Marcello Sala

EDUCAZIONE E COMUNICAZIONE

NEL CONTESTO MUSEALE

-pubblicato in- 

Naturalmente

n. 3/2006

Accademia Editoriale

 

 

Da sempre i musei hanno un ruolo educativo in relazione alla conoscenza di idee scientifiche da parte del pubblico (in particolare scolastico). Da ormai molti anni alcuni di essi si assumono anche l’iniziativa di una azione diretta, che affianca laboratori e mostre interattive alle tradizionali visite guidate. Pur con tutti i limiti posti dalle condizioni di fruizione del servizio, si può quindi parlare di una pratica didattica museale. In questo contesto, esattamente come a scuola, il problema dell’apprendimento scientifico non si riduce a un problema di comunicazione.

Credo che questa riduzione derivi da una consuetudine culturale in cui il modello ancora dominante per l’insegnamento-apprendimento è quello della lezione. La lezione è contemporaneamente un modello di comunicazione e di pratica didattica. Chi sa comunica (verbalmente) a chi non sa e questa è considerata una forma di insegnamento: obiettivo di chi parla è fare in modo che la struttura dei significati che ha in mente venga ricostruita identica nella mentre di chi ascolta. Questo è garantito dal sistema dei significati condivisi ovvero dal linguaggio e dalle modalità di comunicazione.

La struttura di significati comunicata può essere ricostruita se chi riceve il messaggio condivide il linguaggio di chi lo emette, sia nella sintassi sia nel lessico. Tuttavia, perché si realizzi un apprendimento da parte del ricevente, la struttura che viene ricostruita deve contenere qualche aspetto di novità per il suo sistema cognitivo: una nuova configurazione di elementi noti, un elemento nuovo in una configurazione nota ecc. che può essere assimilato o può provocare un accomodamento del sistema [1].

Nel caso della scienza è particolarmente evidente l’importanza del linguaggio rispetto a quello della comunicazione intesa come contesto relazionale, oltre che materiale. Nel campo della scienza è raro che si possano dire le stesse cose in un altro modo: cambiare le parole significa trasmettere idee diverse. Per questo semplificare è un problema epistemologico e non tanto comunicativo. Naturalmente curare la comunicazione, come contesto relazionale oltre che materiale, significa facilitare o ostacolare l’apprendimento, ma non significa realizzarlo: la comunicazione è una condizione per l’apprendimento.

Ma esiste un apprendimento che è quasi del tutto indipendente dalle modalità tipiche dell’insegnamento: è quello “naturale” [2] attraverso cui i piccoli imparano dall’esperienza. L’apprendimento “naturale” è anche in parte linguistico, ma, più che attraverso una comunicazione intenzionale, si realizza con un andirivieni tra le cose e le parole, tra l’esperienza e il bagno di linguaggio sociale in cui il piccolo è immerso, per cui piano piano le parole (configurazioni di parole) vengono sempre di più a coincidere con significati (configurazioni di significati) stabili.

Nel sistema insegnamento-apprendimento l’aspetto comunicativo verbale intenzionale è invece ancora centrale: per questo si può dire che la lezione sia una modalità, un contesto, di insegnamento, non di apprendimento.

All’università (intesa nella sua cultura dell’organizzazione tradizionale che è ancora largamente dominante nella realtà) nessuno metterebbe in dubbio che il docente “ha fatto lezione” anche se gli studenti non hanno ascoltato o addirittura non erano presenti. Questo perché il processo di apprendimento è a carico dello studente e il docente non vi interviene (e quindi non ne è responsabile) se non al momento della verifica e valutazione.

Il docente universitario è anche un comunicatore disciplinare (scientifico nel nostro caso). Lo è in quanto appartenente alla comunità disciplinare e in questo senso comunica secondo le modalità previste dalla cultura dell’organizzazione e dalle regole sociali (nel caso della scienza particolarmente rigorose); comunica con i suoi pari con i quali condivide un linguaggio. Usando quel linguaggio condiviso può introdurre nel circuito comunicativo disciplinare nuove descrizioni, nuove spiegazioni, nuove teorie e anche nuove parole.

Il rapporto con gli studenti è essenzialmente di tipo iniziatico. La comunità sociale disciplinare assimila le identità cognitive degli studenti senza alcun accomodamento; viceversa il sistema cognitivo degli studenti deve essere accomodato per adeguarsi a quello disciplinare e non può assimilarlo.

In questo senso la comunicazione agli studenti tende a essere la stessa che si usa all’interno della comunità scientifica. “Tende a” significa che questo è il punto di arrivo e che, in modo implicito e non dovuto, il docente si fa carico di un processo di avvicinamento progressivo; assume cioè il fatto che lo studente all’inizio non possiede ancora il linguaggio della disciplina. La progressività nella costruzione della competenza disciplinare di cui i docenti si fanno carico riguarda essenzialmente i contenuti e non i modi del linguaggio (è una approssimazione perché non è possibile separare i contenuti dalle parole che li veicolano): il piano di studi, le propedeuticità, gli “sbarramenti”....

Questo processo di semplificazione nella comunicazione può arrivare al di là degli studenti anche a un pubblico ancora meno competente (conferenze, interventi sui giornali o in TV ecc.). Lungo questa direttrice (indicata solitamente con il termine “divulgazione”) si inseriscono anche figure di mediatori, come i giornalisti scientifici e, in un certo senso, gli insegnanti di scuola secondaria e primaria.

Mano a mano che si “scende” nei livelli di scolarità il rapporto insegnamento–apprendimento si modifica a favore del secondo. Chi insegna è sempre più coinvolto (più per cultura dell’organizzazione che per una diversa etica professionale) nel processo di apprendimento degli studenti (di ciascuno studente, di ciascuna studentessa): non ne verifica solo i risultati, ma se ne occupa positivamente, nel senso che compie azioni mirate a ottenerlo. Questo può avvenire secondo diversi modelli, da quello “programmatorio” (a seconda degli output voluti, gli obiettivi, si forniscono corrispondenti input adeguati, organizzati in unità didattiche) a quello “costruttivista” (si realizzano le condizioni favorevoli ad attivare autonomi processi di apprendimento dei soggetti).

La comunicazione disciplinare è sempre più semplificata, ovvero sempre meno adeguata al linguaggio usato nella comunità degli esperti della disciplina e sempre più vicina al linguaggio comune, perché sempre minore è la competenza disciplinare non solo di chi apprende ma anche di chi insegna (a chi insegna alle elementari non è richiesta una laurea in scienze).

L’operatore museale, la “guida”, è una delle figure che si collocano come mediatrici sulla direttrice della comunicazione scientifica. Tradizionalmente condivide le conoscenze della comunità scientifica di riferimento del museo[3] o almeno così viene socialmente rappresentato il suo ruolo nei confronti del pubblico: appare come un divulgatore nei confronti di un pubblico non esperto (gli esperti che frequentano il museo per ragioni professionali non si avvalgono delle guide).

Se per apprendimento si intende un cambiamento nelle strutture cognitive (inscindibili da un aspetto valoriale–affettivo) allora una guida è anche un operatore educativo. Il contesto è diverso da quello dell’insegnante per alcuni aspetti qualificanti: brevità del tempo in cui si gioca la relazione, non conoscenza dei soggetti (della loro storia), assenza di istanze di valutazione, dispositivo materiale (luoghi, oggetti, azioni, “regole del gioco”...). Forse sono proprio questi aspetti che hanno sempre più spostato le modalità di interazione, la pratica didattica delle guide, verso una impostazione più “costruttivista”  che ne fa degli animatori più che dei docenti.

Questo come intenzione, spesso dichiarata con enfasi dai musei, che vogliono cancellare l’immagine di polverosi depositi di reperti a disposizione di altrettanto polverosi studiosi per presentarsi come “science centre. L’intenzione però si scontra con la realtà, perché le guide sono per lo più studenti o giovani laureati che hanno nella loro esperienza, come pratica quasi esclusiva nella relazione insegnamento-apprendimento, la lezione: quello è il modello che domina nel loro bagaglio culturale e quello sarà il modello che riprodurranno nel rapporto educativo con gli utenti. A meno che, naturalmente, non intraprendano uno specifico percorso di formazione professionale.

“Il nero attira il calore”

In un museo-laboratorio di tipo scientifico tecnologico, dedicato all’energia, una guida mostra un exhibit a un bambino di una dozzina d’anni accompagnato dalla madre. Il fenomeno implica l’illuminazione di superfici metalliche e superfici nere e sembra che questo sia un elemento significativo della spiegazione che però non è semplice, né tanto meno evidente. “Spiegare” significa rispondere alla domanda “perché accade ciò che accade?” facendo ricorso a conoscenze note. Le parole della guida non sembrano convincere i due; i volti esprimono perplessità, lo sguardo è fisso, le fronti corrucciate. La guida se ne rende conto e fa qualche altro tentativo senza esito, finché, colto da un’ispirazione, pronuncia la frase ”... perché il nero attira il calore”. Immediatamente i volti si illuminano in espressioni tipo “ah, sì! “e già...!”. Lo scioglimento della tensione è evidente. L’attenzione si stacca dall’oggetto, i corpi si dirigono altrove.

Peccato che la frase contenga un grossolano errore dal punto di vista scientifico e quindi non fornisca affatto un modello teorico adeguato.

Un primo punto dunque è la verità. Non metto la maiuscola alla parola perché sono un figlio del Novecento e ho fatto la mia parte come formatore per mettere in discussione la pretesa oggettività e universalità del sapere scientifico e per coltivare una conoscenza che rispettasse la complessità del mondo[4], ma questo non significa che la scienza abbia rinunciato alla ricerca di spiegazioni e teorie condivise e adeguate. Il termine “condivise” fa riferimento alla trasparenza, alla messa a disposizione della comunità scientifica di dati, alla verificabilità o falsificabilità delle ipotesi, alla garanzia di uno spazio di comunicazione dove cooperare alla costruzione di teorie o mettere a confronto teorie alternative; il termine “adeguate” fa riferimento alla necessità che le spiegazioni siano coerenti, non contraddittorie, e che, dove possibile, consentano previsioni verificabili sul mondo: seguendo Kant, l’elettricità è solo una costruzione mentale, la realtà in sé come tale non è direttamente conoscibile, ma io non permetto ugualmente a mio figlio piccolo di mettere le dita nella presa di corrente perché so con ragionevole sicurezza che prenderebbe la scossa. Entrambi i termini riferiti alle teorie, condivise e adeguate, non escludono la soggettività (da un secolo l’osservatore ha perso la sua collocazione fuori dal sistema osservato), escludono però il soggettivismo, ovvero la pretesa che la soggettività sia sufficiente come fondamento della conoscenza.

Fin qui la scienza e la rilevanza di un sapere in relazione alla verità. Ma perché viene accettata quella falsa spiegazione? Perché a livello psicologico soggettivamente risponde alla domanda sul “perché” facendo riferimento a conoscenze note. L’effetto è di ridurre la tensione emotiva legata all’incertezza dell’ignoto riportando il soggetto in un contesto familiare.

La tensione come fatto emotivo è fonte di disagio, ma proprio la parola ci ricorda che qui, come sempre del resto nell’essere vivente, non è in gioco solo l’emozione. Il termine è trasparente: si tratta di tendere a una conoscenza; il disagio è relativo a un bisogno insoddisfatto e proprio questo costituisce il motore, la motivazione, di un processo di ricerca. Eliminata la tensione, viene meno il bisogno e il processo si arresta. Dal punto di vista educativo è pertinente la domanda se la riduzione del disagio è stata positiva o no. La risposta dipende dallo scopo che si attribuisce alla relazione educativa: alla domanda risponde sì chi pensa che lo scopo sia il benessere, risponde no chi pensa che sia la conoscenza. Sto semplificando molto, ma questo è il nodo.

In questo esempio non si tratta tanto di un apprendimento errato, ma della conferma e della fissazione di una precedente spiegazione errata. Ciò significa riduzione della probabilità che essa venga in futuro rimessa in discussione. C’è poi anche un altro aspetto qualitativo. Chi non ha ancora, o chi non avrà mai, contatti con il mondo della scienza o con i luoghi dell’istruzione, non per questo non elabora teorie, spiegazioni che soddisfino il bisogno di mettere ordine ai propri rapporti con il mondo o la necessità di fare previsioni. Quando il contatto avviene è possibile che le convinzioni vengano rimesse in discussione, che ci sia una ristrutturazione del sistema cognitivo, innescata proprio dallo spiazzamento cui contribuisce la consapevolezza che le conoscenze possedute appartengono a un mondo familiare non esperto; un museo laboratorio e la relativa guida rappresentano sicuramente il mondo esperto della scienza, cui si attribuisce autorevolezza; se anche lì si ritrova la stessa spiegazione di un fenomeno, ne verrà confermata sia quella teoria specifica sia l’autorevolezza del contesto familiare come fonte di conoscenza scientifica. 

Tutta questa dinamica si gioca sul linguaggio utilizzato; a riprova che la scienza è un linguaggio.

C’è infine un altro livello in cui valutare gli effetti dell’interazione che ho presentato come esempio ed è quello più specificamente pedagogico.

La rinuncia alla ricerca della spiegazione di un fenomeno per la convinzione di possederla già ha come effetto di meta-apprendimento una disconferma e un  depotenziamento dello stesso atteggiamento di ricerca. Il messaggio è: non è necessario andare per il mondo, mettere in atto una personale ricerca che passi dalla esperienza diretta delle cose, dalla interazione nel contesto sociale di una comunità di pari, dallo sviluppo di una autonomia di elaborazione intellettuale; la curiosità, il bisogno di conoscenza sono già adeguatamente soddisfatti dalla comunicazione protettiva, rassicurante, e anche autorevole della famiglia, che permette di conoscere il mondo senza uscire dalla protezione affettiva, senza essere esposti all’ansia, alla frustrazione, al rischio.

UNA GUIDA COCCIUTA

In un museo-laboratorio di tipo scientifico naturalistico dedicato ai fenomeni biologici una guida sta mostrando a una classe prima elementare un exhibit dove un Nautilus sale e scende in una colonna d’acqua a seconda che l’aria pompata al suo interno superi o no un certo livello. I bambini vengono invitati a osservare, a descrivere quello che vedono e poi a spiegarlo. La guida di solito cerca di utilizzare quello che i bambini dicono per costruire una spiegazione che sia corretta e insieme comprensibile. Questa volta non ci riesce. È evidente dalle reazioni, dalle espressioni che non si è capito “perché accade ciò che accade”. La guida ricomincia da capo, mostra il fenomeno, attira l’attenzione sui vari elementi, fa domande mirate, ma l’esito è ancora negativo. Ricomincia. Ciò che colpisce me che sto osservando, che supera la soglia della mia attenzione perché non “normale”, è proprio questa “cocciutaggine”. La guida potrebbe concludere che la spiegazione del fenomeno richiede conoscenze che i bambini non hanno e sarebbe una conclusione ragionevole; dopo di che starebbe a lei mettere in atto strategie relazionali che facciano i conti con l’insuccesso, e non le mancano le risorse in questo senso. Oppure potrebbe prendere la scorciatoia di dare lei la spiegazione che i bambini non riescono a costruire. Invece ricomincia, provando a cambiare qualcosa nelle domande e nei suoi interventi. Vedo che sta lavorando su di sé per mantenere la calma, per non proiettare sui bambini una inquietudine che è sua e che a loro creerebbe soltanto condizioni peggiori per la ricerca. É aiutata dal fatto che, non perdendo il contatto con i bambini, li osserva e vede quello che vedo io, e cioè non delusione, frustrazione, ma tensione a trovare la spiegazione. Sono bambini particolarmente permeati dallo spirito scientifico della ricerca (quel fenomeno che è cognitivo tanto quanto emotivo e che al suo livello più semplice chiamiamo “curiosità”) oppure sono contagiati dall’atteggiamento della guida? Non lo so e sinceramente mi interessa ciò che sta accadendo nella relazione molto più che non sapere a quale soggetto vada attribuita la matrice psicologica del fenomeno.

A un certo punto (siamo al terzo o quarto tentativo) la guida fa riferimento al “salvagente” che i bambini conoscono nelle loro esperienze di nuoto o di gioco acquatico. L’effetto è evidente: i volti dei bambini si aprono, i corpi si protendono, le mani si alzano, gli interventi si sovrappongono. É scattato qualcosa che ha collegato il fenomeno osservato con il sistema cognitivo dei bambini permettendo una “assimilazione” che è la premessa di un “accomodamento”. Si realizza qui una situazione rara e preziosa in campo educativo: essere testimoni del fenomeno della comprensione. Nella scuola, e in generale nelle situazioni educative, alla necessità di valutazione corrisponde una impossibilità ad afferrare gli elementi significativi dell’apprendimento, in una terra di nessuno tra l’aleatorietà delle “impressioni” soggettive e l’insignificanza delle prove “oggettive”. L’insegnante o si rassegna a non poter controllare, almeno non in modo diretto e immediato, che cosa ha davvero imparato il soggetto, quali sono state le ristrutturazioni del suo sistema cognitivo, o si accontenta della ripetizione di formule linguistiche che forse sono adeguate al sapere disciplinare ma che non dicono nulla di quali siano effettivamente le idee che il soggetto ha sull’oggetto.

Il museo non è la scuola, la guida museale non è l’insegnante, considerare le differenze di contesto è necessario, ma è in ciò che le due figure condividono, la relazione di insegnamento-apprendimento, insieme alla specificità dei campi di conoscenza (scientifico in questo caso), che è possibile un confronto e una condivisione.

In entrambi gli esempi gli utenti sono passati dalla condizione di chi non sa di non sapere a quella di chi sa di non sapere a quella di chi sa (o è convinto) di sapere[5]. Il primo passaggio fornisce l’energia alla ricerca, motiva il processo della conoscenza, il secondo l’inverso. In questo senso i due episodi delimitano in maniera emblematica il campo delle modalità di relazione insegnamento-apprendimento, e il fatto che si riferiscano alla scienza più che costituire una specificità rende più evidente una dinamica di valore generale.


IL PROBLEMA DELLA VERITà

Vorrei tornare a un “dettaglio” e cioè al fatto che nel primo esempio raccontato quella fornita non era una spiegazione scientificamente adeguata e che nel secondo quella che la guida non accettava era la mancanza di una spiegazione scientificamente adeguata.

Non mi intendo di comunicazione in sé (esiste?), ma so cosa succede nei contesti di apprendimento. Succede che la conoscenza viene costruita (da un individuo o da un gruppo) a partire dai circuiti sensomotori, dalla memoria, dalle strutture percettive, dalle premesse epistemologiche, dalla interazione linguistica “qui e ora” ecc. “Costruita” significa che il contenuto della conoscenza, il risultato dell’apprendimento, non corrisponde in modo semplice al contenuto della comunicazione da parte di una fonte che lo immette nel sistema.

Questo “costruttivismo” pare largamente condiviso anche nell’ambiente museale da chi si occupa di attività educative, ma la connotazione, o forse la suggestione culturale, del termine “comunicare” è quella di un’attenzione alla scelta dei canali, alle modalità di trasmissione, ai “vestiti” che i messaggi indossano e alle scenografie della relazione, dando per definito il contenuto da trasferire; la premessa epistemologica è che il contenuto pre-esista alla comunicazione e questo entra in contraddizione con il costruttivismo. Credo che nessun teorico della comunicazione sosterrebbe l’idea della indipendenza del contenuto dal messaggio, che però costituisce una premessa implicita in molte prassi sociali: esistono sicuramente contesti e professioni in cui ciò è evidente; basta pensare a una agenzia pubblicitaria, che non è certo una realtà secondaria nella nostra società.

Nella nostra cultura la comunicazione si configura ormai come “scienza” autonoma, con le sue teorie e le sue prassi: è riconosciuta come area disciplinare anche nell’università che è l’organizzazione in cui più si rispetta la disciplinarietà. L’enfasi sulla comunicazione che ci viene dal circuito mediatico, e circolarmente lo alimenta, si porta dietro la convinzione che quelle della comunicazione siano problematiche che hanno una loro specificità. Il che sarà sicuramente vero, ma a chi si occupa di educazione interessa anche lo specifico educativo, a chi si occupa di educazione scientifica interessa ancora la “verità scientifica”; che non è più la Verità oggettiva e universale (il Novecento non è trascorso invano), ma adeguatezza condivisa delle teorie alla realtà sì.

 



[1]  Secondo Jean Piaget due sono le dinamiche fondamentali dell’attività mentale, che agiscono ricorsivamente ai vari livelli dello sviluppo: da una parte si tratta di “incorporare le cose e le persone all’attività propria del soggetto, quindi ‘assimilare’ il mondo esterno alle strutture già costruite”, dall’altra di “riadattare queste in funzione delle trasformazioni subite, quindi ‘accomodarle’ agli oggetti esterni” (Jean Piaget (1964), Lo sviluppo mentale del bambino, Einaudi  1967)

[2]  Le virgolette segnalano che non si tratta di un ingenuo ritorno del mito del “buon selvaggio”, ma di un riferimento a un uso specifico dell’espressione “apprendimento naturale”; si veda  ad esempio: Paul Le Bohec, Il testo libero di matematica, Quaderni di Cooperazione Educativa, La Nuova Italia 1995; Marcello Sala, Il volo di Perseo, Junior 2004.

[3]  Il calo delle iscrizioni alle facoltà scientifiche mette in crisi questo modello. Musei scientifici e tecnologici, anche di grande fama, utilizzano ormai come guide in maggioranza studenti di facoltà non scientifiche. A questo non corrisponde affatto il  maggiore investimento in formazione che sembrerebbe inevitabile.

[4]  Marcello Sala, Il volo di Perseo, Junior 2004.

[5]  Donata Fabbri, Il concavo e il convesso nella formazione, in Cooperazione Educativa n. 1/1999, La Nuova Italia.