Marcello Sala - Chiara Favaro

“LA CITTÀ INVISIBILE”

-pubblicato in- 

ADULTITà n. 5 / 1997

Guerini e Associati

 

“D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie,

ma la risposta che dà a una tua domanda”

 (I. Calvino)

CAMBIAMENTI

«...non so cosa farò della mia vita, però ho capito che sono in un momento in cui posso fare delle scelte... ho scoperto che avevo un cassetto e in questo cassetto avevo chiuso un sogno, l’avevo chiuso a chiave perché non potevo fare quello che volevo... pensavo di non potere... adesso scopro che queste cose esistono, che si possono fare, che danno tanto non solo a me, ma anche ad altre persone... e mi sono detta: mi devo dar da fare e scoprire che cosa  posso fare io con queste cose ».

Le parole di Giulia, impiegata trentaduenne, testimoniano, crediamo, di un elemento inscindibile dal senso dell’educare, della formazione degli adulti in particolare: la possibilità del cambiamento. Per qualcuno può trattarsi di piccoli spostamenti, ma vicini a delle soglie, che possono aprire altri processi, altri movimenti; come degli interruttori, o come dei segni; per altri possono essere piccole conquiste di spazi nella quotidianità della  vita e delle relazioni.

Il contesto cui si riferisce questa testimonianza, la situazione educativa che fa da sfondo o da matrice a queste esperienze di cambiamento, è un laboratorio per adulti. [1]

UN “LABORATORIO IN MOVIMENTO”

Proposto a “chi vuole incontrare Venezia al di là dei luoghi comuni”, “La città invisibile: laboratorio in movimento alla ricerca di percorsi e tracce di storie” nasce dall’incontro tra educazione ambientale e formazione teatrale, e lavora, attraverso pratiche di movimento, di percezione, di espressione, di oralità, alla costruzione di una relazione tra il “dentro”, il corpo, la persona intera, e il “fuori”, l’ambiente, l’altro da sé.

Venezia è la città più guardata del mondo, ma quanto è davvero visibile? Che cosa vedono milioni di turisti attraverso gli obbiettivi delle loro macchine fotografiche? Forse ciò che si aspettano e che hanno già visto nelle illustrazioni. Ma allora perché venire fin qui? Che cosa si può vedere stando qui? Ecco: qui e ora, essere presenti, costruire una relazione personale, diretta, in-mediata con i luoghi e le loro storie. Questa è la chiave dei tre giorni veneziani de “La città invisibile”.

Accolti come viaggiatori alla stazione, si è subito immersi nella città dei veneziani, coinvolti in una ricerca indiziaria che diviene storia di incontri. E poi si parte dalla città verso il mare condividendo lo sguardo di antichi viaggiatori. Nella striscia di terra che separa la Laguna dal mare, protette dalla notte e nella notte, che è presenza concreta all’udito, all’olfatto, al tatto... le storie si intrecciano. E il giorno seguente il viaggio riprende sulle acque, nel cerchio di un orizzonte profondo e preciso, galleggiando nel tempo, accompagnati da voli di uccelli e apparizioni di uomini che sono della Laguna quanto la Laguna è loro creazione. E la città “dalle settantasette meraviglie”, evocata dal canto, emerge dalle acque e dallo sfondo della sua storia. E più tardi lo sguardo si allarga ed entra nella profondità dello spazio del cosmo che tutto contiene, accogliendo il sorgere della notte. Il buio rovescia la percezione dalla vastità del cielo all’interno del corpo in movimento e viceversa, in una ricerca di remote risonanze. Le luci del mattino riportano attraverso le acque alla città acquatica. Il vagabondo si fa guida nella gratuità del suo cammino e l’azione dello sguardo gioca con gli spazi della città. L’attitudine di ascolto fa improvvisamente e silenziosamente emergere dallo sfondo dettagli che divengono tramiti di una relazione personale con i luoghi. E dalla relazione e dalla memoria prendono vita significati: infinite città invisibili si mostrano nel filo dei racconti che si dipana nel tessuto ormai vivo della città.

PARTIRE DALLA SOLITUDINE

Ma la relazione non è qualcosa di dato o il frutto un po’ magico di intenzioni esplicitate. E qualcosa che va costruito appunto, con fatica anche, a partire da una realtà che è fortemente marcata proprio da una mancanza o da una difficoltà nella relazione.

Il primo movimento della relazione è attraversare la solitudine. Ovunque andiamo ci portiamo dietro un guscio di abitudini, di pensieri, che ci protegge e ci separa dai luoghi che incontriamo e dalle persone che li abitano. Se, anziché rimuoverla, proviamo ad assumere questa solitudine come punto di partenza, possiamo metterla in gioco, in un gioco che offra un’occasione di rompere il guscio, perché ciascuno possa forse trovare le proprie domande, quelle di cui parla Italo Calvino, e comunque vivere una propria piccola storia in una città che si propone amichevole.

Nella sfida posta dal compito di costruire una dimensione di gruppo nell’arco di tempo di 48 ore, le “tecniche di socializzazione” possono essere attraenti, ma ci appaiono come scorciatoie in un processo di conoscenza reciproca che scorre a profondità maggiore, sotto le maschere dei nostri rapporti sociali. Le comuni appartenenze che appaiono nelle “presentazioni” possono mettere in campo pre-giudizi su possibili affinità, e precludere la scoperta di altre.

Un buon modo dunque per cominciare un viaggio insieme ci sembra quello di partire dai viaggi personali e coglierne l’intreccio. In uno spazio di parola e di ascolto, reso visibile dal cerchio di luce nella notte, ciascuno racconterà la storia del proprio viaggio attraverso la città, storia nata però in un luogo di esperienza già di fatto condiviso, a livello fisico (muoversi nello stesso spazio nello stesso tempo) e a livello relazionale (giocare lo stesso gioco).

 “PULIRE LA PORTA DELLA PERCEZIONE”

Ogni esperienza come tale non può che essere individuale, anche se la si fa insieme ad altri: ognuno costruisce la propria storia seguendo i propri fili, i propri nessi, trovando i propri significati. Perciò per l’esperienza, la memoria, le conoscenza, il cambiamento, ciò che conta è come ognuno fa le stesse cose che fanno gli altri: e in quel “come” c’è tutto lo spessore della propria dimensione “mentale” (nel senso che Bateson dà alla “mente” come “struttura che connette”). Ma il punto di partenza cui noi vogliamo ancorare l’esperienza è la concretezza “qui e ora” del rapporto percettivo con le cose: «Se si pulisce la porta della percezione allora ogni cosa si mostrerà così com’è: immensa» (W. Blake).

Ciò che chiediamo è allora di non passare oltre, di lavorare sul dettaglio. “Dare tempo ai luoghi”: la lentezza diventa valore positivo, la pazienza di creare uno spazio di silenzio e di ascolto perché i luoghi possano parlarci. Per una volta non cerchiamo il senso delle cose nelle informazioni, nei nomi, nelle spiegazioni, usate per rinchiudere rapidamente le cose nel nostro ordine preconfezionato, per sottrarci al contatto. Per una volta cerchiamo soltanto nell’ascolto, accettando che il senso delle cose sia nel loro accadere, nel loro svolgersi nel tempo: «...per tutto il giorno del resto, la sensazione fisica di acqua, di terra e di strisce sottilissime di terra che rischiavano di essere tutte uguali, tranne che per sfumature di colore, per temperature...», «questa sensazione di dilatarmi in orizzontale...», «...continuavo a girarmi e a cercare un punto di sfogo - si deve uscire da qualche parte -, ma non lo trovavo e mi piaceva questa cosa... provavo un forte senso di contenimento, di protezione, ed era gradevole».

Dalle percezioni nasce un movimento attraverso lo spazio delle proprie sensazioni, delle proprie reazioni emotive. Che non sono soltanto quelle del benessere: stanchezza, senso di vuoto, di estraneità, blocchi, corti circuiti dalla memoria: «a un certo punto c’è stato questo gabbiano che s’è alzato, io mi sono ricordata di cosa succedeva in altri luoghi della mia vita in quel momento e ho detto: io qua non ci voglio stare, adesso mi butto in acqua, torno a nuoto e vado via». Accettare il disagio, attraversarlo è parte dell’esperienza: se al centro della ricerca è la relazione “qui e ora”, anche le difficoltà fanno parte del gioco.

Ma dare vita a una esperienza che dia spazio alla relazione, per attraversare anche il disagio con la possibilità di contenerlo e di dargli un senso, richiede delle condizioni. Chi conduce si assume la responsabilità di proporle come “regole del gioco” a chi partecipa.

LE CONDIZIONI

C’è una prima cosa che può bloccare il flusso dell’esperienza ed è il giudizio, non tanto nei confronti degli altri, ma soprattutto di se stessi: “questo so già cos’è”, “so già che questo non lo so fare”. Ecco perché la sospensione del giudizio, come ci dicono le testimonianze dei/delle partecipanti, è una condizione essenziale: significa sostanzialmente permettersi di agire, di reagire, per aprire la possibilità di una esperienza, che ogni volta è diversa nel “qui e ora”, nella relazione con l’ ”altro”.

Ma l’azzeramento degli stereotipi che pre-giudicano non è tanto un atteggiamento morale, è una condizione che si gioca prima di tutto a livello del corpo e si può raggiungere attraverso uno “spiazzamento”. Le abitudini, che sono fisiche quanto mentali, sono radicate in profondità per una ragione evolutiva fondamentale: non ce la faremmo a sopravvivere se ogni volta che riapriamo gli occhi non potessimo dare per scontato che ritroveremo la stessa realtà; ma proprio per questo le abitudini sono di ostacolo alla capacità di cogliere ciò che è diverso o di scoprire un senso nuovo o più profondo delle cose. Per attivare l’attenzione utilizziamo due modalità in un certo senso opposte: provare a rompere le abitudini (ad esempio sovvertire gli orari della giornata, o chiedere esplicitamente di non fumare, o muoversi a lungo senza usare la vista), oppure mettere in risalto delle figure su uno sfondo per creare consapevolezza (ad esempio dare indicazioni sul modo di camminare). In questo senso fondamentale è avere cura, rallentare, “pulire” i gesti, amplificare i dettagli, creare uno sfondo di silenzio.

Potremmo dire che questo è un modo di ritualizzare, purché sia chiaro che per noi il riferimento non è alla liturgia, dove i significati collettivi sono già dati e richiedono soltanto adesione, ma al teatro o al rito nascente, tipico delle situazioni in cui un gruppo cerca significanti per rendere visibile un processo di costruzione di significati collettivi attraverso un’esperienza comune («Che cos’è un rito?» disse il piccolo principe. «Anche questa è una cosa da tempo dimenticata», disse la volpe. «È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore...»[2]).

Ecco allora un’altra fondamentale “regola del gioco”: il silenzio come condizione dell’ascolto;  innanzitutto ascolto del proprio corpo e delle sue reazioni, della relazione tra l’interno e l’esterno. In certe azioni viene richiesto il silenzio vero e proprio, in altri momenti la discrezione, che è il mantenersi con la parola o con i gesti al di qua quella soglia oltre la quale l’attenzione, la propria come quella degli altri, si disperde. In questo senso può non bastare un azzeramento esteriore dei suoni o dei gesti “rumorosi”, perché può ugualmente continuare un “dialogo interiore” che occupa tutto lo spazio della coscienza e dell’attenzione, tanto da dare a chi osserva una tipica immagine di “assenza”.

In particolare la richiesta è di sospendere la “parola-commento”: commentare ciò che avviene, giudicare o classificare, è un modo per non stare dentro le cose: apparentemente inseguiamo una maggiore consapevolezza, ma così teniamo lontana quella possibilità di reagire con in-mediatezza che è la condizione per scoprire, per fare esperienza. L’invito è a uscire per una volta dall’abitudine della “parola-commento” e a usare invece la parola come azione, cioè come reazione vocale che, senza chiamare in causa una riflessione razionale, suscita altre azioni con la sua qualità sonora e non solo con il suo significato.

C’è un’altra richiesta che noi facciamo: quella di una continuità dell’attenzione. Il senso è quello di garantire il fluire dell’esperienza senza interruzioni, senza separazioni tra momenti che hanno valore conoscitivo o emotivo e altri che sarebbero di “intervallo”, e che quindi non ne avrebbero. Per questo il laboratorio è pensato come un tempo unico dell’esperienza. Allora anche mentre si mangia o ci si riposa si può mantenere una consapevolezza della relazione, magari semplicemente non dimenticando che si sta mangiando o riposando in quel luogo in quel momento.

Se l’esperienza non può essere che individuale, la proposta formativa si sviluppa comunque in un contesto collettivo. Nel laboratorio non lavoriamo esplicitamente e intenzionalmente su dinamiche relazionali, ma il gruppo, un gruppo che “accompagna” senza giudicare, è un’altra condizione dell’esperienza di ciascuno, è lo sfondo, il contesto che la può accogliere, proteggere, darle la possibilità di aprirsi a una relazione con l’esperienza di altri.

LA CONDUZIONE

Ma se noi che conduciamo il laboratorio ci assumiamo il compito di costruire le condizioni per l’esperienza di chi partecipa, quali sono le condizioni che garantiscono la qualità del nostro lavoro? Una prima risposta è: le stesse.

La sospensione del giudizio è importante per non cedere al “già noto”, rischio più pressante per noi che ri-giochiamo lo stesso gioco, avendone oltretutto inventate le regole. Il silenzio che permette di ascoltare la relazione ci è indispensabile per tenere a bada le nostre proiezioni, le immagini di come “dovrebbero” andare le cose; e per evitare che lo scambio verbale tra di noi, nel processo che va dalle osservazioni su ciò che accade alle decisioni su come intervenire, cada nella “parola-commento”. La discrezione per noi significa riuscire a far giocare tutti allo stesso gioco, regolandolo anche, ma con una leggerezza nella presenza, che li faccia dimenticare di noi. In questo senso la quasi totale assenza di riferimenti diretti a noi nelle verbalizzazioni del dopo-laboratorio è un riscontro positivo.

E ancora: l’attenzione alla continuità ci è indispensabile per non precipitare nella frattura tra “stare dentro” e “stare fuori”, tra partecipare pienamente all’esperienza, che richiede “abbandono” e un partire dalla solitudine, e osservare, che implica consapevolezza di ciò che accade, per poter condurre, cioè non solo gestire, ma comprendere, contenere, accogliendo le soggettività senza che vada persa l’identità della proposta.

Sicuramente una condizione particolare nostra è la condivisione nella corresponsabilità, una “complicità” che nasce prima che il laboratorio si svolga e trova la sua dimensione nello scambio, nel confronto delle osservazioni, nelle decisioni. A monte c’è un equilibrio tra diversità e comunanza: diversità di esperienze, di ricerche, di competenze, di passioni personali; comunanza di orientamenti educativi, ma soprattutto di tratti di percorsi di formazione personale, importanti per qualità e profondità di coinvolgimento.

C’è sicuramente di base una fiducia e una reciproca attribuzione di valore. A volte si tratta semplicemente di rispondere alla proposta dell’altro; questo può anche dare un punto di riferimento ai/alle partecipanti e fare “da specchio” all’altro, ma è soprattutto un modo di esserci per l’altro, di stare dentro la sua creatività. Ma c’è anche qualcosa che potremmo chiamare la ricerca di un “ritmo”, che non è solo la ricerca di una armonia nello svolgimento del lavoro. Certo l’alternarsi nella conduzione è progettato con cura, ma questa è solo la struttura, cui deve corrispondere come una pulsazione di energia che di volta in volta si concentra sull’una o sull’altro; un’energia che una può esprimere nella qualità del lavoro, della relazione col gruppo, tanto più quanto ne riceve dall’altro.

Il fatto che a condurre insieme siano un uomo e una donna viene spesso rimandato dai/dalle partecipanti al laboratorio come elemento importante, decisivo forse rispetto alla qualità complessiva dell’esperienza; ma altrettanto spesso non si riesce a ottenere delle specificazioni convincenti di come giochi questa differenza di genere. E proprio questo vorremmo assumere come significativo: da una parte la percezione di una positiva complementarietà e, dall’altra, il suo sottrarsi all’analisi, e quindi anche a facili stereotipie; ci piace pensare a questa armonia, che passa non dalla attribuzione di ruoli, ma forse dall’ascolto reciproco delle differenze, come a un fatto complesso e anche misterioso.

FORMAZIONE AUTOFORMAZIONE

Tanta attenzione alle condizioni risponde a un’idea di formazione non come insegnamento (imprimere segni su), ma come una regia educativa che può provocare, proteggere, indirizzare forse, processi di crescita personale. Sicuramente vicina a quella di “strategia” e lontana da quella di “programmazione”, è un’idea che contempla i cambiamenti come cose che accadono, nella loro diversità e in una ineliminabile imprevedibilità, come storie che si possono raccontare e non come effetti che si possono prevedere: il buon regista non lavora per suscitare direttamente le reazioni emotive degli spettatori, può accettarle come evento in un sistema complesso dove il suo intervento può creare condizioni ottimali per il lavoro degli attori. Questa è la dimensione che noi diamo al laboratorio educativo.

E questo vale anche dal punto di vista dei cambiamenti cognitivi. Un laboratorio come “La città invisibile” non è centrato su una conoscenza dei luoghi. è la qualità della relazione che dà il senso alla conoscenza: in un contesto di relazioni basate sul consumo e sulla predazione la conoscenza può essere strumento di consumo e di predazione; il nostro interesse educativo è quello di costruire una relazione ecologica (oikos = casa) di familiarità, di parentela, tra le persone e i luoghi. In questa ricerca il primo termine della relazione è l’interezza della persona; e se mettiamo in gioco prima di tutto la fisicità, l’emozione, la memoria, è perché il nostro stereotipo culturale di considerare il soggetto essenzialmente nella sua consapevolezza razionale richiede uno spiazzamento e un riequilibrio; il secondo termine non sono solo delle immagini, congelate in punti di vista limitati e interessati, ma i luoghi nella loro dimensione reale di spazio e di tempo, nelle loro relazioni molteplici e segrete da scoprire.

Ma tutto questo non risponde certo alla ricerca di una conoscenza oggettiva, bensì di un incontro di soggettività significative. Quello che noi intendiamo costruire, e che ci sembra di cogliere negli interventi dei/delle partecipanti a “La città invisibile”, è una dimensione in cui le soggettività si manifestano, come storie personali, ma in un contesto di attività che fungono da “mediatori” nella relazione. Questo contesto non è “pretesto”, ma “testo” di una ulteriore storia che si fa nell’esperienza comune del gruppo.

Quando parliamo di soggettività non intendiamo solo quelle dei/delle partecipanti. Il laboratorio è significativamente caratterizzato dall’intreccio delle competenze di coloro che conducono, dalla loro relazione con i luoghi, dagli “stili” personali. In questo senso un cambiamento nella conduzione può essere considerato una forte “perturbazione” nel rapporto tra soggettività e identità della proposta (si potrebbe raccontare la “storia naturale” de “La città invisibile” come quella di un’ “organismo” che “evolve”, cioè attraversa cambiamenti anche profondi e mantiene integra la propria identità, intesa come “auto-organizzazione”) [3].

Da una parte allora, partendo dal piano più accessibile della percezione e dell’azione, si creano le condizioni perché le soggettività possano svelarsi anche a se stesse, partecipando alla costruzione di una autobiografia (e la sospensione del giudizio qui significa soprattutto che chi conduce non interpreta). D’altra parte la distanza emotiva garantita dai “mediatori” può consentire che la consapevolezza autobiografica sostenga una assunzione di responsabilità personale rispetto alla propria formazione, intesa come apertura di possibilità di processi di cambiamento.

 



[1]  Le testimonianze dei/delle partecipanti, che qui non possiamo riportare integralmente, costituiscono il riferimento delle nostre riflessioni. Gli interventi citati nel testo sono tratti dalla registrazione di un incontro svoltosi circa tre settimane dopo l’esperienza. Poiché il laboratorio non si rivolge a gruppi omogenei o a destinatari specifici, ogni partecipante può collocare l’esperienza fatta all’interno dei propri percorsi di formazione, professionale o non. L’incontro, che intendeva rendere esplicita questa operazione in un contesto di scambio, è stato curato da Giovanna Bestetti, psico-pedagogista che si occupa di formazione di adulti, in particolare del personale che opera nella preparazione alla nascita e nella primissima infanzia, in collaborazione con la cattedra di Psicopedagogia II dell’Università di Milano.

[2]  A. de Saint-Exupéry, “Il piccolo principe”, Bompiani 1989

[3]  Nella sua prima fase di vita il laboratorio era condotto da Marcello Sala e Luana Castelli, “operatrice naturalista” attiva nel campo dell’escursionismo ambientalistico, che a Venezia e soprattutto alla Laguna è legata da origini familiari, storie di vita e consuetudine di lavoro.