Tecnologia,scienza, cultura Se si chiede a che serve la scienza, le risposte
per lo più fanno riferimento al suo ruolo nella soluzione dei problemi
dell’umanità relativi alla sopravvivenza e al benessere, attraverso la
tecnologia. Si dimentica che la tecnica viene prima della scienza: l’uomo del
Pleistocene non ha aspettato di conoscere i principi di fisica per costruirsi
raschiatoi e armi o per accendere il fuoco; solo molto più tardi si è posto
qualche prima domanda sul perché le cose funzionano come funzionano. Nella società in cui vivo l’affezione alla
tecnologia è così profonda che ormai si può parlare di totale dipendenza. Ma,
mentre la competenza operativa riguardo agli oggetti tecnologici è diffusa in
tutte le classi d’età e le stratificazioni sociali, la conoscenza sul come
sono fatti e sul come funzionano è ristretta a una élite di appassionati tecnomani, per lo più giovani maschi. Se poi passiamo
alla conoscenza dei perché, il cerchio si stringe ancora di più. é dunque
normale che, rispetto alle conoscenze scientifiche necessarie alla
progettazione della tecnologia, la realtà sia quella della “fuga di cervelli”
all’estero. Ormai in ogni ufficio, casa, negozio,
autoveicolo, d’estate è in azione un condizionatore che porta la temperatura
a 20° la dove d’inverno gli impianti di riscaldamento la portano a 25° e
oltre (se dimenticate di portarvi una felpa quando andate in treno d’estate
la laringite è assicurata, esattamente come d’inverno se vi capita di fare la
fila in un ufficio dove non potete togliervi di dosso il piumino che avete
indossato per uscire). Mentre si sa in giro che gli impianti di riscaldamento
inquinano, quasi nessuno sa che i condizionatori, come i frigoriferi,
producono calore e quindi aumentano la temperatura dell’ambiente, evento dal
quale ci si vorrebbe difendere mettendoli in azione; perfetto esempio di feedback
positivo e di processo “autofertilizzante”. Personalmente nutro un’atavica diffidenza per la
tecnologia, che pure uso: prima di passare alla successiva generazione di
ritrovati faccio resistenza e spesso cedo solo quando non è più disponibile
la necessaria manutenzione per i modelli che uso da tempo o quando diventano
incompatibili con le necessità della comunicazione in ambito professionale.
Sono convinto che la tecnologia ha cessato di essere la ricerca da parte
dell’uomo di strumenti con cui risolvere problemi dell’esistenza per diventare
l’ambiente in cui vive, e che ormai la ragion d’essere della tecnologia non è
più l’utilità ma la possibilità: se una cosa è possibile costruirla la si
costruisce, gli usi vengono dopo [1]. Una domanda che mi sono sempre fatto è “a quale
bisogno risponde l’alzacristalli elettrico dell’automobile?”; e mi tormenta
il pensiero che tra una quindicina di anni, se dovrò cambiare l’auto, non ne
esisteranno più con la manovella. Qualche tempo fa è comparsa sui quotidiani
la notizia di un bimbo di tre anni strangolato dall’alzacristalli elettrico
dell’auto inavvertitamente azionato. Di converso sono irresistibilmente attratto dal
come sono fatte le cose, dal come funzionano, e soprattutto dal perché funzionano
come funzionano. Ho un “socio in imprese di formazione” e i nostri viaggi in
treno sono il nostro luogo privilegiato di “ricerca scientifica”. Il suo
ruolo è quello di esperto (è un fisico) chiamato a rispondere alle domande, e
quasi sempre il tutto comincia con una mia domanda “ingenua”, che non oserei
fare in un consesso scientifico; ma quasi sempre dopo un po’ le domande sono
quelle che si pone anche lui, quando si accorge che le risposte alle domande
ingenue non sono poi così scontate. Ho sessant’anni e lui poco memo di
quaranta: cesseranno prima i viaggi in treno che le nostre domande
scientifiche. Non so se sono matto, di sicuro sono disadattato
a un ambiente in cui il rapporto tra scienza e tecnologia è quello descritto
prima, in cui l’ignoranza scientifica è patrimonio nazionale e motivo di
orgoglio (sembra perfino normale che in un Museo di Storia Naturale si svolga
un convegno di creazionisti [2],
in cui la pratica scientifica decresce rapidamente con il processo di
acculturazione, per cui, ad esempio, le conoscenze sull’evoluzione a 8 anni
sono non solo più vive, ma anche più corrette da un punto di vista
scientifico, che a 16 anni [3]. Io sarò disadattato ed è un problema mio, ma la
domanda che voglio porre anche ad altri è come vogliamo essere cittadini di
questo mondo. La questione che voglio porre è se vi sia
relazione tra la scomparsa del pensiero scientifico dalla cultura di massa e
la progressiva dominanza di certi aspetti culturali che ormai caratterizzano
la convivenza civile e l’organizzazione sociale, dal confronto tra numero di
persone che leggono e numero di persone che guardano in TV l’Isola dei
famosi all’idea che è giusto non pagare le tasse (le tasse o le
imposte?), dalla politica delle “veline” al fatto che non ci si possa
esprimere come cittadini in un referendum sulla fecondazione assistita,
perché è meglio andare al mare, ma anche perché non si sa che di che cosa si
tratti ecc. ecc. L’ultimo esempio fatto sembra più pertinente al
rapporto tra scienza e civiltà: per prendere decisioni sulla fecondazione
assistita, questione che riguarda la vita di molte persone, è necessario
sapere come funzioni il processo di fecondazione e per questo occorre una
conoscenza scientifica: se le cose stanno così... (e questa è la scienza),
allora io decido in un certo modo (e questa è la democrazia) e me ne prendo
la responsabilità (e questa è la civiltà). Ma io sono convinto che anche la
conoscenza della differenza tra imposte e tasse, che è conoscenza delle
dinamiche che concretizzano il contratto sociale e con esse la “fisiologia”
di uno Stato che vada al di là della organizzazione su base di clan e sui
rapporti di forza, sia dello stesso tipo di pensiero scientifico che usiamo
per conoscere i fenomeni naturali. Per quello che riguarda le “veline” e le altre
manifestazioni della cultura nazionale, il legame con il pensiero scientifico
sembra più remoto ma in realtà è più profondo, nel senso che interessa quello
che è il contributo più rilevante che il pensiero scientifico ha dato alla
cultura umana, il pensiero critico (si può anche obiettare che il pensiero
critico è nato ben prima della scienza come ora la conosciamo, ma forse solo
perché ai tempi di Aristotele o di Occam si parlava
di “filosofia”). Cultura
scientifica a scuola Alle insegnanti partecipanti a una ricerca-azione
relativa a un curricolo di scienze basato sulla sperimentazione di laboratori
sull’acqua[4]
abbiamo chiesto di ripensare ai momenti in cui hanno creduto di osservare uno
sviluppo di competenze (intese come capacità di utilizzare in situazioni
problematiche ciò che si sa o si sa fare) nei loro allievi. Ecco alcune
risposte: - “La
capacità di osservare e fare ipotesi centrate e coerenti da parte di un
bambino che generalmente si mostra abbastanza apatico.” Questa osservazione porta l’attenzione su un
punto fondamentale: proprio perché riguardano la pratica di situazioni di
problematiche, le competenze non possono essere sviluppate prima e altrove
rispetto al contesto in cui si manifestano. Non c’è un luogo dove si
imparano e un altro diverso dove si mettono in pratica. Questo dovrebbe
essere tenuto presente nella valutazione: un test, a maggior ragione
un’interrogazione, è un contesto diverso da quello in cui si sviluppa e si
manifesta la competenza che si vuole valutare. Già il fatto di voler valutare
una determinata competenza mette la valutazione sulla via del fallimento: le
competenze si possono solo “attendere come imprevisti” [5] e
osservare quando si manifestano; questo richiede ascolto, ovvero capacità
di comprendere, abbandonando le proprie griglie di osservazione e
interpretazione, o almeno essendo consapevoli che si tratta di proprie “lenti
culturali”, di proprie premesse epistemologiche, di propri pre-giudizi pedagogici. Che cosa ci dice (e in situazioni di
apprendimento diverse dalla routine scolastica questo tipo di
osservazioni abbonda) il fatto che spesso allievi valutati come refrattari
all’apprendimento sono più partecipi e attivi, apprendono quindi, in un
contesto diverso da quello della lezione e dell’interrogazione? Ci dice per
l’appunto che i contesti sono diversi; e che la contestualizzazione è un
elemento costitutivo della competenza. Valutare gli allievi solo in un
contesto “scolastico” vuol dire valutare soltanto le loro competenze... di
adattamento al contesto scolastico. - l’insegnante riferisce di bambini che, partiti
nominando le ‘molecole’ ma senza una chiara consapevolezza di che cosa siano,
passano a dichiarare che “le molecole non esistono” per poi approdare a “sono
comode per spiegare...” e cercano nei libri vari modi diversi di
rappresentarle. Questa nota sottolinea una dimensione
meta-cognitiva essenziale della pratica scientifica, ovvero la consapevolezza
che della realtà che si manipola e si osserva vengono costruite delle
rappresentazioni, dei modelli, attraverso il linguaggio. - “Durante
un’esperienza pratica sulle misure di capacità, riempiendo dei bicchieri e
dei tappi è successo che l’acqua superasse il bordo del contenitore senza
cadere fuori e un bambino ha esclamato: <<Maestra, è il principio della
tensione superficiale!>>. Questo ha rappresentato l’inizio di un nuovo
laboratorio scientifico.” Nella corretta applicazione di una nozione
teorica a un fenomeno osservato io vedo la capacità di un bambino di
contestualizzare una nozione. Ma in quella esclamazione e nell’ultima frase
dell’insegnante vedo anche il rovesciamento di quella pratica scolastica che
colloca, anche per i più piccoli, l’apprendimento dei termini scientifici
prima della comprensione dei concetti e addirittura prima dell’osservazione
dei fenomeni di cui essi sono rappresentazioni. - “A
partire dalla curiosità di alcuni alunni, ricerca da parte loro di strategie
per poter soddisfare quella curiosità; di qui ricerca di informazioni su internet,
libri (anche portati da casa) dizionari...” La curiosità può essere considerata il motore
(che è contemporaneamente emotivo e cognitivo) della scoperta
scientifica: le bibliografie degli scienziati lo testimoniano ampiamente. Ma
non basta essere curiosi e dotati di immaginazione creativa per fare scienza,
occorre anche il rigore di una pratica che ha una dimensione sperimentale e
una di documentazione e studio. La competenza è dunque quella dell’organizzarsi
per soddisfare la curiosità. - “è cambiato l’atteggiamento verso ogni area
disciplinare: problematizzano anche ciò che è più astratto. Aumentano le
curiosità: giunti a una conoscenza si riparte con nuove domande”. Questa osservazione fa riferimento a un
atteggiamento che si può considerare lo sviluppo del precedente: non solo la
curiosità che supera il livello del qui e ora per diventare qualità
epistemologica attraverso il porsi domande, dando vita a una ricerca che non
ha mai termine, ma anche la tensione a problematizzare come dimensione
fondamentale della scienza, che ha un valore culturale più generale: - “Presa
di coscienza della necessità di verificare le informazioni (in un testo, ad
esempio): “bisogna sempre verificare”. Trasferimento in altre discipline, ad
esempio in storia come necessità di documentare.” Qui è evidente la generalizzazione di un
atteggiamento critico che investe non tanto altre discipline scolastiche
quanto una dimensione fondamentale della civiltà: la consapevolezza della
Storia come una narrazione che va al di là della soggettività del singolo, se
vuole sottrarsi alla manipolazione della comunicazione mediatica da parte di
chi ha potere. - [dopo un’esperienza di laboratorio in cui avevano
incontrato l’acqua attraverso i diversi sensi] “l’autonomia dimostrata da
diversi bambini (di 6 anni) nel prendersi cura del ‘giardino dei sensi’
realizzato a scuola, con un uso consapevole dell’acqua.” é solo un piccolo esempio che riguarda bambini
piccoli, ma le competenze, che fin qui abbiamo chiamato “scientifiche” in
riferimento a una nostra mappa culturale, se vengono colte nel valore che
assumono nell’esperienza dei bambini, ci fanno intravedere qualcosa di più:
quel “prendersi cura” delle cose, della natura, delle relazioni, costituisce
un valore civile, una qualità della convivenza, sono piccole grandi
competenze di cittadinanza. |
[1] Si veda: Umberto Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli 1999.
[2] Il 19-21 giugno 2009 le sale del Museo di
Storia Naturale di Brescia, che qualche mese prima erano state negate al Darwin day, hanno
ospitato un ciclo di conferenze creazioniste.
[3] Marcello Sala, Darwin insegnato (d)ai bambini, in Micromega
1/2008.
[4] Istituto Comprensivo “Ten. F. Petrucci”
Montecastrilli (TR), Progetto “Il
curricolo verticale per lo sviluppo delle competenze nell’area scientifica e
dell’educazione ambientale: un percorso
di ricerca integrato tra scuola e territorio” a.s.2008/2009.
[5] Il riferimento è a: Paolo Perticari, Attesi imprevisti, Bollati Boringhieri
1996.