà che incontriamo non corrisponde all’immagine che ce ne facciamo e sulla quale investiamo emotivamente. Allora può accadere che ci comportiamo come se la realtà fosse quella che immaginiamo e facciamo cose “sbagliate”, oppure siamo bloccati perché ci sentiamo persi, come in un paese straniero. In questi casi abbiamo bisogno di costruirci rappresentazioni adeguate. Per questo mostrare ai bambini modelli di comportamento adeguato è molto più efficace di qualsiasi spiegazione, perché l’esperienza viene sempre prima delle parole che la rappresentano.

C’è però un aspetto positivo del non conoscere l’ordine dell’ambiente in cui si entra ed è la curiosità, una potentissima fonte di energia emotiva e cognitiva per i bambini che costituisce una grande risorsa per noi.

La curiosità fa nascere domande e questa può essere un’indicazione utile: perché non far partire la comunicazione con i bambini raccogliendo le domande che pongono spontaneamente una volta messi a contatto con ciò che non è loro abituale (animali, piante, oggetti, strutture, spazi, cibi, odori, azioni, risultati di azioni ecc.) invece che fornire loro spiegazioni programmate prima, come a scuola? Tutto ciò non affidato al caso, ma sottoposto ad una “regia”.

 

Soffermando l’attenzione sull’incontro, il primo incontro e il primo momento dell’incontro con i bambini, una sensazione condivisa è che non ci si può aspettare subito un’intesa, che ogni bambino si porta dietro una storia, un mondo interiore che noi non conosciamo e che però condiziona il suo comportamento: a volte l’aggressività è un atteggiamento “difensivo”, espressione di una paura. Questo non è un invito a diventare “psicologi”, a cercare di “interpretare”: l’interpretazione del comportamento fa tesoro di esperienze precedenti, ma questo, se da una parte ci aiuta, dall’altra ci espone al rischio di pre-giudizi, di affibbiare cioè delle “etichette” ai bambini perché crediamo di riconoscere dei “tipi” solo in base a qualche particolare, senza tenere conto che un’azione ha significati diversi a seconda del contesto, e i bambini si trovano in un contesto che per loro è nuovo. È più utile sospendere il giudizio e cercare di capire.

Forse più che prendere iniziative, più che fare cose, serve la disponibilità a dare tempo e spazio, senza farsi prendere dall’ansia del “programma”. Questa disponibilità può dare fiducia, può creare condizioni favorevoli. E in questo spazio di attesa è molto utile osservare, soprattutto i dettagli: da lì possono arrivare segnali che ci fanno capire quando e come avvicinarci, se non sono i bambini stessi a farlo. 

 

Alcune osservazioni sui comportamenti dei bambini ci possono aiutare a “metterci nei loro panni”, a riconoscere i loro vissuti emotivi, a comprendere la differenza di significati che loro attribuiscono a ciò che incontrano (pensiamo a che cosa può significare per un agricoltore “un campo”, che per un bambino può significare essenzialmente uno spazio per giocare).

Il bambino viene da una condizione in cui sta sempre “nello stretto”: di fronte alla improvvisa apertura di spazi ampi può rimanere bloccato dalla paura o può scatenarsi per rispondere ad un bisogno represso. Occorre tempo per ritrovare un rapporto equilibrato di vicinanza con una natura che, per chi vive da sempre in città, è davvero lontanissima dall’esperienza.

A volte i bambini che arrivano alla fattoria chiedono, in un modo che sembra ossessivo, di riavere il proprio zaino: questo risponde probabilmente ad una ricerca di sicurezza e ci dice quanto possano sentire straniero un ambiente che per il padrone di casa ovviamente è familiare e rassicurante.

Ci dice anche però della mancanza di abitudine dei bambini alla diversità. È come se ciascuno si muovesse sempre rinchiuso in un guscio: gli oggetti (i cibi) che i bambini si portano dietro da casa o che cercano di ritrovare uguali dovunque, i “walkman” che permettono loro di sentire la solita musica, i telefonini per comunicare con le persone che conoscono, i comportamenti abituali che cercano di riprodurre indipendentemente dal contesto… È un guscio che protegge ma che impedisce di crescere e di rendersi autonomi attraverso il contatto con ciò che è diverso e che mette alla prova.

La mancanza di autonomia che sembra essere una delle patologie che affliggono l’infanzia e la gioventù oggi è sicuramente legata al fatto che i bambini sempre più vengono privati di occasioni e di contesti in cui sperimentarsi in prove reali, sia pure in condizioni “protette”.

Le civiltà tradizionali utilizzano una modalità fondamentale per accompagnare i bambini attraverso le prove necessarie alla crescita: i riti di iniziazione. È di questo che i bambini hanno bisogno quando sono messi alla prova e si sentono in difficoltà. Ma la nostra società ha perso il senso dei riti di iniziazione e il bambino ritrova solo la ripetitività delle abitudini.

La prova e la ritualità che la contiene sono due elementi educativi molto importanti. Il mondo agricolo forse è rimasto più vicino alla tradizione; la fattoria fornisce, molto più che l’aula scolastica, situazioni che possono costituire delle prove per i bambini: sono risorse importanti che gli agricoltori-educatori hanno a disposizione.

 

Da parte delle persone impegnate in questo progetto sembra ci sia una forte assunzione di responsabilità educativa. Non era scontato: si poteva benissimo pensare che l’agricoltore abbia la funzione di padrone di casa, di esperto ecc. lasciando la responsabilità educativa agli insegnanti accompagnatori. E l’investimento personale che gli agricoltori mettono in questa impresa, cioè il cambiamento che vorrebbero ottenere per averne una soddisfazione, sembra essere che i bambini riconoscano il valore alla propria attività nella sua diversità .

Alla diversità ci tengono, se è vero che una soddisfazione sembra venire loro dallo “spiazzamento”, dal sorprendere i bambini, dal vedere che arrivano a conoscere e apprezzare qualcosa verso cui all’inizio erano diffidenti.

La via per arrivare al riconoscimento di valore è allora quella dello svelamento: riuscire a far percepire ai bambini quello che non si vede o perché è poco visibile ai loro occhi, o perché non ne conoscono il significato.

E spesso quello che non si vede è il processo che porta ad un prodotto.

In un’epoca in cui i processi industriali sono sempre meno accessibili e comprensibili, in cui è sempre più difficile “smontare” gli oggetti per capire come sono fatti e come funzionano (anche perché non si fanno più riparazioni), la fattoria costituisce una risorsa fondamentale per la formazione di un pensiero tecnologico consapevole (conoscere il rapporto tra forma e funzione, il come e il perché dei processi ecc.)

 

Questa attenzione al processo porta in luce anche l’aspetto del lavoro e della fatica. E questo è un elemento importante di valore. Ma  non serve arrabbiarsi quando non viene riconosciuto, perché non si può dimenticare la diversità di significato che è legata alla differenza dei contesti oltre che di cultura: ciò che per uno è lavoro per l’altro è divertimento. Questa differenza di significato va assunta e richiede un lavoro educativo. Un valore non può essere “spiegato”, si può arrivare a capirlo attraverso delle esperienze.

Oppure, se si passa attraverso le parole, la narrazione, più che la spiegazione, sembra essere il modo per trasmettere i significati non solo nella loro natura cognitiva (concetti) ma anche nella loro natura etica e affettiva (valori).

E questo succede perché in una storia le idee vengono contestualizzate nella vita di persone reali e anche perché nella narrazione è presente il vissuto della persona che racconta.

La narrazione poi è anche il modo migliore di parlare della natura. La natura che sta intorno a noi e dentro di noi non è come la realizzazione di un progetto che può essere “spiegato”, è il risultato di una successione di avvenimenti che potevano svolgersi in altri modi e che quindi possono solo essere “raccontati”, cercando, come si fa del resto con le storie, di ricostruirne un senso, un ordine, una “logica”.

 

Ma la via maestra per apprendere è quella dell’esperienza e l’esperienza è prima di tutto, soprattutto per bambini piccoli, azione e percezione: muoversi, fare, ascoltare, osservare, assaggiare ecc. La diversità del cibo ad esempio, prima di essere il contenuto di un discorso su una alimentazione più sana, è una esperienza percettiva di odori, colori, sapori.

Ma occorre una buona dose di pazienza perché è un’esperienza che deve colmare una distanza enorme dalla natura e dai processi di produzione che con la natura fanno i conti: i bambini mangiano cibi contenuti in confezioni di plastica, con una forma e un sapore che non hanno niente a che fare con quelli degli ingredienti originali, mangiano frutti o ortaggi che al supermercato sono presenti tutto l’anno ecc.

 

Un insegnante spesso si vive come mediatore, nei confronti dei bambini, di una cultura in cui è inserito ma che non è specificamente la propria e che per molti aspetti gli è stata trasmessa attraverso i libri; l’agricoltore-educatore sembra interessato a farsi mediatore di quella cultura che per lui è un modo di vivere, con le sue conoscenze, i suoi problemi, le sue competenze tecniche, i suoi vissuti emotivi e affettivi, i suoi valori.

Il fatto di “insegnare la propria vita” gli dà una grande forza nel rapporto con i bambini. Lo espone anche a qualche pericolo, se si dimentica che ogni bambino è libero di essere a sua volta diverso.

La costruzione dell’autonomia dei bambini resta uno dei significati fondamentali dell’educazione, che ha le sue radici nella biologia (la crescita va nel senso dell’indipendenza). Qui però si annida uno dei paradossi dell’educazione, perché rendere i bambini autonomi è una intenzione educativa che richiede che l’educatore prenda iniziative nei loro confronti, decida delle cose per loro, li “obblighi” anche a fare dei percorsi pensati e predisposti. Naturalmente si tratta di fare in modo che questa limitazione di autonomia  sia provvisoria, che vada diminuendo progressivamente e crei le condizioni per una crescita di autonomia.

 

Sembra di poter concludere per ora che l’azione educativa degli agricoltori in questo progetto sia più centrata sulla diversità della vita nella fattoria. Ne deriva che l’orientamento pedagogico debba cercare risorse proprio nella diversità piuttosto che nell’adeguamento a modelli scolastici. Ma non può dimenticare che da quel mondo vengono i bambini, che se ne portano dietro la cultura. E più di loro gli insegnanti che li accompagnano. Ne sono la prova gli episodi in cui gli insegnanti forniscono ai bambini modelli di comportamento inadeguato (emblematico il modo di vestirsi) oppure non colgono i significati in relazione al contesto.

Da parte del mondo agricolo è importante comprendere che una visita sarà sostenuta dalla collaborazione del mondo scolastico se si inserisce in un percorso educativo della scuola; per quanto possibile è bene conoscere e sostenere questi percorsi, che spesso si caratterizzano con delle esigenze cognitive. E in questa direzione vanno sicuramente i materiali che si stanno preparando.

Ma gli insegnanti, come e forse più dei bambini, hanno delle rappresentazioni, un immaginario sulla fattoria. Con queste o si fanno i conti prima oppure usciranno fuori durante e condizioneranno fortemente l’esperienza dei bambini, perché comunque gli insegnanti sono un punto di riferimento per i bambini. Allora il successo di una visita in fattoria dipende da una “regia” comune, che mostri ai bambini una coerenza di azione oppure che stabilisca con chiarezza i confini dei rispettivi territori di azione.

Assume grande importanza un incontro tra insegnanti e agricoltori-educatori prima della visita ed è importante utilizzarlo bene; quali conoscenze dunque è importante scambiarsi, quali aspetti della visita (orari, spazi, organizzazione, ruoli ecc.) concordare? Questo potrebbe essere l’argomento di un prossimo incontro con la presenza di insegnanti interessati al progetto, perché per raggiungere la migliore mediazione è importante poter vedere le cose anche dall’altro punto di vista.

 

 

II incontro (in fattoria)

 

L’idea era quella di una specie di esercitazione sul campo dove il “campo” era una delle Fattorie Amiche già in attività.

Era prevista la visita di un gruppo di insegnanti e progettarla insieme concretamente poteva essere un modo di affrontare il primo tema dell’incontro: “come organizzare una visita in fattoria”.

Certamente le fattorie che aderiscono al progetto sono molto diverse, ma da una esercitazione pratica era possibile ricavare indicazioni generali che poi ognuno avrebbe potuto applicare al contesto particolare della propria fattoria.

C’è stata una certa difficoltà ad entrare nello spirito della “esercitazione”. Chi si imbarca nell’avventura della “fattoria didattica” si trova di fronte problematiche che non appartengono soltanto alla sfera pedagogica (che cosa “insegnare” ai  bambini/ragazzi e come), ma anche a quella “politica”, che cioè riguardano scelte di organizzazione del lavoro con relativi investimenti e valutazioni economiche. Queste problematiche evidentemente sono urgenti e spingono il gruppo verso discussioni di carattere generale.

Tuttavia, se si pensa che discussioni di questo tipo possano risolvere tutto in una volta il complesso dei problemi, si va incontro a probabili delusioni.

Un “corso” di più incontri dà la possibilità di affrontare ogni volta più modestamente un pezzetto del problema; certo richiede la pazienza di aspettare alla fine per ricomporre un quadro complessivo che possa essere d’aiuto.

In quel pezzetto in cui può essere d’aiuto chi si occupa di relazioni educative sta la problematica della organizzazione del “dispositivo” della visita delle classi (spazi, tempi, movimenti, scelta del tipo di attività, modalità di comunicazione, regole ecc.) e ci sta anche il problema di come gestire il rapporto con gli insegnanti durante, ma anche prima (ed eventualmente dopo) la visita.

Nella nostra esercitazione abbiamo prima di tutto fatto una ricognizione. Questo risponde ad una esigenza metodologica di valore generale: mettere a fuoco quali sono le risorse a disposizione e quali sono i limiti che una situazione offre. Nel nostro caso questa operazione ci ha portato a restringere il campo delle scelte a due possibili attività: equitazione e fabbricazione del formaggio; proporre tutte e due o una sola, e quale?

È vero che la scelta era riferita al contesto particolare di quella fattoria in quella particolare occasione, ma ci ha permesso di far emergere temi di valore generale: proporre situazioni più “attraenti” ma che i bambini/ragazzi possono ritrovare anche in contesti più “turistici” o proporre situazioni che più caratterizzano la cultura agricola nei suoi aspetti di realtà produttiva ma che possono anche creare qualche disagio (lo “sporco”, l’odore, la fatica…)?

Anche per l’accoglienza si può riproporre la stessa domanda; ad esempio rispetto al cibo: offrire qualcosa di più accettabile a tutti perché fa parte delle loro abitudini alimentari o offrire qualcosa che caratterizza la propria produzione rischiando però reazioni negative a quelli che sono sapori “diversi”?

La risposta naturalmente dipende da scelte personali ed anche dalla specificità dell’azienda; dal punto di vista pedagogico e culturale è sicuramente un valore il contatto con una realtà “vera”, cioè non troppo adattata alle esigenze scolastiche, e la conoscenza di un mondo che ha la sua cultura, i suoi modi di vita legati alla concretezza della produzione e ai vincoli posti dai cicli naturali (i bambini di città sono abituati a mangiare fragole a novembre e a pensare che il latte venga fabbricato da qualche macchina ecc.).

Quello agricolo è un mondo che può insegnare molto ai bambini, ma per farlo deve rimanere in qualche modo “diverso”. Perciò non è da incoraggiare la tendenza di alcuni operatori del mondo scolastico a pensare la fattoria come una specie di cortile-palestra della scuola.

Questo non significa che non si possa inserire la visita in fattoria in un percorso scolastico. Si può pensare insieme agli insegnanti quale valore la visita può assumere nell’esperienza dei bambini/ragazzi e nel loro percorso di conoscenza. E questo naturalmente dipende anche dall’età e dal tipo di scuola. Il contatto con gli animali, per fare un esempio, può avere un valore molto diverso per bambini della scuola materna o per studenti di agraria.

L’ideale sarebbe poter incontrare gli insegnanti prima, per dirsi da una parte quali sono le esigenze educative, dall’altra quali sono le risorse e i limiti della propria fattoria; se ci sono margini di variazione nelle attività che si possono proporre e nel modo di svolgerle, possono essere sfruttati per adattare la visita a quella classe particolare senza snaturare le caratteristiche della fattoria.

Ma non sempre c’è la possibilità di un incontro e allora diventano importanti i messaggi scambiati per telefono o attraverso scritti. Impostare un volantino di presentazione della fattoria vuol dire creare una immagine, delle aspettative. Perciò bisogna trovare un equilibrio tra l’esigenza di rendere “attraente” e il rischio di creare aspettative che non corrispondono alla realtà. Più si è “attraenti” e si più gente si attira, ma più si rischia di scontentarla e di scontentare se stessi. Ancora una volta le risorse offerte non possono essere separate dai limiti.

Piuttosto può essere molto utile, nel presentare le proprie proposte ad un pubblico di insegnanti, non snaturarle ma in qualche modo “tradurle” in un linguaggio più familiare agli insegnanti, in modo che essi più facilmente riescano ad inserirle nel quadro della loro programmazione didattica, a dare loro un significato in termini educativi. L’indicazione è di farsi affiancare da qualcuno di loro per le comunicazione col mondo della scuola (tenendo conto della diversità degli ordini di scuola).

Ma gli insegnanti sono comunque presenti come accompagnatori delle classi e nell’incontro precedente molti avevano segnalato che dal rapporto con loro vengono più difficoltà che da quello con i bambini. Noi non possiamo influire sulla mentalità, o sul carattere degli insegnanti (e dei bambini), perciò è abbastanza inutile dire che se fossero diversi sarebbe meglio; possiamo cercare invece di indirizzare il loro comportamento.

Un buon punto di partenza è domandarci che cosa noi vorremmo che facessero e poi come possiamo ottenerlo da loro. Spesso sappiamo dire, dopo, che un certo comportamento ci ha creato difficoltà, ma avevamo chiesto di evitarlo? Siamo stati chiari ed espliciti nel chiedere loro di assumere certi comportamenti e non certi altri ?

Pensiamo prima a quali comportamenti creano difficoltà nella specifica situazione di quella fattoria e di quella attività, ma piuttosto che dare regole in negativo, cerchiamo di trasformarle in indicazioni positive: diciamo agli insegnanti e ai bambini quali comportamenti ci aspettiamo da loro, motivandoli con esigenze di sicurezza dove è il caso, ma soprattutto come condizioni che possono migliorare la qualità della esperienza che stanno per fare.

In questo senso è importante domandarsi che ruolo vorremmo che assumessero gli insegnanti: controllori del comportamento dei bambini, osservatori silenziosi, modelli per i bambini ecc. Le indicazioni che diamo loro devono essere coerenti con questo ruolo. Se ad esempio riteniamo positivo che “diano l’esempio” rivolgiamoci direttamente a loro quando diamo le indicazioni su cosa fare. Se preferiamo che “non si sporchino le mani” diamo loro in positivo il compito di osservare ciò che fanno i bambini. Se vogliamo che tengano sotto controllo i bambini mentre noi siamo impegnati in qualche operazione, chiediamoglielo esplicitamente coinvolgendoli nella gestione della sicurezza dei bambini. E così via; l’importante è non dare per scontato nulla: quello che per noi è il mondo della quotidianità, per loro può essere come un paese del lontano oriente o una foresta tropicale.

Infine, a proposito di collaborazioni utili, oltre a quella con qualche insegnante disponibile nel preparare i materiali informativi, si potrebbe esplorare la possibilità di una presenza dell’Università. Può darsi che ci siano studenti (di scienze della formazione ma anche di agraria o di scienze alimentari ecc.) che sarebbero interessati a svolgere una tesi di ricerca su “Fattoria Amica”, può darsi che ci siano docenti universitari che non sanno come rispondere alla richieste degli studenti di avere assegnata una tesi di ricerca sul campo. Sarebbero collaborazioni gratuite e qualificate che potrebbero aiutare, soprattutto chi inizia, a mettere a punto alcuni aspetti delle attività rivolte alle scuole. Il contatto con l’Università è naturalmente più accessibile all’Associazione che non al singolo agricoltore.