Marcello Sala

PERCHÉ L’EVOLUZIONE

A SCUOLA

Il linguaggio della storia della vita

-pubblicato in- 

Cooperazione  EDUCATIVA

n. 3 / 2005

Edizioni Junior

 

 

Quando ero piccolo pensavo che la Francia fosse viola perché quello era il suo colore sulla carta geografica. Quando ci andai la prima volta (materialmente con il corpo) scoprii che al di là della barriera doganale il paesaggio continuava, con i suoi colori, le sue montagne, i corsi d’acqua, la vegetazione ecc. Capii che le linee di confine non fanno parte del territorio, ma della mappa.

Se abbiamo imparato qualcosa da ciò che la cultura del Novecento ha elaborato, dovremmo avere abbandonato l’illusione che la conoscenza derivi direttamente da una “trasparenza” del territorio, che basti osservarlo per vedere le cose come stanno, “oggettivamente”.

Gregory Bateson, elaborando un’idea che già era di Kant, non nega l’esistenza del territorio, ma ne mette in discussione la conoscibilità diretta, e ci ricorda che “nella nostra testa non ci sono noci di cocco, ma solo idee di noci di cocco”. Dal momento che possiamo pensare e comunicare soltanto mappe, ci dobbiamo assumere la responsabilità di come le costruiamo.

Per le cose non viventi la nostra mappa ha solo l’esigenza di essere “adeguata”, ovvero capace di spiegazioni coerenti e, in casi fortunati, di previsioni verificabili sperimentalmente. Ma per il mondo vivente ciò non basta.

Le conseguenze di un calcio dato a una palla si possono calcolare, utilizzando il linguaggio che riguarda le forze e gli urti; le conseguenze di un calcio dato a un cane no, perché dipendono da che cosa significa quel calcio per quel cane: nel mondo vivente diventano pertinenti l’informazione e la comunicazione. Il mondo vivente ha un suo linguaggio e noi non siamo più nella situazione di chi vuole imparare le regole del gioco degli scacchi, ma del bambino che impara la lingua madre.

Una deriva estrema del “costruttivismo” sostiene che la mappa con i suoi confini ce la possiamo inventare, ciascuno/a come gli pare. Dal fatto che siamo esseri viventi, ancor prima che soggetti culturali, ci viene un’etica che pone dei limiti a ogni soggettivismo: se la mappa non è coerente con il territorio del vivente, noi uccidiamo il vivente che è “tutto attaccato”.

Detto così sembra un discorso ideologico, astratto, e allora faccio qualche esempio di come dalla costruzione di mappe, cioè dalla conoscenza, dipenda la nostra vita di umani, dell’unica specie cioè con il dono/la condanna della coscienza.

Supponiamo di essere d’accordo che trapiantare organi sia un comportamento positivo in relazione alla possibilità di salvare la vita di persone malate, e supponiamo di essere d’accordo che si può prelevare organi soltanto da individui morti. Ma quando un individuo è morto? Dove collocare il confine della vita? Supponiamo ancora che si sia d’accordo a considerare morto chi ha una funzionalità cerebrale compromessa in modo irreversibile. Ma l’irreversibilità può essere verificata solo nel prosieguo degli eventi; quello che noi adesso possiamo dire è soltanto con quale probabilità gli eventi evolveranno in una certa direzione sulla base delle nostre conoscenze di casi analoghi. É un sapere statistico, ma la statistica nasconde un problema: una popolazione di fumatori può avere un rischio di morte del 60%, ma un individuo, per quanto fumi, non può essere morto al 60%: o è morto o è vivo. Questo individuo che ho davanti, con nome cognome e storia, è morto o è vivo? Gli posso espiantare gli organi? Se non vogliamo che la responsabilità sia solo un sentimento affidato a emozioni soggettive e estemporanee, se riteniamo inaccettabile che qualcuno, dopo avere ucciso, possa chiudere la faccenda dicendo “ma non l’ho fatto apposta”, allora ci serve una regola che stabilisca esattamente a quali condizioni si può effettuare un espianto d’organi. E ci serve qualcuno in grado di stabilire una soglia statistica per la verifica di queste condizioni, di fornirci questi dati statistici sulla base di serie documentazioni e di indicarci metodi operativi per valutare ogni caso specifico. Questo qualcuno è lo scienziato, a questo serve la scienza.

QUALE SCIENZA?

Dunque la prima ragione per cui temo l’incultura scientifica di massa nel nostro paese[1] non ha a che fare con il rallentamento del “progresso tecnologico”, in cui non ho fede, ma con la responsabilità sociale che si gioca nell’incontro tra etica e legislazione.

Le opere della “riforma Moratti”, che ci danno il segno dei tempi, non consistono soltanto nell’eliminazione (tutt’ora in vigore nonostante il parere dei “saggi”) dell’evoluzione, ma la riduzione del tempo scuola dedicato all’educazione scientifica (all’interno della riduzione del tempo scuola), l’esclusione delle scienze dall’esame di maturità ecc.

La signora Moratti risponderebbe che non è vero, che lo sviluppo scientifico e tecnologico è al centro delle sue preoccupazioni per la scuola; ma lei si riferisce all’ “eccellenza”, mentre io mi riferisco alla cittadinanza, quella che comprende il diritto di tutti i cittadini a decidere informati.

Tra poco tutti noi, in quanto cittadini italiani, saremo chiamati a prendere delle decisioni che riguardano le biotecnologie (la fecondazione artificiale ne è il paradigma). Su questo terreno le questioni hanno a che fare con la nostra identità profonda, perché riguardano come ci rappresentiamo come esseri viventi, e dipendono in modo essenziale da dove viene posto il confine tra vita e non vita. Anche qui potremmo riprendere il discorso sul rapporto tra etica e scienza: chi sostiene o chi nega che la vita inizia nel punto della fecondazione sa quanto dura la fecondazione? ha un’idea che è un processo, molto lungo e articolato e complesso una volta che lo si osservi abbastanza da vicino come fa uno scienziato?

Qualcuno potrebbe legittimamente dire che si dà un gran da fare per avvicinare i bambini, e in generale il “pubblico”, alla scienza e alla biologia. Ma il problema che sto ponendo è anche di quale scienza abbiamo bisogno per decidere responsabilmente sulle biotecnologie.

Il Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano, in occasione de “I cinquant’anni del DNA”, ha suonato le sue trombe mediatiche per invitare classi di scuola e famiglie a una mostra con annesso laboratorio “Porta a casa il tuo DNA”.

Perché quel Museo si attribuiva una competenza in questo campo? Probabilmente perché quella tecnologica è una cultura dominante tanto da far credere che, come esistono tecnologie nel campo della meccanica o dell’informatica, così esistono anche tecnologie della comunicazione, della educazione; e allora perché non della vita?

Nel laboratorio i partecipanti venivano invitati a prelevare con uno spazzolino cellule epiteliali dall’interno della bocca. Il prelievo veniva introdotto in provette che erano poi sottoposte a una serie di passaggi con aggiunta successiva di vari liquidi. L’unica cosa visibile alla fine erano dei tenui flocculi nelle provette, che l’animatore assicurava essere fatti di DNA, evento ritenuto entusiasmante. Il procedimento veniva ripetuto a partire dall’estrazione di materiale da pomodori. Un bambino piuttosto sveglio e attento ha chiesto alla fine come mai il DNA di pomodoro nella provetta non fosse rosso.

L’immagine era quella di un mago (ricerche relative all’immaginario dei bambini sullo scienziato proprio questo ci restituiscono); tra mago e tecnologo la somiglianza sta nella asimmetria della conoscenza, quella che la scienza moderna si proponeva di rompere rispetto alla tradizione precedente di un sapere esoterico. Che cosa assicurava i partecipanti al laboratorio che le sostanze usate fossero davvero quelle che l’animatore nominava, o che l’effetto delle sostanze nelle provette fosse effettivamente qualche cambiamento corrispondente alla descrizione che lui ne dava? Solo una fiducia (cieca) nella sua autorità.

La cultura tecnologica impone in queste mostre un largo uso di “stazioni informatiche”. I quiz a risposta multipla abbinati alla presentazione di argomenti di genetica avrebbero potuto essere adottati come modalità d’esame; per questo mi sono stupito che due bambine di circa 10 anni interagissero a lungo col computer con evidente soddisfazione. Ho chiesto loro se per rispondere a domande così difficili avessero studiato quelle cose a scuola. Scambio di sguardi, perplessi per la domanda e furbi per la complicità, e poi la risposta: “noi ‘clicchiamo’ a caso per poi vedere il punteggio!”. I bambini hanno le loro strategie di sopravvivenza.

Ma perché tanto interesse per il DNA?

Darwin ipotizzava che vi fosse una trasmissione di informazioni dai genitori ai figli; era un elemento necessario alla sua teoria (è lì che si crea la variazione che fornisce la base per la selezione), ma lui non sapeva come ciò avviene.

Ma che funzione hanno queste “informazioni”? Esse sono essenziali come “ingiunzioni” per l’organismo: provocano e orientano dei processi operativi materiali sulla base dei quali l’organismo svolge le sue funzioni; ma ancora prima provocano e orientano i processi con cui l’organismo si forma. Perciò, quando mezzo secolo dopo Darwin la genetica cominciò a fornire risposte alle sue domande (il gene come elemento funzionale, il DNA come sua base materiale) ci si poteva aspettare che l’embriologia fosse al centro dell’interesse scientifico. Invece si cominciò a indagare sempre più a fondo sul “meccanismo” del DNA, lungo la strada della biologia molecolare che porta alle biotecnologie e alla ingegneria genetica.

Di fronte a degli ideogrammi cinesi, che sappiamo essere un codice di scrittura che contiene informazioni, chiunque di noi si domanda “chissà cosa vuol dire?”; e allora perché invece di fronte al DNA, che sappiamo contenere le informazioni sulla base delle quali viene costruito l’organismo, ci si accanisce (mi rivolgo soprattutto agli insegnanti) a spiegare come funziona la macchina da stampa cinese? [2]

Non è più sensato chiedersi che cosa vogliono dire le informazioni contenute nel DNA? quali “ingiunzioni” forniscono alla costruzione dell’organismo vivente? quali operazioni provocano? in quale ordine spaziale e temporale? insomma qual è la sintassi e soprattutto qual è la semantica del linguaggio genetico?

Ecco come Gregory Bateson pone il problema:

“Già allora dunque avevo in testa un bel po' di domande sui problemi che doveva risolvere la morfo­genesi, e già a quel tempo la soluzione di questi pro­blemi si stava allontanando da un linguaggio (o da un'epistemologia zoologica) tradizionale, in cui i de­terminanti sarebbero stati chiamati ‘fattori’ o ‘for­ze’ e cosi via, per dirigersi verso un modo di espri­mersi diversissimo, in cui sembrava che alle forme si arrivasse grazie a un qualche uso di idee o ingiunzioni. Il problema principale, naturalmente, era come queste idee o ingiunzioni potessero mettersi in relazione con la materia interagente di cui è fatto il corpo. E Cartesio?” [3]

Nei limiti entro i quali la nostra identità è fatta di corpo e il corpo è il frutto di un processo istruito dal genoma, noi siamo ciò che i nostri genitori ci hanno trasmesso attraverso le informazioni contenute nel genoma. Perché sono quelle e non altre? perché sono simili e diverse da quelle dei nostri genitori e dei nostri nonni, e più indietro dei nostri antenati, su su fino agli antenati che abbiamo in comune con altri primati, e più indietro ancora nel tempo fino a quelli che abbiamo in comune con tutti gli esseri viventi? Qual è dunque la loro storia?

Studiare l’evoluzione è interrogarsi sulla storia di come quelle informazioni sono variate, sono state selezionate e si sono differenziate fino ad arrivare a farci ciò che siamo, in prima istanza a farci vivi a partire da materiali organici. Capire che cosa significa essere vivi attraverso la storia della vita, per poter più responsabilmente stabilire i confini tra vita e non vita: ecco perché il pensiero evoluzionistico è indispensabile alla biologia e all’etica. È per leggerne la storia che occorre studiare il linguaggio della vita. E se la genetica ne è la “semantica”, la biologia molecolare potrebbe esserne la “grammatica”, come analisi linguistica.

UN PRETESTO

Che significato ha l’eliminazione della teoria dell’evoluzione dai programmi scolastici? Il primo credo sia semplicemente l’eliminazione in sé: di tempo, di cultura, di qualunque cosa comporti costi, in base all’idea che la cultura, o la salute, siano prodotti commerciali e non investimenti sociali. Si è persa l’idea che mio padre mi spiegò quando ero piccolo: che a fondare l’organizzazione sociale c’è un patto di solidarietà che affida a qualche entità organizzata (lo Stato o chi per esso) il compito di fornire i servizi che il singolo non è in grado di assicurarsi (gli ospedali, le strade, le poste,... la cultura) e per i quali fornisce una parte del proprio reddito. è per questo che io sono contento di pagare più  imposte.

Per comprendere il secondo significato occorre guardare verso gli Stati Uniti, dove da sempre si combattono battaglie legali per la “parificazione” del creazionismo con l’evoluzionismo nelle scuole. Ma la differenza è che negli USA c’è gente che ci crede davvero. In Europa no, forse perché siamo più colti e quindi sappiamo che nella Bibbia di descrizioni della creazione ce ne sono due, una di seguito all’altra, diverse e contraddittorie nel merito. Nella prima (Gen 1,1-2,3), scandita per giorni, Dio procede nell’ordine a: separazione della luce dalle tenebre (1), separazione delle acque e creazione del cielo (2), separazione delle terre dai mari e creazione delle specie vegetali (3), creazione degli oggetti celesti per dare luce alla Terra separando giorno e notte e come segni per distinguere le stagioni (4), creazione delle specie animali natanti e volanti (5), creazione degli animali terrestri e dell’uomo “a sua immagine e somiglianza” “maschio e femmina”, affidamento del mondo all’uomo (6). La seconda descrizione segue la prima senza interruzione (Gen 2,4-2,25); qui Dio prima crea cielo e terra, dentro la terra pone i semi, poi crea l’uomo dalla terra e gli dà vita attraverso il soffio, poi pone l’uomo in un giardino, facendo germogliare i semi, poi forma gli animali e fa dare loro un nome da Adamo, poi dà ad Adamo “un aiuto” traendo Eva dalla sua costola.

É nel quarto “giorno” del primo racconto che Dio inventa l’astronomia, ma non prende posizione tra geocentrismo ed eliocentrismo. La condanna di Galileo dunque non aveva nulla a che fare con il merito della sua teoria scientifica: perché mai il fatto che la Terra giri attorno al Sole o viceversa dovrebbe mettere in crisi la religione cristiana, ovvero la fede nella resurrezione di Cristo come risposta al problema di dare un senso alla morte? Il nesso delle teorie scientifiche con la fede religiosa non sta nel loro merito cognitivo, ma in relazioni di potere storicamente determinate. La condanna di Galileo si colloca in piena controriforma, dopo un secolo di rivolgimenti politici e sociali originati proprio dalla riforma protestante.

Nel caso di Darwin la questione si ripropone. Non è in discussione se Dio abbia o no creato il mondo, né tanto meno la resurrezione di Cristo: Darwin come Galileo si occupa di come funziona l’ordine del mondo vivente, ovvero, se ci teniamo a questa terminologia, si occupa di dare un contenuto a una parola come “creazione”.

La dicotomia tra “creazionisti” ed “evoluzionisti” ha ben poca importanza nel contesto da cui si è soliti pensare che provenga. Tra i biologi la grande questione oggetto di dibattito, prima e dopo Darwin, è se l’origine dell’ordine sia da cercarsi nell’adattamento dell’organismo all’ambiente (la funzione determina la forma) o nei vincoli interni (la forma condiziona la funzione). Tra i “funzionalisti” che attribuiscono l’ordine essenzialmente all’adattamento troviamo tanto Darwin quanto il capofila dei suoi avversari “creazionisti”, William Paley (per il quale l’adattamento era la migliore testimonianza della sapienza del Creatore).

Se qualcuno usa la teoria di Darwin come pretesto, io voglio continuare a farne un testo su cui esercitare il pensiero critico, come fanno gli scienziati.

I BAMBINI E L’EVOLUZIONE

Gli “esperti” della Moratti, ma non soltanto loro, per giustificare l’eliminazione dello studio dell’evoluzione dai programmi della scuola di base sostengono che la teoria dell’evoluzione sarebbe inaccessibile alle capacità di comprensione dei bambini della scuola primaria. Io al contrario sostengo che l’evoluzione è “roba per bambini”, e, a differenza di loro, ne ho le prove.

Un primo esempio mi viene da bambini di sei anni che parlano di creazione [4]:

NADIA – No, guarda che Gesù prima ha creato gli animali, poi le scimmie, poi i babbuini e poi siamo venuti noi…

MATTEO – Perché, prima che esistevamo noi, ha creato i dinosauri qui, che poi ci sono le ossa.

Dunque i bambini, quando provano a spiegare come avverrebbe la creazione (qualunque cosa significhi per loro questo termine) manifestano un pensiero evolutivo, nel senso di una dimensione di sviluppo storico (prima... poi).

La discontinuità epistemologica introdotta da Darwin sta proprio nella dimensione storica: la varietà dei viventi e la loro trasformazione è un prodotto della storia. Ma è stata proprio la cultura giudaico-cristiana, a partire dalla Bibbia, a introdurre la storia, successione irreversibile di eventi, come struttura fondamentale nel rapporto tra uomo e Dio.

In una terza elementare discutono di evoluzione bambini che non hanno mai “studiato” l’argomento a scuola:

Leonardo – [...] da bambino diventi adulto e cresci, quando ti evolvi cambi specie, cambia la specie degli uomini, come l’australopiteco e poi il sapiens...

Marco - Crescita ed evoluzione sono due cose diverse, se no perché hanno inventato due parole se fossero la stessa cosa; e poi quando cresci - va beh - diventi più alto - che ne so?- però il nome non lo cambi e dopo muori ed è una cosa tua, invece l’evoluzione riguarda tutti gli esseri viventi.

come si vede, i bambini operano una fondamentale distinzione di livello tra organismo e specie.

Leo – Certo: da meno intelligenti a più intelligenti.

Akira - Io non sono d’accordo con Nicolò; lui ha detto “da quando sei nato a quando sei grande”: quella non è un’evoluzione, quella è una crescita. Evoluzione e crescita sono due cose diverse, perché crescita stai nella stessa specie, invece evoluzione da una cosa diventi un’altra: l’Australopiteco è diventato l’habilis.

l’elemento pertinente messo in evidenza è la differenza tra continuità  e discontinuità. Leo da una parte e Leonardo e Akira dall’altra rappresentano due idee diverse di evoluzione, anche storicamente in conflitto: progressione lineare (anagenesi) contrapposta a ramificazione (speciazione allopatrica).

Akira - Noi siamo una specie evoluta […] se non si era evoluta la Terra, non c’eravamo noi: da quand’era incandescente si è dovuta evolvere e siamo arrivati noi.

c’è qui l’idea di una continuità tra storia della Terra e storia umana e della fondamentale unità della vita.

Leo - Io non sono d’accordo con Nicolò: la Terra forse si è freddata per un caso.

MAESTRA - Tu dici che nell’evoluzione c’entra il caso?

Akira - Io sono d’accordo con Leo: è un caso; poteva raffreddarsi in altri modi, quando c’è stato il terremoto che ha fatto raffreddare tutto era un evento, cioè per caso.

e questa è la consapevolezza della contingenza della storia e della stessa presenza della specie umana.

Il riferimento al caso significa possibilità e imprevedibilità:

Leo - Potevamo evolverci in una maniera tale che potevamo vivere nel fuoco.

Leonardo - Può darsi che ci evolviamo ancora, in certi casi ci evolviamo.

Akira - Non è che c’è una specie di uomo e poi è finita la vita dell’uomo: per adesso dal primo essere vivente c’è stata la vita fino a qui, adesso possiamo diventare - che ne so?- elettronici, robot… però quello ancora non è successo; allora per evolversi tocca aspettare del tempo.

e c’è qui anche la consapevolezza dell’importanza strutturale della dimensione del tempo.

In questa conversazione i bambini incontrano il paradosso del cambiamento: il soggetto di un cambiamento cesserebbe di essere quel soggetto, di esistere nella sua identità. L’espressione “diventare un altro” è paradossale, sia riferita all’individuo sia alla specie (“quando ti evolvi diventi sempre altre cose”, “nell’evoluzione diventa un’altra persona, non è sempre… non ha lo stesso nome, cambia, con l’evoluzione non è la stessa persona”, “l’evoluzione è così: una specie diventa un’altra”, “Ma un rinoceronte non si può evolvere in un pappagallo!” - “No: ti evolvi in una cosa che non esiste ancora”). Su questo percorso i bambini poi incontrano la morte come elemento chiave dell’evoluzione (e quindi della vita) e arrivano a comprendere il ruolo della morte degli individui per la vita della specie (“un giorno moriremo e nascerà un’altra cosa”); questo li porta a riformulare una descrizione del fenomeno (“… la crescita è che cresci, l’evoluzione è che cambi di persona, muore uno e quello che rinasce è un po’ diverso”) che permette di uscire dal paradosso: l’evoluzione è un cambiamento che si sviluppa tra una generazione e la successiva di individui viventi. (“...c’è un uomo che stava evolvendosi e muore, e stava già un po’ evolvendosi e il figlio è già un po’ di più evoluto”: siamo allo stesso punto in cui era Darwin: gli manca la genetica).

Io non so se tutti gli adulti che esprimono opinioni sul tema potrebbero dimostrare di averne conoscenze adeguate, so che questa articolazione e profondità di elaborazione legittima i bambini come soggetti di apprendimento della teoria dell’evoluzione. Questi bambini hanno diritto di studiare l’evoluzione e di avere una scuola che garantisca le condizioni per questo apprendimento, così come hanno diritto a non essere presi in giro da falsi divulgatori che “estraggono DNA bianco da pomodori rossi”, e ad accedere alle conoscenze scientifiche che possono metterli in grado di decidere consapevolmente su questioni che riguardano la loro vita.

 



[1] Sono stati recentemente pubblicati i dati TIMSS 2003, la rilevazione internazionale sugli apprendimenti in matematica e scienze. Forse Umberto Bossi sarà contento perché il punteggio per le scienze all’ottavo anno di scolarità è 512 per il NordOvest d’Italia, ma la media nazionale è 491, molto vicina alle media internazionale (474), 87 punti meno di Singapore, solo 19 più della Moldavia e 30 più dell’Armenia. Secondo la rilevazione PISA dell’OCSE l’Italia si trova 14 punti sotto la media europea, 62 punti sotto la Finlandia. E le iscrizioni alle facoltà scientifiche dell’università sono ai minimi storici. E “i cervelli fuggono” ecc. ecc.

[2]  Non sono il solo a pensarla così: “Che spazio dare al DNA? Nella scuola dell’obbligo anche zero. Basta sapere che i geni non sono entità astratte, ma hanno una base materiale, cioè sono fatti di un materiale definito. Basta sapere che quel materiale si chiama DNA, tanto per non restare nel vago. A questo livello scolastico conoscere il significato della parola ‘DNA’ può essere più importante per arricchire il proprio vocabolario che come conoscenza scientifica. [...] L’importante è entrare al minimo nei particolari ‘tecnici’ che i ragazzi non potrebbe comunque apprezzare perché richiedono troppe preconoscenze di chimica e insistere invece sul significato generale di codice, di archivio...”  (Claudio Longo, Didattica della biologia, La Nuova Italia Firenze 1998).

[3]  Gregory Bateson (1977), “La nascita di una matrice, ovvero il doppio vincolo e l’epistemologia”, in: Una sacra unità, Adelphi Milano  1997, p. 305.

[4]  Le conversazioni da cui sono tratti gli esempi rispettano due condizioni: a) i bambini co-costruiscano spontaneamente le loro conoscenze a partire dal riferimento alla realtà e dal bagno di linguaggio (e di informazioni) in cui sono immersi, si trovano cioè contesti di apprendimento “auto-organizzato”, dove l’adulto garantisce le condizioni della conversazione, ma non vi entra dicendo la sua nel merito; b) l’ascolto parte dal presupposto che i bambini sono rappresentanti di una cultura i cui significati non ci appartengono e che vogliamo capire.