Marcello Sala

IL CORALLO DI DARWIN

-pubblicato in-

NATURALMENTE n. 4 / 2008

Felici Editore

 

Nel suo articolo L’albero di Darwin (in Naturalmente n.2/2008) Tiziano Gorini scrive: “la dimostrazione della scoperta scientifica implica un po’ paradossalmente che si celi come essa è avvenuta in realtà” e fa riferimento alla distinzione tra contesto della scoperta e contesto della giustificazione scientifica tematizzato dal neopositivismo.

Il caso di Darwin è presentato proprio a partire dallo scarto tra la sua professione di induttivismo baconiano e la sua pratica di ricercatore molto più eclettica, “una riflessione niente affatto lineare” come scrive Gorini, così come essa appare soprattutto nei diari “segreti” [1] di lavoro.

NASCITA DI UNA SCOPERTA

Da questo punto di vista i Taccuini, né ricostruzioni a posteriori di un percorso, né pure raccolte di dati di laboratorio poco significative senza la luce di una teoria, sono una testimonianza “in diretta” della nascita di una teoria [2]. Scrive Telmo Pievani nella prefazione al Taccuino rosso nell’edizione italiana da lui recentemente curata [3] Spesso nelle ricostruzioni storiche di grandi scoperte dobbia­mo accontentarci di narrazioni a posteriori. Lo scienziato, ormai famoso e in là negli anni, racconta come è arrivato alla sua idea, non senza qualche inevitabile concessione al narcisismo e al fasci­no del romanzo. Qui invece leggiamo un diario di prima mano, un bollettino quotidiano in presa diretta che ha la spontaneità, la fre­schezza e l'irriverenza di chi sa che sta scrivendo per sé e non cer­to per un'imminente pubblicazione. I taccuini rappresentano quindi una testimonianza straordinaria dell'essenza della creati­vità di Darwin, della sua logica della scoperta scientifica. Ci rac­contano, dall'interno, come e quando è arrivato alla teoria, e per­ché decide di tenerla nel cassetto.”

Nel paradigma della scoperta lo scienziato assume ciò che osserva accadere non come semplice evento nel flusso del divenire, ma come esempio, ovvero come caso, come modello di un ordine più generale e astratto, ma sta a lui scoprire di che cosa è esempio. Perciò lo scienziato, per mestiere, è colui che non sa. La difficoltà per noi “esperti”, che leggiamo i Taccuini a partire da una cultura biologica costruitasi nel Novecento, è assumere il punto di vista storicizzato di Darwin ovvero di chi... non conosceva la teoria dell’evoluzione. Personalmente in più di un punto della lettura sono rimasto sconcertato di fronte alla sua non comprensione, al suo essere fuori stada; mi veniva da dirgli “ma dai! è così evidente che...”; ma l’evidenza sta negli occhiali attraverso i quali noi guardiamo i fatti naturali, occhiali che proprio Darwin ci ha costruito. Qui noi seguiamo le mosse cognitive di Darwin mentre li stava costruendo; e lo faceva osservando i fenomeni attraverso gli occhiali culturali non evoluzionistici che gli forniva la cultura del tempo.

Gorini sceglie come un esempio emblematico della relazione tra la ricerca di Darwin e la cultura del tempo l’icona dell’albero, che compare sotto forma di diagramma come unica illustrazione ne L’origine delle specie, e cita Gruber che “non ritiene che i disegni siano soltanto un mero strumento concettuale a disposizione del pensiero storico, un sussidio propedeutico o didattico, bensì che manifestino piuttosto una interazione tra produzione artistica e conoscenza scientifica, in cui l’immagine funziona come modello per la teoria”; in sostanza sviluppa un discorso sul ruolo mitopoietico delle immagini nel rapporto tra cultura di appartenenza e mondo interiore impegnato in un percorso creativo.

La proposta è di leggere il percorso di scoperta non solo nel contesto della storia della scienza, ma su uno sfondo da una parte più vasto, nel senso della cultura, e dall’altra più profondo, nel senso dell’interiorità.

UN CONTESTO PER LA SCOPERTA DARWINIANA

Opportunamente Gorini pone come problema epistemologico quello dell’ “estetica scientifica, ovvero della funzione che forme, simboli e metafore possono svolgere nella produzione della conoscenza scientifica nel contesto della scoperta”. [4].

Si tratta di un’operazione molto interessante, soprattutto per allargare le vedute di chi nel contesto scientifico sta immerso e rischia di viverci come in un’isola. Io però vorrei riconsiderare il ruolo che gioca lo specifico della scienza in questa questione, non per riportare il discorso in un ambito speciale ed esclusivo, ma perché la cultura scientifica è un elemento significativo proprio nel quadro di quel  contesto complessivo e complesso che si cerca di ricostruire.

Vorrei farlo a partire da un’osservazione sui testi: c’è una differenza tra l’immagine che compare nel disegno di Darwin nel Taccuino B (pag. 36), e che è divenuta abbastanza famosa da quando se ne è impadronita la macchina della “divulgazione”, e quella de L’origine delle specie. è lo stesso Darwin a tematizzare questa differenza, perciò mi pare opportuno dedicarvi attenzione perché penso possa fornire elementi di comprensione.

corallo

albero

Taccuino B pag. 36

L’origine delle specie, cap. IV .


Diversamente da quella dell’albero, la prima immagine non è così facilmente riconducibile a una iconografia. Con questo non voglio dire che si sottrae a qualsiasi influenza culturale, quanto piuttosto che va anche ricondotta a un altro contesto fondamentale per Darwin, ovvero il processo di costruzione (ricordiamo che stiamo parlando di uno schizzo su un diario di lavoro personale) della sua teoria, ovvero la riflessione sull’origine della diversità dei viventi nello spazio e nel tempo. Sempre a pag. 36 del Taccuino B, a commento del disegno, scrive “Così i generi sarebbero formati – attraverso legami di parentela” : la sua idea fondamentale della discendenza comune. Siamo dunque all’interno di un contesto scientifico e naturalistico; esso è certamente in comunicazione con la cultura del tempo non solo perché ciò è in generale inevitabile, ma anche perché le idee di Darwin non potevano non avere un impatto sulla società del tempo e a questa interazione, almeno dal 1858 in poi, lui stesso non si sottrasse; tuttavia la produzione di questa immagine e la sua sostituzione con l’altra hanno anche un significato specifico nello sviluppo della scoperta darwiniana e del pensiero evoluzionistico.

A riprova di questa specificità, è proprio all’interno di questo ambito che si svilupperanno ulteriori riflessioni sulle immagini e le metafore dell’evoluzione e sul loro significato culturale; ho in mente in particolare quella di S.J. Gould, (ad esempio in La vita meravigliosa) a proposito della “marcia del progresso”, ovvero della rappresentazione di una progressione lineare dalla scimmia all’uomo, attraverso lo scimmione che tenta la locomozione bipede, l’Australopiteco, il Pitecantropo e l’Uomo di Neanderthal.

Il Taccuino B è redatto nel 1837: Darwin è in una fase del suo pensiero in cui elabora idee sull’origine di nuove specie come il “saltazionismo” [5] o la “speciazione allopatrica” [6], che poi eliminerà dalla versione finale della teoria a favore del gradualismo e che poi verranno recuperate nel Novecento da Mayr, Gould ecc. come ripensamenti critici all’interno della teoria dell’evoluzione.

In quel contesto Darwin scrive esplicitamente a proposito dell’immagine dell’albero (pag. 25):

“L’albero della vita dovrebbe forse essere chiamato il corallo della vita, giacché la base delle ramificazioni è morta; così che i passaggi non sono visibili – questo, ancora una volta contraddice una costante successione di abbozzi in progresso. – no, la rende solo eccessivamente complicata.”

Che il contesto del discorso sia una idea non gradualista dell’evoluzione è confermata poco più avanti: “Le speculazioni precedenti sono applicabili a uno sviluppo non progressivo” (pag. 44), riferendosi a un’idea di progresso della cui matrice culturale Darwin sembra essere ben consapevole: “Lo sviluppo progressivo offre una causa finale per gli enormi periodi antecedenti all’Uomo, difficile per l’uomo non avere pregiudizi su se stesso [...]”  (pag. 49).

L’immagine del corallo si differenzia e in parte si contrappone a quella dell’albero anche perché, non avendo un tronco, manca di una direzione privilegiata di crescita, prefigurando una evoluzione che esplora in qualsiasi direzione le possibilità adattative. Se la storia (così come le leggi della fisica e della chimica) costituisce un vincolo, e questo fa parte della rivoluzione darwiniana, ciò non significa che è possibile prevedere la direzione dell’evoluzione; e, soprattutto, il percorso è determinato dalla contingenza e non preordinato come una “marcia del progresso” ascendente verso il suo culmine stabilito: l’uomo (bianco e maschio).

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L‘ ”albero” filogenetico di Haeckel

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Il “corallo” della moderna “cladistica”

IL LINGUAGGIO TRA APPARTENENZA  E CREATIVITà

Proprio nell’atto di scegliere, o di costruire, una rappresentazione simbolica di una propria idea Darwin esplicita il motivo della preferenza a partire da una differenza. Di scelta dunque si tratta e il motivo della scelta è strettamente connesso all’uso che ne intende fare. Non siamo nella situazione di chi utilizza semplicemente il linguaggio del suo gruppo sociale di appartenenza per esprimersi, assumendo in modo inconsapevole tutto lo spessore della stratificazione culturale di significati che esso si porta dietro; siamo in un contesto meta-riflessivo in cui è valutata proprio la funzione simbolica, l’essere segno, ovvero la relazione tra un’immagine e un significato.

Ci sono campi di ricerca in cui un atto creativo per esprimersi deve passare attraverso un linguaggio dato, condiviso dalla comunità. Nel caso della fisica, spesso la novità è comunicabile attraverso le nuove combinazioni di un linguaggio estremamente formalizzato e astratto come la matematica; tuttavia a volte è stato necessario inventare una matematica nuova o adottarne una fino a quel momento esclusa dall’ambito di un linguaggio ritenuto “universale”.

Ma ancora maggiore difficoltà si incontra quando i nuovi contenuti vengono espressi con il linguaggio verbale, che è condiviso e usato da una comunità sociale più ampia di quella disciplinare; il “mestiere impossibile” della educazione e comunicazione scientifica si gioca proprio nello scarto di significato tra l’uso delle stesse parole con significati molto diversi nel contesto scientifico disciplinare e nel contesto della comunicazione sociale di massa.

Nelle scienze naturali spesso è proprio un cambiamento di linguaggio “tecnico” a segnalare il cambiamento di paradigma o di riferimento teorico. Il sistema di Linneo è un sistema linguistico [7], tanto per fare l’esempio più evidente.

cono_cespuglioE il discorso è del tutto simile nel caso dei linguaggi analogici. S. J. Gould ha sviluppato una riflessione proprio sulla forma della rappresentazione grafica dell’evoluzione, a partire dalla reinterpretazione dei fossili cambriani del giacimento di Burgess [8]. La forma dà conto della interpretazione, come suggeriscono le denominazioni che Gould usa nel confronto: “cono” per la “diversità crescente” “cespuglio” per la “decimazione e diversificazione”.

La scelta di Maturana e Varela di utilizzare una parola “difficile” come autopoiesi per esprimere la loro idea originale di vivente credo sia legata al desiderio di non vederla fraintesa, deformata o contaminata da idee preesistenti attraverso un linguaggio già carico di significati, di sfuggire insomma al paradosso dell’atto creativo, quello di “mettere vino nuovo in otri vecchi”. Una parola nuova in un contesto comunicativo determinato più difficilmente può essere riempita in modo soggettivo e inconsapevole di significati preesistenti e latenti.

Quello di Darwin mi sembra un caso simile. È vero che, nel momento in cui si impegnava in una comunicazione pubblica, Darwin utilizza l’albero e non il corallo, ma non possiamo essere sicuri che questo risponda solo al gioco tra l’inconscio e l’appartenenza culturale, perché nel frattempo Darwin ha anche cambiato in parte le proprie idee, ha abbandonato il “saltazionismo” per assumere il “gradualismo”, un’idea meno “anarchica”, più gerarchica e progressiva dell’evoluzione cui l’albero risponde adeguatamente.

Dunque Darwin dimostra di avere una consapevolezza critica proprio nello specifico della scelta di questa immagine; la quale del resto si colloca all’interno della consapevolezza di stare elaborando un pensiero nuovo: da un certo punto in poi usa l’espressione “la mia teoria” e la elabora immaginandosela continuamente in un contesto, per il quale ha estremo rispetto, di discussione e di possibile falsificazione nell’ambito della comunità degli scienziati.

È dunque vero che  “Darwin ha dovuto pagare il proprio tributo a un pensiero antico sedimentato nella coscienza” e, aggiungo, anche al linguaggio con cui la sua comunità di appartenenza parla dei fenomeni di cambiamento nella natura [9], nonostante quel linguaggio contraddica il senso della sua rivoluzione teorica, ma è anche vero che proprio il contesto della scoperta, o meglio della costruzione consapevole di una teoria “rivoluzionaria”, introduce un elemento di novità creativa e di consapevolezza critica anche nell’uso delle forme culturali di espressione.

 



[1]  Darwin più di trent’anni dopo la stesura, ne tentò una revisione critica, per poi rinunciarvi. Lasciò scritto alla moglie di non pubblicarli dopo la sua morte, tuttavia non li distrusse e li conservò: questo atteggiamento ambivalente costituisce un tema interessante per gli storici della scienza. Del resto la questione è stata oggetto di discussione tra i discendenti di Darwin, prima che arrivassero alla decisione di pubblicarli un secolo dopo (1959).

[2]  Nel 1838, alla fine della stesura dei Taccuini, Darwin era praticamente arrivato a una ricostruzione adeguata dei fenomeni dell’evoluzione fino alla consapevolezza del loro motore causale, la “selezione naturale”.

[3]  Charles Darwin 1836-1844, Taccuini, Laterza, Roma-Bari 2008.

[4]  Il problema è che nella scienza dire qualcosa con altre parole, esprimerlo con altre forme, è dire qualcosa d’altro, il che può essere fecondo nel contesto della scoperta scientifica, ma può essere devastante nella comunicazione educativa della scienza, come dimostra l’uso della metafora. La ricerca epistemologica ha messo bene in evidenza entrambi gli aspetti; si veda da una parte: Boyd R. – Kuhn T. S. (1979), La metafora nella scienza, Feltrinelli Milano 1983; dall’altra: Gaston Bachelard, La formazione dello spirito scientifico, Cortina 1995.

[5] Nel momento in cui ha la prima intuizione del significato del cambiamento delle specie a partire dall’isomorfismo di rapporti nello spazio geografico (tra due specie di nandù contigue nella pampa) e nel tempo (tra il guanaco estinto e quello recente), così si esprime: “... non un cambiamento graduale o una degenerazione derivante dalle circostanze: se una specie si trasforma invero in un’altra dev’essere per saltum... (Taccuino rosso pag. 130).

[6]  “... gli animali, su isole separate, dovrebbero diventare diversi purché tenuti abbastanza a lungo separati, in condizioni leggermente diverse.” (Taccuino B pag. 7).

[7]  Sul nesso tra sistemi linguistici e modi di pensare si veda: Foucault M. (1966), Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, RCS Milano 1996.

[8]   S.J. Gould (1989), La vita meravigliosa, Feltrinelli, Milano 1990.

[9]  In una nota al cap. IV de L’origine delle specie Darwin pone esplicitamente il problema dell’uso del linguaggio metaforico, che, ad esempio nel caso della “selezione naturale”, suggerisce idee non coerenti con la teoria.