Da
sempre i musei hanno un ruolo educativo in relazione alla conoscenza di idee
scientifiche da parte del pubblico (in particolare scolastico). Da ormai
molti anni alcuni di essi si assumono anche l’iniziativa di una azione
diretta, che affianca laboratori e mostre interattive alle tradizionali
visite guidate. Pur con tutti i limiti posti dalle condizioni di fruizione
del servizio, si può quindi parlare di una pratica didattica museale. In
questo contesto, esattamente come a scuola, il problema dell’apprendimento
scientifico non si riduce a un problema di comunicazione. Credo che questa riduzione
derivi da una consuetudine culturale in cui il modello ancora dominante per
l’insegnamento-apprendimento è quello della lezione. La lezione è contemporaneamente
un modello di comunicazione e di pratica didattica. Chi sa comunica
(verbalmente) a chi non sa e questa è considerata una forma di insegnamento: obiettivo
di chi parla è fare in modo che la struttura dei significati che ha in mente
venga ricostruita identica nella mentre di chi ascolta. Questo è garantito
dal sistema dei significati condivisi ovvero dal linguaggio e dalle modalità
di comunicazione. La struttura di
significati comunicata può essere ricostruita se chi riceve il messaggio condivide
il linguaggio di chi lo emette, sia nella sintassi sia nel lessico. Tuttavia,
perché si realizzi un apprendimento da parte del ricevente, la struttura che
viene ricostruita deve contenere qualche aspetto di novità per il suo sistema
cognitivo: una nuova configurazione di elementi noti, un elemento nuovo in
una configurazione nota ecc. che può essere assimilato o può provocare
un accomodamento del sistema [1]. Nel
caso della scienza è particolarmente evidente l’importanza del linguaggio
rispetto a quello della comunicazione intesa come contesto relazionale, oltre
che materiale. Nel campo della scienza è raro che si possano dire le stesse cose
in un altro modo: cambiare le parole significa trasmettere idee diverse. Per
questo semplificare è un problema epistemologico e non tanto
comunicativo. Naturalmente curare la comunicazione, come contesto relazionale
oltre che materiale, significa facilitare o ostacolare l’apprendimento, ma
non significa realizzarlo: la comunicazione è una condizione per
l’apprendimento. Ma
esiste un apprendimento che è quasi del tutto indipendente dalle modalità tipiche
dell’insegnamento: è quello “naturale” [2] attraverso
cui i piccoli imparano dall’esperienza. L’apprendimento “naturale” è anche in
parte linguistico, ma, più che attraverso una comunicazione intenzionale, si
realizza con un andirivieni tra le cose e le parole, tra l’esperienza e il bagno
di linguaggio sociale in cui il piccolo è immerso, per cui piano piano le parole (configurazioni di parole) vengono sempre
di più a coincidere con significati (configurazioni di significati) stabili. Nel
sistema insegnamento-apprendimento l’aspetto comunicativo verbale intenzionale
è invece ancora centrale: per questo si può dire che la lezione sia una
modalità, un contesto, di insegnamento, non di apprendimento. All’università (intesa
nella sua cultura dell’organizzazione tradizionale che è ancora largamente
dominante nella realtà) nessuno metterebbe in dubbio che il docente “ha fatto
lezione” anche se gli studenti non hanno ascoltato o addirittura non erano presenti.
Questo perché il processo di apprendimento è a carico dello studente e il docente
non vi interviene (e quindi non ne è responsabile) se non al momento della verifica
e valutazione. Il
docente universitario è anche un comunicatore disciplinare (scientifico nel
nostro caso). Lo è in quanto appartenente alla comunità disciplinare e in
questo senso comunica secondo le modalità previste dalla cultura
dell’organizzazione e dalle regole sociali (nel caso della scienza
particolarmente rigorose); comunica con i suoi pari con i quali condivide un
linguaggio. Usando quel linguaggio condiviso può introdurre nel circuito comunicativo
disciplinare nuove descrizioni, nuove spiegazioni, nuove teorie e anche nuove
parole. Il rapporto con gli
studenti è essenzialmente di tipo iniziatico. La comunità sociale disciplinare
assimila le identità cognitive degli studenti senza alcun accomodamento;
viceversa il sistema cognitivo degli studenti deve essere accomodato
per adeguarsi a quello disciplinare e non può assimilarlo. In questo senso la
comunicazione agli studenti tende a essere la stessa che si usa
all’interno della comunità scientifica. “Tende a” significa che questo è il
punto di arrivo e che, in modo implicito e non dovuto, il docente si fa
carico di un processo di avvicinamento progressivo; assume cioè il fatto che
lo studente all’inizio non possiede ancora il linguaggio della disciplina. La
progressività nella costruzione della competenza disciplinare di cui i
docenti si fanno carico riguarda essenzialmente i contenuti e non i modi del
linguaggio (è una approssimazione perché non è possibile separare i contenuti
dalle parole che li veicolano): il piano di studi, le propedeuticità, gli
“sbarramenti”.... Questo
processo di semplificazione nella comunicazione può arrivare al di là
degli studenti anche a un pubblico ancora meno competente (conferenze,
interventi sui giornali o in TV ecc.). Lungo questa direttrice (indicata
solitamente con il termine “divulgazione”) si inseriscono anche figure di
mediatori, come i giornalisti scientifici e, in un certo senso, gli
insegnanti di scuola secondaria e primaria. Mano a mano che si “scende”
nei livelli di scolarità il rapporto insegnamento–apprendimento si modifica a
favore del secondo. Chi insegna è sempre più coinvolto (più per cultura
dell’organizzazione che per una diversa etica professionale) nel processo di
apprendimento degli studenti (di ciascuno studente, di ciascuna studentessa):
non ne verifica solo i risultati, ma se ne occupa positivamente, nel senso
che compie azioni mirate a ottenerlo. Questo può avvenire secondo diversi
modelli, da quello “programmatorio” (a seconda
degli output voluti, gli obiettivi, si forniscono corrispondenti input
adeguati, organizzati in unità didattiche) a quello “costruttivista” (si realizzano
le condizioni favorevoli ad attivare autonomi processi di apprendimento dei
soggetti). La comunicazione disciplinare
è sempre più semplificata, ovvero sempre meno adeguata al linguaggio
usato nella comunità degli esperti della disciplina e sempre più vicina al
linguaggio comune, perché sempre minore è la competenza disciplinare non solo
di chi apprende ma anche di chi insegna (a chi insegna alle elementari non è
richiesta una laurea in scienze). L’operatore
museale, la “guida”, è una delle figure che si collocano come mediatrici
sulla direttrice della comunicazione scientifica. Tradizionalmente condivide
le conoscenze della comunità scientifica di riferimento del museo[3] o
almeno così viene socialmente rappresentato il suo ruolo nei confronti del
pubblico: appare come un divulgatore nei confronti di un pubblico non
esperto (gli esperti che frequentano il museo per ragioni professionali non
si avvalgono delle guide). Se
per apprendimento si intende un cambiamento nelle strutture cognitive (inscindibili
da un aspetto valoriale–affettivo) allora una guida
è anche un operatore educativo. Il contesto è diverso da quello dell’insegnante
per alcuni aspetti qualificanti: brevità del tempo in cui si gioca la relazione,
non conoscenza dei soggetti (della loro storia), assenza di istanze di
valutazione, dispositivo materiale (luoghi, oggetti, azioni, “regole del gioco”...).
Forse sono proprio questi aspetti che hanno sempre più spostato le modalità
di interazione, la pratica didattica delle guide, verso una impostazione più
“costruttivista” che ne fa degli animatori
più che dei docenti. Questo
come intenzione, spesso dichiarata con enfasi dai musei, che vogliono cancellare
l’immagine di polverosi depositi di reperti a disposizione di altrettanto
polverosi studiosi per presentarsi come “science centre”.
L’intenzione però si scontra con la realtà, perché le guide sono per lo più
studenti o giovani laureati che hanno nella loro esperienza, come pratica
quasi esclusiva nella relazione insegnamento-apprendimento, la lezione:
quello è il modello che domina nel loro bagaglio culturale e quello sarà il
modello che riprodurranno nel rapporto educativo con gli utenti. A meno che,
naturalmente, non intraprendano uno specifico percorso di formazione professionale. “Il nero attira il calore”
In
un museo-laboratorio di tipo scientifico tecnologico, dedicato all’energia,
una guida mostra un exhibit a un bambino di
una dozzina d’anni accompagnato dalla madre. Il fenomeno implica
l’illuminazione di superfici metalliche e superfici nere e sembra che questo
sia un elemento significativo della spiegazione che però non è semplice, né
tanto meno evidente. “Spiegare” significa rispondere alla domanda “perché accade
ciò che accade?” facendo ricorso a conoscenze note. Le parole della guida non
sembrano convincere i due; i volti esprimono perplessità, lo sguardo è fisso,
le fronti corrucciate. La guida se ne rende conto e fa qualche altro tentativo
senza esito, finché, colto da un’ispirazione, pronuncia la frase ”... perché
il nero attira il calore”. Immediatamente i volti si illuminano in
espressioni tipo “ah, sì! “e già...!”. Lo scioglimento della tensione è evidente.
L’attenzione si stacca dall’oggetto, i corpi si dirigono altrove. Peccato
che la frase contenga un grossolano errore dal punto di vista scientifico e
quindi non fornisca affatto un modello teorico adeguato. Un
primo punto dunque è la verità. Non metto la maiuscola alla parola perché
sono un figlio del Novecento e ho fatto la mia parte come formatore per
mettere in discussione la pretesa oggettività e universalità del sapere
scientifico e per coltivare una conoscenza che rispettasse la complessità del
mondo[4], ma
questo non significa che la scienza abbia rinunciato alla ricerca di
spiegazioni e teorie condivise e adeguate. Il termine “condivise” fa
riferimento alla trasparenza, alla messa a disposizione della comunità
scientifica di dati, alla verificabilità o falsificabilità
delle ipotesi, alla garanzia di uno spazio di comunicazione dove cooperare
alla costruzione di teorie o mettere a confronto teorie alternative; il
termine “adeguate” fa riferimento alla necessità che le spiegazioni siano coerenti,
non contraddittorie, e che, dove possibile, consentano previsioni verificabili
sul mondo: seguendo Kant, l’elettricità è solo una
costruzione mentale, la realtà in sé come tale non è direttamente
conoscibile, ma io non permetto ugualmente a mio figlio piccolo di mettere le
dita nella presa di corrente perché so con ragionevole sicurezza che
prenderebbe la scossa. Entrambi i termini riferiti alle teorie, condivise
e adeguate, non escludono la soggettività (da un secolo l’osservatore
ha perso la sua collocazione fuori dal sistema osservato), escludono
però il soggettivismo, ovvero la pretesa che la soggettività sia sufficiente
come fondamento della conoscenza. Fin
qui la scienza e la rilevanza di un sapere in relazione alla verità.
Ma perché viene accettata quella falsa spiegazione? Perché a livello
psicologico soggettivamente risponde alla domanda sul “perché” facendo
riferimento a conoscenze note. L’effetto è di ridurre la tensione emotiva
legata all’incertezza dell’ignoto riportando il soggetto in un contesto
familiare. La
tensione come fatto emotivo è fonte di disagio, ma proprio la parola
ci ricorda che qui, come sempre del resto nell’essere vivente, non è in gioco
solo l’emozione. Il termine è trasparente: si tratta di tendere a una
conoscenza; il disagio è relativo a un bisogno insoddisfatto e proprio questo
costituisce il motore, la motivazione, di un processo di ricerca. Eliminata
la tensione, viene meno il bisogno e il processo si arresta. Dal punto di vista
educativo è pertinente la domanda se la riduzione del disagio è stata
positiva o no. La risposta dipende dallo scopo che si attribuisce alla relazione
educativa: alla domanda risponde sì chi pensa che lo scopo sia il benessere,
risponde no chi pensa che sia la conoscenza. Sto semplificando molto, ma questo
è il nodo. In
questo esempio non si tratta tanto di un apprendimento errato, ma della conferma
e della fissazione di una precedente spiegazione errata. Ciò significa
riduzione della probabilità che essa venga in futuro rimessa in discussione.
C’è poi anche un altro aspetto qualitativo. Chi non ha ancora, o chi non avrà
mai, contatti con il mondo della scienza o con i luoghi dell’istruzione, non
per questo non elabora teorie, spiegazioni che soddisfino il bisogno di
mettere ordine ai propri rapporti con il mondo o la necessità di fare previsioni.
Quando il contatto avviene è possibile che le convinzioni vengano rimesse in
discussione, che ci sia una ristrutturazione del sistema cognitivo, innescata
proprio dallo spiazzamento cui contribuisce la consapevolezza che le conoscenze
possedute appartengono a un mondo familiare non esperto; un museo laboratorio
e la relativa guida rappresentano sicuramente il mondo esperto della
scienza, cui si attribuisce autorevolezza; se anche lì si ritrova la stessa
spiegazione di un fenomeno, ne verrà confermata sia quella teoria specifica
sia l’autorevolezza del contesto familiare come fonte di conoscenza
scientifica. Tutta
questa dinamica si gioca sul linguaggio utilizzato; a riprova che la
scienza è un linguaggio. C’è infine un altro
livello in cui valutare gli effetti dell’interazione che ho presentato come esempio
ed è quello più specificamente pedagogico. La rinuncia alla ricerca
della spiegazione di un fenomeno per la convinzione di possederla già ha come
effetto di meta-apprendimento una disconferma e
un depotenziamento dello stesso
atteggiamento di ricerca. Il messaggio è: non è necessario andare per il
mondo, mettere in atto una personale ricerca che passi dalla esperienza diretta
delle cose, dalla interazione nel contesto sociale di una comunità di pari,
dallo sviluppo di una autonomia di elaborazione intellettuale; la curiosità,
il bisogno di conoscenza sono già adeguatamente soddisfatti dalla comunicazione
protettiva, rassicurante, e anche autorevole della famiglia, che permette di
conoscere il mondo senza uscire dalla protezione affettiva, senza essere
esposti all’ansia, alla frustrazione, al rischio. UNA GUIDA COCCIUTA In
un museo-laboratorio di tipo scientifico naturalistico dedicato ai fenomeni
biologici una guida sta mostrando a una classe prima elementare un exhibit dove un Nautilus
sale e scende in una colonna d’acqua a seconda che l’aria pompata al suo
interno superi o no un certo livello. I bambini vengono invitati a osservare,
a descrivere quello che vedono e poi a spiegarlo. La guida di solito
cerca di utilizzare quello che i bambini dicono per costruire una spiegazione
che sia corretta e insieme comprensibile. Questa volta non ci riesce. È
evidente dalle reazioni, dalle espressioni che non si è capito “perché accade
ciò che accade”. La guida ricomincia da capo, mostra il fenomeno, attira
l’attenzione sui vari elementi, fa domande mirate, ma l’esito è ancora negativo.
Ricomincia. Ciò che colpisce me che sto osservando, che supera la soglia
della mia attenzione perché non “normale”, è proprio questa “cocciutaggine”.
La guida potrebbe concludere che la spiegazione del fenomeno richiede
conoscenze che i bambini non hanno e sarebbe una conclusione ragionevole;
dopo di che starebbe a lei mettere in atto strategie relazionali che facciano
i conti con l’insuccesso, e non le mancano le risorse in questo senso. Oppure
potrebbe prendere la scorciatoia di dare lei la spiegazione che i bambini non
riescono a costruire. Invece ricomincia, provando a cambiare qualcosa nelle domande
e nei suoi interventi. Vedo che sta lavorando su di sé per mantenere la
calma, per non proiettare sui bambini una inquietudine che è sua e che a loro
creerebbe soltanto condizioni peggiori per la ricerca. É aiutata dal fatto
che, non perdendo il contatto con i bambini, li osserva e vede quello che
vedo io, e cioè non delusione, frustrazione, ma tensione a trovare la
spiegazione. Sono bambini particolarmente permeati dallo spirito scientifico
della ricerca (quel fenomeno che è cognitivo tanto quanto emotivo e che al
suo livello più semplice chiamiamo “curiosità”) oppure sono contagiati
dall’atteggiamento della guida? Non lo so e sinceramente mi interessa ciò che
sta accadendo nella relazione molto più che non sapere a quale soggetto vada
attribuita la matrice psicologica del fenomeno. A
un certo punto (siamo al terzo o quarto tentativo) la guida fa riferimento al
“salvagente” che i bambini conoscono nelle loro esperienze di nuoto o di
gioco acquatico. L’effetto è evidente: i volti dei bambini si aprono, i corpi
si protendono, le mani si alzano, gli interventi si sovrappongono. É scattato
qualcosa che ha collegato il fenomeno osservato con il sistema cognitivo dei
bambini permettendo una “assimilazione” che è la premessa di un “accomodamento”.
Si realizza qui una situazione rara e preziosa in campo educativo: essere
testimoni del fenomeno della comprensione. Nella scuola, e in generale nelle
situazioni educative, alla necessità di valutazione corrisponde una impossibilità
ad afferrare gli elementi significativi dell’apprendimento, in una terra di
nessuno tra l’aleatorietà delle “impressioni” soggettive e l’insignificanza
delle prove “oggettive”. L’insegnante o si rassegna a non poter controllare,
almeno non in modo diretto e immediato, che cosa ha davvero imparato il
soggetto, quali sono state le ristrutturazioni del suo sistema cognitivo, o
si accontenta della ripetizione di formule linguistiche che forse sono adeguate
al sapere disciplinare ma che non dicono nulla di quali siano effettivamente
le idee che il soggetto ha sull’oggetto. Il
museo non è la scuola, la guida museale non è l’insegnante, considerare le
differenze di contesto è necessario, ma è in ciò che le due figure
condividono, la relazione di insegnamento-apprendimento, insieme alla
specificità dei campi di conoscenza (scientifico in questo caso), che è
possibile un confronto e una condivisione. In
entrambi gli esempi gli utenti sono passati dalla condizione di chi non sa
di non sapere a quella di chi sa di non sapere a quella di chi sa
(o è convinto) di sapere[5]. Il
primo passaggio fornisce l’energia alla ricerca, motiva il processo della
conoscenza, il secondo l’inverso. In questo senso i due episodi delimitano in
maniera emblematica il campo delle modalità di relazione insegnamento-apprendimento,
e il fatto che si riferiscano alla scienza più che costituire una specificità
rende più evidente una dinamica di valore generale. IL
PROBLEMA DELLA VERITà Vorrei
tornare a un “dettaglio” e cioè al fatto che nel primo esempio raccontato quella
fornita non era una spiegazione scientificamente adeguata e che nel secondo
quella che la guida non accettava era la mancanza di una spiegazione
scientificamente adeguata. |
[1] Secondo
Jean Piaget due sono le dinamiche fondamentali
dell’attività mentale, che agiscono ricorsivamente ai vari livelli dello
sviluppo: da una parte si tratta di “incorporare le cose e le persone
all’attività propria del soggetto, quindi ‘assimilare’ il mondo esterno alle
strutture già costruite”, dall’altra di “riadattare queste in
funzione delle trasformazioni subite, quindi ‘accomodarle’ agli oggetti
esterni” (Jean Piaget (1964), Lo sviluppo
mentale del bambino, Einaudi 1967)
[2] Le virgolette segnalano che non si tratta di
un ingenuo ritorno del mito del “buon selvaggio”, ma di un riferimento a un uso
specifico dell’espressione “apprendimento naturale”; si veda ad esempio: Paul Le Bohec,
Il testo libero di matematica,
Quaderni di Cooperazione Educativa,
[3] Il calo delle iscrizioni alle facoltà
scientifiche mette in crisi questo modello. Musei scientifici e tecnologici,
anche di grande fama, utilizzano ormai come guide in maggioranza studenti di
facoltà non scientifiche. A questo non corrisponde affatto il maggiore investimento in formazione che
sembrerebbe inevitabile.
[4] Marcello Sala, Il volo di Perseo,
Junior 2004.
[5] Donata Fabbri, Il concavo e il convesso
nella formazione, in Cooperazione Educativa n. 1/1999,