Scienza
under 18 (Su18) è un Progetto sull’innovazione
dell’educazione scientifica che coinvolge tutti i livelli scolastici (dalla
primaria alla secondaria di secondo grado). Nato a Milano nel 1997 con
l’obiettivo di valorizzare il sapere scientifico della scuola, il modello di
lavoro di Su18 propone di
integrare due “laboratori” e due contesti, quello della classe in cui la
scienza viene ri-costruita e appresa attraverso la
realizzazione di progetti, e quello delle manifestazioni (exhibit) in cui i progetti
vengono comunicati dagli studenti a un pubblico esterno alla scuola. Su18
oggi è presente in 12 città italiane e ha un’estensione internazionale in
Mozambico (www.scienza-under-18.org). Gli autori, impegnati con compiti diversi in
Su18, per preparare questo intervento hanno cominciato a scambiarsi e-mail;
al momento della redazione finale hanno deciso di conservare la forma del
dialogo, perché essa ha un ruolo importante nella storia e nella sociologia
della scienza, ma anche perché riproduce bene nella sua struttura
comunicativa proprio l’oggetto di cui intende occuparsi, rappresenta cioè una
delle dimensioni della creatività scientifica, quella del gioco di
co-costruzione di idee attraverso l‘ascolto, la comprensione critica, la
divergenza, la modulazione. M
-
Da dove incominciamo: dalla relazione tra creatività e scienza, e quindi dal
lavoro degli scienziati, o dalla creatività nell’apprendimento e quindi dai
ragazzi? C'è una differenza di contesti o di qualità del processo? La creatività tra scienza e apprendimento della
scienza P
- La
domanda se incominciare dalla disciplina o dall’apprendimento riguarda
l’insegnamento di tutte le materie scolastiche; oserei dire che questa
domanda è il nodo centrale dell’insegnamento. Personalmente non ho dubbi:
occorre partire dalla disciplina, cioè dalla scienza, e spiego perché. A
scuola si insegnano le “materie” che sono correlate a una o più “discipline”
ragione per cui, per prima cosa, occorre chiarire che i termini “materia” e
“disciplina” non sono sinonimi, ma appartengono a due ambiti differenti,
collegati tra loro. La disciplina è una particolare forma di conoscenza che
appartiene al campo della ricerca e della conoscenza specialistica, ovvero un
prodotto culturale maturo che si è dimostrato efficace per organizzare un
campo di conoscenze, mentre la materia indica la traduzione di quella
particolare forma di conoscenza a favore di individui in formazione, in
questo caso a favore degli studenti. Se
così è, non può sfuggire la problematicità, o comunque la complessità, del
rapporto tra sapere da insegnare e sapere insegnato. Infatti, per come si è
formata la scuola in Italia, ma non solo, il sapere da insegnare è deciso dai
programmi ministeriali (o dalle Indicazioni
per il curricolo) che rappresentano una prima traduzione della disciplina
verso la materia; i Programmi ministeriali, a loro volta, vengono rielaborati
(cioè tradotti ancora) dai docenti che così definiscono la materia, ovvero
cosa e come insegnare. Quanto e qual è la distanza tra disciplina/e e materia dopo queste operazioni? A ciò si aggiunge il
fatto che una materia a volte è formata da una costellazione di discipline;
per esempio chi insegna scienze nella scuola secondaria di primo grado si
trova ad insegnare biologia, chimica, fisica, geologia ecc., tutte discipline
che hanno degli aspetti in comune, ma anche aspetti molto diversi tra loro. Ora,
tornando al tema centrale della nostra discussione, se si leggono le Indicazioni per il curricolo dell’area
scientifica del 2007, il termine “creatività” non compare mai. Il che può
significare o che la creatività non è una competenza coinvolta nel processo
scientifico (la scienza nel suo farsi) o che gli estensori dei programmi non
l’hanno ritenuta rilevante nell’insegnamento della scienza, magari
ritenendola pertinente all’apprendimento solo nei suoi aspetti psicologici
più generali. Se si vanno invece ad analizzare i processi che riguardano la
scienza (come disciplina), il termine creatività è centrale, in quanto è un
elemento fondamentale nei processi di scoperta o invenzione. Lo scienziato,
quasi per definizione, è creativo! Ecco
perché, a mio avviso, conviene approfondire prima come e se la creatività è
coinvolta nel processo di costruzione della scienza, per poter ragionare poi
su come inserirla nel quadro dell’insegnamento della scienza, cioè nella
materia. M
–
Quando hai detto che lo scienziato quasi per definizione è creativo ho avuto
un moto di incredulità, ma non perché io pensi che la creatività appartenga
solo all’arte (un potente stereotipo della nostra cultura), ma perché mi è
venuto subito in mente per contrasto il faticoso lavoro di laboratorio,
ripetitivo e accumulativo, che è il materiale da
cui si distilla la scoperta. Allora
ho accostato la tua frase a quest’altra che uso spesso: lo scienziato di mestiere
è colui che non sa, altrimenti perché dovrebbe scoprire o inventare qualcosa?
Ovvero lo scienziato è colui che si pone domande e cerca (ipotesi di)
risposta. Ne consegue che non solo la “materia” è qualcosa di distante dalla
disciplina, ma anche che il sapere disciplinare delle scienze è qualcosa di
molto diverso dalla prassi scientifica. E questo ci porta subito dentro il
discorso sull’insegnamento delle scienze: come può funzionare un’educazione
scientifica, e infatti in Italia non funziona, se l’insegnamento capovolge la
prassi scientifica, ponendo al centro non l’azione di chi non sa per cercare
di sapere, ma la comunicazione da parte di chi sa a chi non sa. Questo
probabilmente ci dice già molte cose sul rapporto tra insegnamento e
apprendimento scientifico, ma, per rimanere in tema, questa impostazione “a
rovescio” esclude in partenza la creatività dall’apprendimento scientifico. Immagini di scienza e creatività P
- Il
fatto che la creatività non venga citata nelle Indicazioni per il curricolo (o genericamente nei programmi del
Ministero della Pubblica Istruzione) non significa che venga (o debba essere)
esclusa dall’insegnamento delle scienze. Partirei
da due dati che fanno parte della pratica scolastica. Il primo riguarda
l’utilizzo del termine “creatività”, o comunque di termini in qualche modo
assimilabili. Non è raro che un docente pronunci frasi del tipo “Questo allievo è creativo,… quest’altro è
divergente … questo invece è
intuitivo (ma non approfondisce)” oppure “Hai risolto questo problema in modo originale, ecc.”, anche se
mi ha molto colpito una recente ricerca attraverso la quale si scopre che in
realtà i docenti temono gli studenti creativi, in quanto poco controllabili e
classificabili. A ciò si aggiunge il fatto che la valutazione della
creatività crea non pochi problemi in quanto essa è correntemente basata su
criteri che non contemplano la creatività, anche se la didattica per
competenze cerca di superare questa impasse.
A mio avviso comunque questi problemi nascono dal fatto che la creatività è
una funzione assegnata alle persone e non alle materie. In realtà la
creatività non può essere scissa dall’opera che l’uomo realizza (crea): un
uomo (uno scienziato, un artista, un allievo) mostra la sua creatività
attraverso un’azione, un’opera, un manufatto, una teoria ecc., un pittore
attraverso un quadro, uno scienziato attraverso una teoria, o un nuovo
strumento, un nuovo procedimento, come uno studente la può mostrare
attraverso un compito, sempre che il compito sia stato strutturato per farla
emergere. Ecco perché, secondo me, il discorso sulla creatività, per
risultare efficace a livello dell’insegnamento, deve essere analizzato già a
livello disciplinare e quindi epistemologico. In altre parole, a mio avviso,
i docenti devono recuperare l’analisi epistemologica disciplinare; non ci si
può fidare solo dei cosiddetti esperti che decidono che cosa insegnare e come
insegnarlo. In particolare, nel caso specifico della creatività, occorre che
i docenti analizzino quali immagini di scienza veicolano in classe e quale
ruolo gioca la creatività in queste immagini.
Anche
se il discorso rischia di diventare complesso, direi che queste immagini
stanno su un continuum ai cui estremi abbiamo da una parte la scienza-riproduzione
della realtà e dall’altra quella di scienza-costruzione della realtà. Se
si privilegia l’immagine di scienza come riproduzione della realtà, si
veicola un’idea di scienza oggettiva nella quale gli scienziati devono
scoprire quali sono le leggi che governano il mondo. In questo modello la
creatività dello scienziato consiste nel trovare strumenti in grado di
“leggere il libro della natura”. Il docente guidato da questa immagine
privilegia una didattica votata alla ri-scoperta
delle leggi della natura, per cui la creatività dello studente viene misurata
dalla sua abilità a ri-scoprire quelle
leggi. Se
si privilegia invece l’immagine di scienza come costruzione della realtà si
veicola l’idea di scienza come interpretazione di fatti nella cornice
teorica, storicamente connotata, entro cui i fatti si sviluppano e sono
narrati. In questo modello la creatività emerge in un sistema complesso
composto dal soggetto (lo scienziato), dallo stato della disciplina e
dall’ambiente. Il docente guidato da questa immagine privilegia una didattica
nella quale il sapere viene ogni volta ri-costruito,
per cui la creatività dello studente viene misurata dalla sua capacità di
riposizionarsi ogni volta all’interno delle situazioni problematiche che gli
vengono proposte. Per inciso, mi sento di affermare per esperienza, diretta e
indiretta, che uno stesso docente, più o meno coscientemente, utilizza nel
corso delle proprie lezioni più di un modello. La mia idea comunque è che
l’analisi del rapporto tra creatività e apprendimento della scienza è ancora
molto frammentaria. In
ambito disciplinare invece esiste una discreta letteratura che analizza il
processo di scoperta, che è contiguo al processo creativo. Esistono ad
esempio numerosi esempi di come alcuni scienziati abbiano avuto, in
determinati momenti, dopo lunghe fatiche infruttuose, “l’illuminazione” che
li ha portati ad una scoperta, che a volte è narrata come incidente (serendipità). Ricordiamo però a
questo proposito che Pasteur ha affermato che soltanto una mente preparata è
capace di cogliere particolari dettagli in grado di comporre un quadro
significativo; quindi Pasteur lega strettamente competenza e illuminazione. A
ciò si aggiunge l’idea, abbastanza consolidata, che la scoperta abbia sia una
componente razionale (relativa all’organizzazione logica dei contenuti) sia
una componente psicologica (i processi mentali dello scienziato). Occorrerà
probabilmente ancora riflettere su come interagiscono questi due domini e,
per quanto ci riguarda più da vicino, sulla relazione tra scoperta e processi
creativi. M
– Non
è un caso che l’immagine della scoperta scientifica, anzi tout court
della scienza, come serendipità
viene proposta da persone che non hanno una formazione scientifica; e sono un
po’ scandalizzato che si tratti anche di persone che hanno un ruolo
importante nel campo pedagogico: non vedono l’aspetto deresponsabilizzante e spettacolaristico tipico della cultura in cui viviamo; la
conseguenza è che molti giovani si iscrivono alle facoltà scientifiche e ben
presto le abbandonano quando scoprono quanto bisogna studiare e lavorare in
laboratorio. Questa
immagine dello scienziato è ricalcata sullo stereotipo culturale
dell’artista, ma io invece sono convinto che anche gli artisti “creano” solo
se sono artisti, ovvero se hanno costruito una professionalità di cui fanno
parte studio, conoscenza, apprendimento per tentativi ed errori,
frequentazione di maestri, apprendistato ecc. La parola in greco per arte è “tèchne”,
quindi direi di chiudere questa storia della serendipità, che rischia di essere fuorviante, con le parole
di Pasteur che traduco: non c’è scoperta senza competenza. Piuttosto,
riprendendo il tuo discorso su dove sta la creatività, se nel soggetto o
nell’oggetto, o nella relazione, io sono interessato alla dimensione
epistemologica, e particolarmente a quella “locale”, ovvero a quell’insieme
di pratiche cognitive caratterizzate dalla cultura in cui il bambino è
immerso, che passano poi per “interiorizzazione” dalla prassi di interazione
sociale al pensiero dell’individuo (Vygotskij) e
sprofondano progressivamente a un livello di inconsapevolezza come abitudini
cognitive, che diventano premesse e contesto della prassi di conoscenza individuale. Il
fatto che la dimensione epistemologica della scoperta si manifesti anche
quando non ci sono “oggetti” da scoprire, osservazioni o esperimenti da fare,
per esempio in una conversazione in cui vengono messe in un gioco collettivo rappresentazioni
individuali, mi dice che il mio interesse è fondato. P
- L’alternativa
è leggere il processo globale in modo sistemico e costruttivo. Secondo questa
logica ogni nuova conoscenza può essere considerata un'attività di ricontestualizzazione del materiale a un livello più
generale, e la creatività indicherebbe la capacità che ha un individuo di
creare dei ponti cognitivi tra contesti diversi. Questo potrebbe aprire nuovi scenari sul
rapporto tra creatività e apprendimento della scienza? M
–
Per me la domanda fondamentale è se (o quanto) l’apprendimento della scienza
deve svolgersi come si svolge la scienza. La risposta definisce il contesto
cui riferire il significato di apprendimento e insegnamento, e anche di
creatività scientifica, perché risolve l’ambiguità se la creatività dello
studente la valutiamo tale in relazione alla scienza e ai suoi contenuti
disciplinari, alla sua prassi, ai saperi
socialmente consolidati, oppure all’apprendimento e quindi poi alla scuola,
al sapere scolastico o alle finalità sociali e culturali della scuola. La didattica come costruzione di contesti
apprendimento P
–
Il tema dell’apprendimento della scienza (ma in generale dell’apprendimento
di qualsiasi materia) fa parte di un sistema complesso che riguarda, almeno,
anche l’area dell’educazione (dove si mettono in gioco scelte sul tipo di
cittadino che vogliamo formare) e l’area epistemologica che, in senso
moderno, riguarda un’analisi della dimensione “semantica” della disciplina
(che comporta a monte una scelta di quali sono i concetti, le leggi e le
teorie fondanti di quella disciplina, da cui può derivare che cosa si vuole
insegnare) e un’analisi della dimensione “sintattica” (che comporta
un’analisi di quali sono le procedure utilizzate dagli esperti disciplinari
per arrivare a elaborare quei determinati concetti, leggi e teorie, da cui
può derivare quali procedure si ritengono importanti da insegnare). Il
sistema nel suo complesso potrebbe essere rappresentato come nella Figura 1.
Quindi per me, quando si insegna scienza, occorrerebbe predisporre percorsi
in grado di far apprendere agli studenti, ai diversi livelli di età (questa è
un’altra variabile), sia le conquiste in termini di concetti, leggi e teorie,
sia i processi attraverso cui si può arrivare M
– Del
tuo schema vorrei discutere il termine “didattica”, che oltretutto sta al
centro. La didattica è un’azione del docente e io vorrei smettere di dare per
scontato che l’apprendimento dipende dall’insegnamento. I primi anni
di vita di qualunque bambino dimostrano nel modo più eclatante che il bambino
apprende anche se nessuno gli insegna. Il che non vuol dire che l’adulto non
abbia un ruolo, ma non è per forza quello di insegnante (per farmi capire: il
bambino impara a parlare interagendo con la mamma, che però non gli detta
regole di grammatica). Quindi io sostituirei “didattica” con “costruzione di
contesti di apprendimento”, che mi pare apra anche di più alla creatività,
dal momento che elimina la pretesa di determinare che cosa e come il soggetto
apprende; e mi pare vada in questo senso anche lo spostamento delle finalità
della scuola sull’acquisizione di competenze. P
-
Visti i danni che la didattica può fare, io starei attento a bypassarla: i
docenti vengono addirittura pagati per costruire contesti di apprendimento e
l’apprendimento a scuola dipende dall’insegnamento; se vogliamo intendere la
didattica come “l’arte di costruire contesti di apprendimento” va bene e mi
sembra produttivo; ma, una volta esplorato il rapporto
creatività-apprendimento, lì, cioè ai contesti che favoriscono
l’apprendimento, dobbiamo tornare. M
- Quello
che volevo dire è che non è vero in assoluto che i bambini apprendono ciò
che gli viene insegnato, intendendo per “insegnamento” quello che
normalmente tutti si rappresentano quando viene usata questa parola. Su
questa idea dell’apprendimento, tanto profonda da non essere più esplicitata,
è basata tutta l’istituzione preposta all’ “istruzione” (appunto). Quindi
d’accordo sulla didattica, se la si intende non come “insegnamento” ma come
“arte di costruire contesti di apprendimento”, ma questo non è uno
spostamento da poco, è una rivoluzione culturale. Oltretutto questa arte
rende possibile la creatività, l’insegnamento” no. Se
poi nel discorso sostituiamo “apprendimento” con “conoscenza”, ci avviciniamo
ancora di più alla scienza sul versante epistemologico. E questo mi riporta
alla questione se l’apprendimento della scienza deve svolgersi come si svolge
la scienza. Forse un passo avanti di avvicinamento tra apprendimento e
dimensione epistemologica della scienza lo facciamo se inseriamo il processo
scoperta-invenzione scientifica in una dimensione più ampia e generale che
potremmo definire “esplorazione”. I bambini esplorano: quanto più sono
piccoli tanto meno sono centrati sulla soluzione del problema che hanno
davanti (o che l’adulto educatore gli pone), non nel senso che non tentano di
risolverlo, ma nel senso che durante il percorso non eliminano dal campo di
attenzione gli elementi che vi si affacciano (gli insegnanti dicono che i
bambini sono “dispersivi”). Apro una parentesi, che forse ha a che fare con
la creatività se significa qualcosa il fatto che i bambini riescano a risolvere
un problema là dove gli adulti falliscono: a volte i bambini arrivano
imprevedibilmente (creatività) alla soluzione del problema proprio attraverso
certi elementi che gli adulti escludono in partenza come non pertinenti in
base a ciò che già sanno; soprattutto, per tornare all’esplorazione, i
bambini non si fermano alla soluzione del problema, ma continuano a esplorare
il campo di conoscenze che il problema e il suo percorso di soluzione hanno
aperto. E questo di nuovo è un elemento in comune con la scienza che è
caratterizzata non dal fornire risposte definitive ma ipotesi di risposta e,
soprattutto, ulteriori domande, senza fine. Dunque anche lo scienziato
esplora. Qui
vorrei introdurre un altro elemento. Nelle mie esperienze di conversazioni di
bambini attorno a temi che noi adulti “disciplinari” attribuiamo al campo
scientifico, percepisco qualcosa che potrei associare all’idea di creatività
quando i bambini costruendo (collettivamente) conoscenza attorno a un
oggetto, oppure, ancora prima, esplorando un campo di realtà e di esperienza,
costruiscono contestualmente un linguaggio, un sistema di parole
adeguato a descrivere e spiegare. La creatività la vedo quando
nell’andirivieni tra le cose (e le azioni sulle cose) e le parole, i bambini
a volte inventano anche le parole, ma più spesso le pescano dal bagno di
linguaggio in cui sono immersi, bagno culturale e sociale, per adattarle alle
idee, alle rappresentazioni che co-costruiscono; così le parole risultano
avere un significato diverso da quello “standard” che attribuiamo loro noi
adulti. Le parole dei bambini quando fanno scienza hanno ancora un’ampiezza e
variabilità di significato che permette un gioco di aggiustamento più libero
ed efficace; è un linguaggio che manca di generalizzazione e di stabilità, ma
proprio questo gli consente un adeguamento più preciso e a volte
sorprendentemente raffinato alla specificità del contesto. Mi vengono in
mente bambini piccoli che esplorando attorno all’acqua scoprono che quando
tentano di prenderla tra le mani sfugge loro negli spazi tra le dita. Si
tratta di quella caratteristica che nella nostra scienza adulta definiamo
“liquidità” volendo significare che un liquido non ha forma propria, ma
prende quella del contenitore. I bambini dicono che è l’acqua è “fina”; il
termine è meno preciso del nostro perché non è specifico dell’acqua; però poi
noi molto più dei bambini andiamo in crisi quando ci viene fatto notare che
le gocce d’acqua o i getti d’acqua hanno una forma propria, o quando ci viene
chiesto di dire, applicando le nostre definizioni, se la sabbia o la farina
sono liquide o solide... La dimensione sociale della creatività E
qui però si fa presente un’altra dimensione della creatività: è una faccenda
individuale (come ci suggeriscono i miti e gli stereotipi dell’artista) o
sociale, come mi suggerisce l’osservazione delle conversazioni dei bambini
impegnati in un processo di soluzione di un problema? I bambini conoscono, e
addirittura pensano, in gruppo: una conversazione spesso risulterebbe
incomprensibile se non si tenesse conto che il “gioco linguistico” in atto
non è, come nel caso degli adulti, un confronto tra idee o opinioni
concordanti e/o discordanti, ma piuttosto uno sviluppo a più voci (tipo brano
orchestrale o meglio ancora, jam session jazzistica) di una conoscenza
collettiva, che passa anche attraverso l’accordo o il disaccordo, ma dove
comunque ogni intervento sta dentro una storia e va compreso (come lo
comprendono i bambini che vi partecipano) come uno sviluppo del sistema degli
interventi precedenti. La
dimensione sociale del processo di conoscenza non solo è fondante per il
pensiero individuale, come ci ha spiegato Vygotskij,
ma aumenta le possibili combinazioni di pensieri e azioni cognitive e
questo è importante per la creatività in un modo che ci avvicina alla prassi
scientifica, credo. Anche lo scienziato ricombina idee con il linguaggio? P – Torno alla domanda
precedente “Che ccosa stai chiedendo quando chiedi se
l’apprendimento della scienza deve svolgersi come si svolge la scienza?”)
perché mi interessa continuare il ragionamento su questo punto. C’è (a tuo
modo di vedere) uno svolgersi dell’apprendimento e uno svolgersi della
scienza e tu chiedi se i processi che si svolgono nell’apprendimento e nella
scienza sono in qualche modo confrontabili e/o addirittura assimilabili. Ora,
se l’apprendimento è una modifica di uno stato mentale preesistente e la
scienza è un insieme di rappresentazioni e convenzioni in continuo
cambiamento, la domanda io la porrei così: “I processi che costruiscono l’apprendimento sono confrontabili con i
processi che costruiscono la scienza?”. Se è così la creatività
potrebbe essere riportata all’interno dei processi che determinano i
cambiamenti dell’apprendimento e della scienza. In accordo a quanto detto
sopra io penso che la creatività sia una faccenda non solo sociale ma
addirittura storicizzata e che lo scienziato si muove alla stregua di un
esploratore. Ma come si fa a distinguere i processi di apprendimento della
scienza dai processi di apprendimento in generale e la scienza dalla
conoscenza? I processi creativi hanno una base comune e poi si declinano
all’interno delle discipline? M
– Non
mi convince l’idea che la creatività si collochi a monte delle discipline,
perché questo vorrebbe dire che è una specie di dote naturale che viene prima
della cultura; come dire che, se uno è creativo e fallisce la carriera
scientifica, può sempre diventare un cantautore di successo. Non si può
essere creativi in qualcosa di cui non si è competenti. Addirittura, se non
sbaglio, in certi ambiti come la pubblicità, il “creativo” è una figura
professionale, un ruolo. Lì però rischiamo di ricadere nello stereotipo che
la creatività esiste solo nel campo artistico, ma lo dicevo per rilevare come
la creatività intesa come professione va nella direzione opposta a quella di
una dote naturale. Ma
tu giustamente parli di “processi creativi”, che mi riporta all’idea di arte
come tèchne, evitando quella mortifera
separazione tra arte e scienza (tra affettività e intelletto, tra corpo e ragione
ecc.: l’errore di Cartesio,
insomma). I processi creativi si possono studiare, comprendere, coltivare
(non insegnare). Forse si potrebbe cercare di capire in che cosa i
processi creativi che caratterizzano la scienza, e che quindi fanno parte
della cultura di una comunità scientifica storicizzata, sono simili e in che
cosa sono diversi da quelli che caratterizzano altre culture e comunità. Lo
stesso discorso forse si può fare a proposito della conoscenza, evitando la hybris
di una scienza che si pensa come forma superiore di conoscenza, ma anche
guardando alla scienza come a una attività culturale che più di altre è
trasparente rispetto ai processi di conoscenza, perché si porta dietro, o
almeno a fianco, una ricerca metacognitiva, che studia i processi e che ha,
ad esempio, distinto nella scienza la dimensione della scoperta da
quella della giustificazione. Insomma meglio un’epistemologia che il
ricorso a un “principio dormitivo” (il Baccelliere de Il malato immaginario di Molière che spiegava l’effetto
dell’oppio con la presenza in esso di una “virtus
dormitiva”) come l’ispirazione per spiegare i processi creativi. P
–
Anche se può esistere uno schema generale in grado di spiegare la nascita e
lo sviluppo dei processi creativi il nostro obiettivo è quello di trovare le
differenze tra quelli utilizzati dagli scienziati per innovare la scienza e
quelli utilizzati, per esempio, dagli artisti per innovare l’arte. Si
potrebbe partire dal cercare di capire (o/e magari definire) che cos’è, o
quando un processo è creativo. A mio avviso, in relazione a una determinata
disciplina un processo può essere considerato creativo quando porta a
risultati considerati originali o innovativi dalla comunità di riferimento.
Di conseguenza, in relazione all’apprendimento della scienza un processo può
essere considerato creativo quando uno studente ottiene (nell’apprendimento
della scienza) un risultato considerato originale dalla comunità in cui è
inserito (il docente, i compagni, una commissione, il pubblico) ecc. Come
dire che la creatività si gioca (è una proprietà che emerge) nell’interazione
tra soggetto, disciplina e comunità (estesa). Questo ci permette di tornare
alla costruzione dei contesti di apprendimento che devono tenere conto di
tutti e tre gli elementi della relazione: individuo, disciplina e comunità. Scienza
under 18 come contesto
di apprendimento creativo M
–
È per questo che avete inventato (creatività!) Su18? Perché una manifestazione pubblica, esterna alla scuola,
in cui gli studenti sono attori (perché compiono azioni di formazione
scientifica nei confronti del pubblico), costituisce un contesto più
favorevole alla creatività? Ovvero che cosa manca alla scuola per essere un
contesto “naturale” per la creatività scientifica degli studenti? P
–
Il punto non è se alla scuola manca qualcosa per favorire lo sviluppo dei
processi creativi; il punto è che la scuola dovrebbe avere la consapevolezza
che è uno degli elementi che possono favorire o sfavorire lo sviluppo di
questi processi. Le variabili da analizzare sono tante e tutte possono
giocare un ruolo; l’ambiente fisico, la cultura della partecipazione alle
decisioni, l’organizzazione oraria, la cultura della valutazione, l’immagine
che la scuola vuole dare all’esterno, l’utenza, l’immagine del preside, dei
collaboratori ecc., sono alcuni degli elementi che possono concorrere in un
senso o nell’altro. Allo
stesso modo, quando i progetti sulla scienza vengono portati fuori dalla
scuola (nel caso di Su18 per
la comunicazione pubblica da parte degli studenti) possono cambiare tante
cose. A partire dal fatto che una classe esce con la propria “cultura” (nel
senso visto sopra), fuori dalla scuola cambia il terzo polo del triangolo,
ovvero la comunità; quindi le interazioni tra i tre soggetti del sistema (il
soggetto, le scienze e la comunità) cambiano, e ancora una volta il
cambiamento può favorire o meno lo sviluppo dei processi creativi. In altre
parole, nulla è già dato, ma l’esperienza di Su18 ci dà la consapevolezza che la comunicazione pubblica
della scienza può essere un contesto favorevole allo sviluppo dei processi
creativi. M
–
Facendosi aiutare da Wittgenstein potremmo dire che è una questione di
“giochi linguistici”, ovvero di situazioni note e socialmente accettate con
ruoli previsti e comportamenti di interazione attesi, in cui ci si inserisce
senza sforzo e senza consapevolezza perché praticati da sempre (penso ai
bambini piccoli che giocano “alla maestra” anche prima di essere mai andati a
scuola). I “giochi linguistici” della scuola sono stabilizzati e
difficilmente modificabili, anche da parte di chi avrebbe interesse e piacere
a modificarli. Allora un contesto diverso, non immediatamente classificabile
tra quelli noti, permette giochi diversi, più aperti. Noi
sosteniamo che un apprendimento attivo della scienza è quello che si mette in
sintonia con la dinamica della scoperta scientifica e che perciò nasce dallo
spiazzamento, dal non sapere; in questa prospettiva la domanda assume
un ruolo chiave sia come punto di partenza ma anche come punto di arrivo (mi
sto convincendo che è caratteristico della prassi scientifica il fatto che un
percorso di ricerca si concluda con nuove domande, all’infinito). Bene, nella
scuola la domanda funge da “segna-contesto” dell’interrogazione che è
un “gioco linguistico” con ruoli definiti, in cui chi fa la domanda
(l’insegnante) non la fa per conoscere la risposta (quella giusta) che gli è
già nota, ma per verificare se la conosce l’interlocutore (lo studente) e il
comportamento adeguato dell’interrogato è quello di fornire non tanto la
risposta adeguata alla soluzione del problema posto dalla domanda, quanto la
risposta che ha la maggiore probabilità di ottenere l’approvazione
dell’interrogante (è lo stesso gioco dei quiz in televisione, con effetto di
reciproco rinforzo culturale). Allora la possibilità che la domanda inneschi
un gioco linguistico diverso da quello “standard”, come quello della ricerca
(o dell’esplorazione), che è tipico della scienza, richiede
che il contesto sia diverso da quello della scuola ma, aggiungerei, anche da
altri giochi noti, come la competizione sportiva o lo spettacolino per i
genitori ecc. In
questo senso mi pare che Su18
proponga “giochi linguistici”, contesti diversi (anche se ci sono forti
elementi unificanti) a partire dal fatto che sono i ragazzi ad assumere un
ruolo attivo di comunicazione e formazione nei confronti del pubblico a
partire dal loro fare scienza a scuola e dalla convinzione che questo
faciliti il loro apprendimento delle scienze. Ma quali sono le modulazioni di
questi principi in iniziative come l’exhibit,
le sfide alla scienza, la fotografia scientifica, il teatro-scienza, il
giornalismo scientifico, i simposi? E quindi quali aspetti specifici assume
la creatività? E già il fatto che il fare scienza assuma tutte queste forme
mi pare testimoni di creatività nella scienza. P
–
Secondo Bruno Manelli che ne è l’animatore in Scatti di scienza (la nostra
iniziativa sulla fotografia scientifica), il percorso di scoperta di un
soggetto nell’ambiente esterno meritevole di una foto richiede un
atteggiamento di improvvisazione (non sappiamo cosa possiamo incontrare) che
può diventare un allenamento a ri-guardare la
natura con occhi nuovi, creativi nel senso che il fine diventa cogliere una
situazione o un particolare che può aggiungere stupore/curiosità/informazione
al già noto e visto. Così
tradurre in immagine significativa un esperimento o un concetto scientifico
richiede una progettazione della situazione sperimentale, la scelta di che
cosa e come far entrare nell’immagine (punto di vista, colori …). Qui la
creatività può consistere in uno spostamento rispetto alle normali procedure
adottate in laboratorio perché l'attenzione si centra sul requisito
dell’efficacia dell’immagine (per questo abbiamo una sovrapposizione con la
condizione precedente perché la finalizzazione dell’immagine è la stessa).
Nella lettura dell’immagine possiamo pensare a una forma di creatività che si
libera nell’analisi dell’evidenza sperimentale rappresentata: spesso
l’immagine può dire di più e altro rispetto alle intenzioni dell’autore.
L’occhio può diventare un investigatore elastico, spregiudicato e ad ampio
spettro, capace di andar oltre le pratiche controllate e un po’ asettiche che
la scuola tende a riprodurre. Le
Sfide alla scienza proposte a Su18 (centrare un bersaglio con un
uovo, senza romperlo, lasciato cadere da 5 metri di altezza; lanciare con un
catapulta una palla da tennis a 7 metri; realizzare la miscela per creare la
bolla di sapone più grande e più longeva; risolvere il problema dell’eccesso
di effetto serra ecc.) richiedono, come sostiene il loro ideatore Francesco Cigada, di ottimizzare un risultato scientifico in una
situazione di risposte aperte con più soluzioni possibili. La creatività si
concentra nel ricercare la soluzione ottimale all’interno dei vincoli
assegnati, focalizzandosi sul prodotto da realizzare. Occorre negoziare con i
propri errori, andare oltre i primi risultati per trovare soluzioni
innovative non ancora sperimentate. Il percorso sotteso richiede di
effettuare molteplici e differenti prove per approssimare il risultato
attraverso modalità operative inattese e idee originali… confrontandosi
direttamente con i propri e gli altrui risultati. M
–
A me questa sembra la situazione più vicina al processo di
scoperta-invenzione degli scienziati. Nel caso del teatro-scienza prodotto
dalle classi, dovendo sintetizzare, a me pare che la chiave della creatività
sia la ricontestualizzazione di conoscenze
scientifiche, di sociologia e di storia della scienza in una narr-azione fatta da soggetti, un gruppo di soggetti
coinvolti nella loro interezza senza possibile separazione tra gli aspetti
cognitivi e quelli emotivi e relazionali. Originale in ogni performance è il modo in cui il gruppo ripensa
e rivive con il corpo “qui e ora” dinamiche che producono conoscenza
attraverso processi di interazione tra persone in un contesto culturale e
sociale. P
–
Non bisogna dimenticare però che lo “zoccolo duro” delle esperienze di Su18 è rappresentato dagli exhibit.
L’exhibit rimanda al laboratorio più
classico e più utilizzato nelle scuole, ma è proprio lì, a mio avviso, che,
in rapporto alla creatività, abbiamo fatto nel corso degli anni le osservazioni
più interessanti. Sei d’accordo? M
– Completamente
perché le caratteristiche dell’exhibit
istituiscono naturalmente contesti di ricerca e quindi di esercizio di
creatività; l’exhibit, infatti è un
dispositivo finalizzato a far sorgere e confrontare pensieri attorno a
un “oggetto cognitivo” che può essere una “macchina”, o meglio il suo
comportamento, un fenomeno, un'idea scientifica ecc. Il fatto che sia
centrato su un modello materiale implica che accada qualcosa che possa essere
percepito, o, ancora meglio, che si possa agire sul modello, e
soprattutto che ci sia uno spiazzamento, quindi una domanda cui
rispondere costruendo ipotesi. P
–
Questo quando l’exhibit viene proposto dall’insegnante
alla classe, ma la sua
esportazione da parte della classe all’esterno (contesto diverso), che è la
specificità delle manifestazioni di Su18,
richiede operazioni il cui esito non è dato in partenza, come
l’esplorazione del campo cognitivo e delle risorse; una messa a fuoco precisa
dell’ “oggetto cognitivo”; la ri-progettazione del
dispositivo più adeguato e la sua costruzione materiale; la stesura di una
“sceneggiatura” (che cosa fa l’animatore, se c’è, e che cosa viene chiesto di
fare al pubblico); le prove di “messa in scena” per una messa a punto di tutto
il dispositivo, ecc. Per non parlare degli incidenti di percorso in fase di
presentazione al pubblico che richiedono la messa in gioco di competenze
dinamiche difficilmente attivabili nel contesto protetto della classe. M – Riprendendo la pista
“teatrale”, anche nel caso degli exhibit, ovvero dell’animazione in cui gli
studenti coinvolgono il pubblico attorno a un dispositivo sperimentale per
trovare spiegazioni a qualche fenomeno, si potrebbe dire che la creatività
sta nel “qui e ora” dell’interazione con il pubblico. E la stesura di una
sceneggiatura? E il laboratorio teatrale in cui si sperimentano le soluzioni
performative a partire dalle azioni del corpo? E il laboratorio teatrale, per
il fatto di essere il luogo in cui si esplorano le possibilità di rendere i
propri corpi, i dispositivi sperimentali, le interazioni tra essi, esempi
di qualche processo di esperienza da cui distillare idee, espressioni
culturali, non è forse un contesto simile a quello scientifico? P – Per concludere,
l’esperienza di Su18 ci
consente di affermare che i contesti di apprendimento (intendendo con Bateson per contesti dei sistemi entro cui avviene un
insieme di eventi nel gioco libero dei vincoli e delle possibilità)
possono essere dei luoghi dove è possibile osservare l’emergere di processi
creativi. E quindi ci permette di ragionarci sopra collettivamente a partire
da dati osservabili. M
- Con l’avvertenza che ogni osservazione è un’interpretazione ... creativa. |