Fin
dal 1838, poco dopo il rientro dal viaggio sul Beagle,
vent’anni prima de L’origine delle
specie, Darwin era arrivato a una fondazione della “sua teoria”: poiché
nascono più individui di quanti possano essere mantenuti in vita delle
risorse disponibili, si crea una competizione che discrimina la sopravvivenza
e la possibilità di riprodursi in base alle diversità di caratteri; se i caratteri
vantaggiosi nella relazione con l’ambiente sono ereditari, il risultato sarà
una loro maggiore frequenza nelle generazioni successive. programma aperto Ma
neppure nella maturità Darwin conosceva le leggi della variazione né
dell’ereditarietà, se non quelle empiriche che gli venivano dalla pratica di
allevamento. Fin dalla sua formulazione dunque la teoria darwiniana era un
programma di ricerca aperto e non qualcosa di “chiuso” che si potesse
falsificare con qualche esperimento cruciale. E non perché non si possano
fare esperimenti o perché Darwin non abbia fatto “previsioni rischiose”.
Nella sua onestà di scienziato più volte ha scritto che, se una determinata
obiezione fosse stata corroborata dai fatti, la sua teoria sarebbe stata
messa in crisi. In
effetti alcune delle sue previsioni si sono rivelate errate, eppure la teoria
è sopravvissuta, perché non si trattava di elementi fondamentali.
Nell’evoluzionismo si può identificare un nucleo centrale in cui si trova la
teoria della discendenza di tutti i viventi da antenati comuni attraverso la
riproduzione differenziale (“selezione naturale”), e, attorno, una “cintura”
di teorie ausiliarie, come il gradualismo,
ovvero l’idea che l’evoluzione avviene accumulando, attraverso le generazioni,
impercettibili cambiamenti, o l’adattazionismo, che cerca unicamente nell’adattamento
all’ambiente la spiegazione dei cambiamenti. Le
nuove conoscenze non disponibili all’epoca di Darwin hanno esteso il nucleo
senza metterlo in crisi. L’integrazione della genetica mendeliana con il
corpo della teoria dell’evoluzione, costituisce la prima fase della Sintesi
Moderna della prima metà del ‘900. Il programma di
ricerca si estende e si articola occupandosi della mutazione (quale base materiale con quale dinamica provoca
differenze tra individui), della deriva
(come eventi legati a migrazioni di piccole popolazioni producono una
variazione nella composizione della popolazione per puri effetti statistici
senza vantaggi selettivi), della macroevoluzione
(come si formano nuove specie in modo diverso dal cambiamento graduale dei
caratteri degli individui all’interno di una specie). Questo
porta a valutare l’evoluzionismo come un “programma di ricerca progressivo” (Lakatos), ossia una vasta rete di idee interconnesse, che
non solo spiegano dei campi di fenomeni, ma pongono nuove domande e aprono
nuovi filoni di ricerca, con scoperta di nuovi fatti, a una intera comunità
di scienziati. nuove vecchie idee Dopo
150 anni il nucleo regge ancora perfettamente, mentre la ricerca ha
modificato significativamente la cintura, soprattutto relativizzando alcune
convinzioni e in alcuni casi rimettendo in gioco intuizioni dello stesso
Darwin, a volte abbandonate e rinnegate, come quando lo sviluppo della teoria
della selezione naturale e l’opposizione alla teoria delle estinzioni di Couvier lo fecero propendere per il gradualismo, contro
la sua convinzione originaria (vedi i Taccuini del 1838) di una formazione di
nuove specie “per salti”, ovvero per cambiamenti che coinvolgono parti
consistenti e coordinate della struttura corporea, e per isolamento
geografico. Al
gradualismo si è sostituita l’idea di una pluralità di ritmi; l’ipotesi degli
“equilibri punteggiati” rende conto dei dati paleontologici che mostrano
lunghi periodi di “stasi”, in cui le specie restano invariate, “punteggiati”
da periodi di intensa modificazione con formazione di nuove specie. L’adattamento
come unica spiegazione del cambiamento evolutivo si è ridimensionato in favore
di una maggiore considerazione delle ragioni “interne”: la struttura non solo
è risultato di cambiamenti su base funzionale adattativa, ma anche vincolo ai
cambiamenti possibili. evo-devo Una
intuizione di Darwin torna nell’exaptation, in cui si considera la possibilità che i cambiamenti
evolutivi avvengano sulla base di strutture non adattative presenti nell’organismo come effetti collaterali
di precedenti cambiamenti. Sempre in questo ambito si colloca anche un filone
di ricerca che prende corpo negli anni ’80 del ‘900 sotto il nome di evo-devo
(evolutionary developmental biology). Nei
suoi primi lavori Darwin non ha usato la parola evoluzione proprio perché ai suoi tempi la si riferiva allo
sviluppo dell’organismo, ma già aveva individuato nell’embriogenesi un
oggetto privilegiato di ricerca, a partire dall’osservazione che gli animali
appartenenti a phyla
molto diversi, dai pesci ai rettili, dagli uccelli ai primati, solo una volta
sviluppatisi nell’adulto acquisiscono le differenti forme tipiche, mentre i
loro embrioni sono difficilmente distinguibili, e che questa similitudine non
può essere messa in relazione con le condizioni ambientali, che sono molto diverse. Per l’evo-devo, se lo sviluppo è la
modificazione dell’organismo nel tempo della vita individuale, l’evoluzione
è una modificazione, attraverso il succedersi delle generazioni, dei tempi e
della organizzazione di quel processo di sviluppo; dunque
due livelli distinti in relazione; per entrambi, e non solo per l’evoluzione,
il cambiamento scaturisce dall’interazione con l’ambiente. Alla
fine del XX secolo nuove tecniche di analisi del
DNA hanno corroborato il nucleo stesso del darwinismo, affiancando alle prove
paleontologiche della discendenza da antenati comuni di tutte le forme
viventi le prove rilevabili dall’accumulo delle mutazioni, permettendo una
ricostruzione più puntuale degli alberi filogenetici. Questa
capacità di modificarsi e di essere fecondo, mostra come ogni chiacchiera su
un evoluzionismo darwiniano “superato”, o addirittura falsificato, sia solo
una presa di posizione che ha radici ideologiche e non nel merito di un
dibattito scientifico sulla base di una conoscenza dei contenuti. |