Marcello Sala

I CAVOLI

DELLA SCIENZA

Ovvero: il teatro può essere

un contesto per la cultura

scientifica della scuola?

 

-pubblicato in- 

sito Agita, Associazione nazionale per

la promozione e la ricerca della

cultura teatrale nella Scuola e nel Sociale, www.agitateatro.it ® Documentazione e studi ® Articoli e saggi brevi (30/7/2007)

 

 

Da due anni seguo un progetto di “teatro scientifico” a scuola (vedi scheda). Mi sono fatto qualche idea e molte domande. A cominciare da questa: “teatro scientifico” è il modo più sensato di nominare ciò di cui stiamo parlando? Altre parole orienterebbero diversamente il nostro lavoro?

Progetto Teatro Scientifico

di Scienza under 18

Scienza under 18, nata nel 1998 su iniziativa di un gruppo di insegnanti dell'area scientifica della SMS Rinascita - A. Livi di Milano, si pone l'obiettivo di "mettere in mostra" la scienza degli studenti; consiste in uno spazio strutturato dove, per alcuni giorni, gli studenti, dalla scuola dell’infanzia alle superiori, presentano ad altri studenti i progetti sulla scienza che hanno preparato durante l'anno. La manifestazione è gestita da una rete di scuole e negli ultimi anni, oltre a Milano, si è svolta anche nelle sedi di Monza, Pavia, Rozzano, Mantova, Casale Lodigiano, Brescia

(http://www.scienza-under-18.org).

A partire dall’edizione del 2003 dalle classi partecipanti sono stati prodotti più di 30 spettacoli teatrali sulla scienza.

Dall’anno 2005-06 un Progetto Teatro Scientifico, con il contributo della Fondazione Tronchetti Provera, offre alle scuole un sostegno organizzativo e uno spazio di ricerca-azione con l’assistenza di tutor.

Stiamo parlando di una costruzione triangolare, che, essendo un sistema, è più e meno della somma delle sue parti: infatti non basta mettere insieme teatro, scienza e scuola per ottenere il teatro scientifico scolastico; ma succede anche che i tre elementi perdono qualcosa entrando in questo sistema: si può dire che il teatro perde in teatralità, la scienza in scientificità e la scuola in scolasticità. Forse su quest’ultima perdita possiamo non piangere, le altre però richiedono un po’ di  meditazione.

Sono interessanti le riflessioni che si possono fare su tutti e tre i lati (o gli angoli) del triangolo ma, per competenze che non ho, mi collocherò dal punto di vista di uno solo di essi. Del resto il teatro a scuola è ormai una presenza consolidata anche se per nulla uniforme: sembra di poter dare per acquisita una diffusa consapevolezza delle valenze educative del teatro come forma di comunicazione, ma soprattutto come contesto di esperienza collettiva; su teatro e scienza ci sono in questi ultimi anni esperienze significative che hanno sollevato interessanti dibattiti, anche se un po’ confinati; la scienza a scuola, dove pure dovrebbe essere di casa, mi pare invece in sofferenza, perché risente di una crisi, forse la più grave dalla nascita della scienza moderna nel Seicento.

Provo dunque a chiedermi che cosa succede alla scienza quando entra in un sistema che comprende anche scuola e teatro. Le osservazioni che si possono fare ci dicono qualcosa anche più in generale sul rapporto con l’educazione e la cosiddetta “divulgazione” scientifica.

Molti spettacoli “funzionano” benissimo coinvolgono il pubblico con il loro gioco di azioni teatrali, ma il contenuto scientifico sembra estraneo, un pretesto: insomma i classici cavoli a merenda. All’opposto ci sono performance che sono lezioni su contenuti scientifici, mentre i corpi degli attori e gli oggetti hanno il ruolo delle illustrazioni del libro di testo, magari in movimento: l’impressione forte è quella di una scelta tra salvare la capra del teatro o i cavoli della scienza.

Ho visto una 5a elementare impegnata in uno spettacolo su Darwin. Una bimba recitava, camminando in mezzo agli spettatori, l’inizio del libro del Genesi. Aveva una notevole “presenza” e un buon uso della voce-corpo, ma è anche vero che ciò bastava, perché il linguaggio biblico ha un suo potente registro poetico. Più avanti nello spettacolo a mettere in scena le idee di Darwin erano vari piccoli attori che leggevano da un leggìo ai margini della scena; insomma “voci fuori campo” che porgevano testi scritti, o scelti, evidentemente dalle insegnanti per comunicare con il massimo di concisione e di efficacia esplicativa alcuni nodi teorici. Su un palcoscenico, dove il rapporto con il pubblico non può fare a meno di un coinvolgimento emozionale, il Genesi stravince per la carica di emotività che il linguaggio poetico porta con sé.

Questo esempio ci porta al centro della questione: il teatro è fatto di azioni di corpi e le parole scambiate certamente veicolano significati, ma attraverso azioni sonore. La scienza che conosciamo è fatta di rappresentazioni essenzialmente verbali, diciamo di descrizioni e soprattutto di spiegazioni. Sembra estranea al linguaggio scientifico la dimensione poetica, o anche solo quella narrativa, e oltretutto la presentazione di una teoria, di un sistema di nozioni, o anche solo di informazioni, sembra escludere la dimensione conflittuale, e con essa l’essenza del teatro: il dramma (compresa la sua versione comica).

In moltissimi spettacoli delle scuole si percepisce immediatamente il passaggio da un registro all’altro: quando arriva il “momento della scienza” il ritmo si blocca, i dialoghi si fanno verbosi... per chi se lo ricorda, sembra un po’ di essere tornati a “Carosello”, quando finiva la scenetta di puro teatro e iniziava il “codino” di pura informazione pubblicitaria.

Spesso il contenuto scientifico è affidato a interventi che si collocano fuori dall’azione scenica, come quelli di un narratore. Oppure, se si tratta di personaggi della vicenda, in quei momenti “escono” dall’azione e si rivolgono direttamente al pubblico con commenti e spiegazioni.

Abbastanza frequente è il ricorso a cornici che contengono la vicenda principale, come quella classica che rappresenta una classe di scuola che si occupa di quella vicenda. Questo consente di affidare la “spiegazione” di certi contenuti scientifici all’insegnante della classe, la cui presenza è giustificata come “personaggio”, ma l’operazione appare un po’ pretestuosa e spesso non risolve la scarsa teatralità di quel tipo di comunicazione.

Perfino in un video, realizzato da una 2a media con una padronanza del linguaggio cinematografico quasi professionale, con un gioco di montaggio a sostenere la sceneggiatura, e in cui i ragazzi recitano, quando si arriva al momento della scienza (in questo caso si tratta di interviste a scienziate famose), si nota che l’inquadratura si blocca e il ritmo si spegne per far posto al testo. E credo che questo accada proprio perché ci si accosta al testo scientifico con rispetto del linguaggio, della correttezza dei contenuti. È come se la “finzione” scenica entrasse in conflitto con la “verità” scientifica.

LEZIONI DI SCIENZE

La “lezione” di chi sa a chi non sa è la modalità più usata nel teatro scientifico scolastico per porgere al pubblico contenuti scientifici. Gli insegnanti-registi lo negheranno, ma questo conferma l’impressione che non sia una scelta, ma l’unica possibilità contemplata dalla cultura della comunicazione scientifica in cui siamo immersi. Di sicuro dentro uno spettacolo la lezione non funziona, diciamo che non riesce a tenere l’attenzione dello spettatore; ma non funziona neppure a livello scientifico perché va incontro a tutti i rischi della semplificazione, che aumentano in questa situazione.

Del resto dove operatori teatrali collaborano con gli insegnanti nella costruzione dello spettacolo, gli uni e gli altri testimoniano di un conflitto tra le esigenze dello specifico teatrale e quelle della conoscenza scientifica di cui la scuola si sente responsabile. E qui è interessante notare come giochi per le insegnanti elementari il fatto di non avere una formazione scientifica specifica: a volte sono ancor più irrigidite dalla preoccupazione di passare nozioni scientifiche e della loro correttezza, per cui si nota di più la giustapposizione tra momenti di teatro e momenti di scienza, a volte invece si sentono più libere di seguire le sirene della teatralità, lasciando sul terreno la domanda “e la scienza?”.

Ma fare lezione è l’unico modo per fare scienza nei contesti educativi e divulgativi? Se osserviamo la realtà italiana la risposta è sì. Se questa è una contingenza storica e una caratterizzazione culturale, personalmente vorrei non accettare che sia anche una normativa pedagogica ed epistemologica; questo per mie scelte pedagogiche, per convinzioni epistemologiche ma soprattutto sulla base di esperienze educative.

In molte scuole il percorso di costruzione dello spettacolo a scuola comprende una parte dedicata allo sviluppo dell’arte-tecnica dell’attore, attraverso attività di laboratorio, training sul movimento del corpo in relazione allo spazio, sulla voce, improvvisazione ecc.. Questa parte del lavoro, che alcune scuole affidano alla collaborazione di operatori teatrali, ha una fortissima valenza educativa, ma non implica di per sé la conoscenza scientifica.

La scienza rientra attraverso la drammaturgia, la costruzione della sceneggiatura. Il processo che va dal sapere scientifico al testo teatrale lo fa l’insegnante che abbastanza spesso, soprattutto nella scuola secondaria, coinvolge i ragazzi. Ma i ragazzi in questo processo non partono da un sapere acquisito. Nella maggior parte dei casi anzi il percorso teatrale è scelto dall’insegnante come contesto per l’apprendimento di contenuti scientifici, come occasione per motivare i ragazzi ad affrontare argomenti che per altre vie non passano. Dunque quali modifiche e quali inevitabili semplificazioni subisce il sapere scientifico in questo passaggio dal suo linguaggio a quello teatrale, dai libri di testo al copione? È chiaro che questo discorso riguarda tutta la comunicazione scientifica in ambito educativo e “divulgativo”. É questo problema che appassiona me sopra ogni cosa, e che non può non riguardare gli insegnanti e la scuola, ma qui cercherò di contenerlo a come si manifesta nello specifico teatrale.

Una soluzione che viene a volte adottata è quella di partire da un testo che ha già risolto la tensione tra scienza ed estetica, tra l’esigenza di essere pertinenti e precisi e quella di coinvolgere il pubblico anche emotivamente, come accade per le opere di Italo Calvino (Cosmicomiche, Palomar...). La strada per arrivare al teatro qui è più corta, ma si affida a una capacità di “recitare” e di mettere in scena che non sempre sono risorse disponibili a scuola o che non sempre a scuola trovano il tempo e le condizioni per essere coltivate.

Nella scuola di base poi le esigenze educative impongono (per fortuna) di non selezionare, facendo partecipare tutti, di valorizzare le risorse personali. A volte con esiti migliori anche dal punto di vista teatrale. Ho visto ad esempio una bimba dawn di una prima elementare che, con una iniziativa estemporanea, si è messa a “dirigere” il coro dei compagni: in una scena piuttosto statica stava agendo una contro-scena che dava movimento pur senza uscire dal contesto.

A scuola si parte dalle caratterizzazioni delle persone (nel migliore dei casi dando loro una forma teatrale, nel peggiore lasciando che diventino “macchiette” con una riproposizione al pubblico di un gergo e di riferimenti familiari, che funzionano solo nel piccolo gruppo “locale”), da un repertorio di azioni costruito nella fase di training e di laboratorio (oppure attinto dagli stereotipi della “recitazione espressiva”), e da testi che hanno a che fare con la scienza: storie di scienziati, idee scientifiche o idee sulla scienza (sociologia della scienza, scienza ed etica...).

In un lavoro di una 2a media c’era un filo che percorreva tutta la rappresentazione e che riguardava la critica all’uso sociale di teorie scientifiche sul rapporto tra cervello e facoltà intellettive. È una tesi che la sceneggiatura si proponeva di svolgere attraverso la rappresentazione teatrale, ma ciò che contava per il pubblico è se essa emergeva dalle azioni e dai dialoghi. Nel rap finale che i ragazzi cantavano e danzavano ad esempio si poteva anche non percepire che il testo avesse a che fare con questa critica, perchè le parole risultavano poco intelleggibili: il pubblico era coinvolto su un altro piano dalla forza di una impressione gioiosa di “delirio organizzato”, che faceva intuire un percorso di esperienza straordinario in cui gli adulti avevano reso possibile il convergere di energie prorompenti in un prodotto collettivo. Quella che passava dallo specifico teatrale era una percezione della “pedagogia” che stava dietro, più che della scienza.

SCIENZA ED EMOZIONE

Se è ineludibile per il teatro la dimensione dell’azione, esiste una “azione scientifica”? ci sarebbero le azioni che gli scienziati compiono, nei laboratori tanto per cominciare, ma pochi scelgono di metterle in scena e quando lo fanno appaiono stereotipi oppure parodie che possono funzionare come tali, ma che lasciano irrisolto il problema di rappresentare com’è la scienza.

Mi chiedo anche se l’azione professionale dello scienziato non la si mette in scena perché effettivamente è poco teatrale o perché c’è un pregiudizio sulla scienza, che sarebbe “fredda”, cioè priva della dimensione emozionale o affettivo-relazionale. Le storie e le autobiografie ci dicono esattamente il contrario, ma manca una ricerca sulla qualità delle emozioni, dei sentimenti, delle relazioni che caratterizzino in modo specifico contesti di lavoro scientifico e che possa essere utilizzata dal teatro e soprattutto dal teatro a scuola, dove una consapevolezza di queste dimensioni appare sempre più necessaria per i ragazzi (e per i docenti).

Queste dimensioni assenti vengono in genere recuperate nelle storie di scienziati, rappresentati nei loro drammi umani (conflitti, gelosie, scelte dolorose, avventure...), ma spesso viene da dubitare che quello cui si sta assistendo sulla scena cambierebbe se si trattasse di musicisti, guerrieri o dei della mitologia.

Insomma esiste una dimensione drammatica (e più in generale estetica) della scienza in sé ? Il conflitto delle idee ne è sicuramente la base, ma diventa drammatico se porta con sé la dimensione emotiva e questo richiede conoscenza scientifica. Potrebbe sembrare un discorso paradossale, ma la natura dell’essere umano è cultura, perciò la reazione emotiva (che è una configurazione di modificazioni del corpo in reazione a stimoli che avviene involontariamente e prima che ne abbiamo consapevolezza e rappresentazione nel sentimento) nell’uomo si scatena anche in reazione a significati (non ridiamo leggendo barzellette in una lingua che non conosciamo; ci arrabbiamo se su un foglio di carta le lettere dell’alfabeto sono disposte in un certo ordine), il che significa che l’emozione dipende dalla conoscenza (esattamente come non esistono conoscenze che non abbiano una connotazione emotiva: non sopravviviamo se non riconosciamo il valore delle cose che percepiamo).

Le idee scientifiche possono far arrabbiare, soffrire, generare meraviglia o ammirazione estetica fino all’estasi se ne comprendiamo il significato in modo profondo: il “teatro scientifico” richiede conoscenza.

Nella performance di un gruppo di teatro di studenti di 5a superiore, interessante per il tentativo di mettere in scena un lavoro di improvvisazione, la disputa scientifica veniva volgarizzata e il linguaggio scientifico ridicolizzato per le esigenze del comico, ma con questo il contenuto scientifico si dissolveva e al pubblico non era dato riconoscerlo.

D’altra parte il conflitto delle idee scientifiche è drammatico, e quindi spendibile teatralmente, se è contrasto tra personaggi, e alcuni scelgono di mettere in scena situazioni che in qualche modo contengono il conflitto e quindi hanno in sé una struttura drammatica. Il caso più classico è il processo. Ma se il dramma non è incorporato nelle azioni e nelle voci degli attori, se i gesti sono stereotipati ed enfatici, anche il più classico e collaudato processo a Galileo non “funziona” per il pubblico. E con questo siamo finiti sull’altro versante della questione, ma qui volevo far notare come spesso a indurre gli insegnanti a introdurre elementi informativi sulle idee scientifiche in conflitto è proprio la consapevolezza che senza una conoscenza nel merito viene a mancare l’oggetto del conflitto. Lo fanno però ricadendo nella spiegazione, e questo di nuovo a scapito della qualità teatrale.

Insomma sembra di essere presi nella morsa di un doppio vincolo.

In un’altro spettacolo in costume di ragazzi di 5a superiore, che traeva spunto dalla storia, i conflitti tra scienziati si riducevano a invidie, gelosie, piccoli complotti, che forse avrebbero richiesto una chiave comica o una virata sul tragico. Il contenuto scientifico o veniva trascurato non essendo rilevante per la dinamica della messa in scena, oppure veniva elevato al livello epistemologico, ma solo attraverso le parole divenute “difficili” nei discorsi dei personaggi, ricadendo nel registro didascalico.

Questo significa che il teatro scientifico fatto a scuola o è teatro scadente, da salvare per le sue valenze educative a prescindere dalla qualità artistica, o è riservato a un pubblico di esperti di scienza? Sembra una conclusione inevitabile ma solo se si accetta la premessa implicita, che cioè l’unica forma di comunicazione della scienza sia la lezione.

LA SCIENZA NON SI COMUNICA

Vorrei discutere questa premessa provando a argomentare su tre tesi:

-         il teatro scientifico a scuola non ha la funzione di insegnare scienza al pubblico;

-         per costruire conoscenza scientifica la lezione non è una modalità adeguata;

-         la scienza non si “comunica”.

Sulla questione dell’imparare, lascio agli insegnanti discutere se e come, per i ragazzi che compiono il percorso come attori, e a volte come sceneggiatori, il teatro sia un contesto di apprendimento delle scienze.

Mi limito a dire che a volte, soprattutto negli spettacoli dei più piccoli, è come se ciò che avviene sulla scena facesse apparire un’esperienza retrostante che di sicuro è di apprendimento.

I bambini di 1a elementare che ho visto fare il pane sulla scena lo facevano con gesti così convincenti che rivelavano una conoscenza approfondita: il processo di panificazione era sicuramente stato oggetto di esperienza che, se non era già scientifica, ne era la premessa.

Per due anni consecutivi una classe di scuola elementare (8-9 anni) ha messo in scena spettacoli in cui la scienza era presente come tema sociologico e culturale: il progresso con le sue seduzioni e i suoi rischi, l’immagine mitica dello “scienziato pazzo”. In questo contesto una modalità fondamentale del pensiero scientifico, il pensare “cosa succede se…”, è diventata il motore di una fantasia incanalata in chiave comica a fare i conti con la specificità del linguaggio teatrale e con le difficoltà che ad esso pongono scelte economiche ma anche educative come quella di lavorare con una troupe di 50 bambini. Lo spettacolo metteva in gioco competenze attoriali (un solido senso dello spazio e del tempo, del movimento collettivo, consapevolezza della “macchina” teatrale...) che non sono direttamente in relazione con la conoscenza scientifica, però io credo che la chiave per tenere insieme teatralità e conoscenza sia stata la scelta di un argomento che ha a che fare con la percezione e la rappresentazione della scienza e con componenti epistemologiche (il pensiero ipotetico) che i bambini vivono di persona, nel bagno di cultura in cui sono immersi, e che quindi conoscono come propria esperienza.

Ho usato il termine “epistemologiche” con assoluta intenzionalità: se il sapere scientifico si accumula e quindi aumenta con lo studio e quindi forse con l’età, l’epistemologia (come conosco ciò che conosco) è un’esperienza che tutti vivono (non possono fare a meno di vivere) dalla nascita; e il conoscere dei bambini è un’attività sicuramente più a largo spettro di quella degli adulti che si specializzano solo in alcune modalità.

Ma torniamo alla questione dell’apprendimento dalla parte del pubblico. Forse è una deformazione professionale degli insegnanti, che peraltro si trasferisce al mondo della comunicazione, pensare che il pubblico debba imparare qualcosa di scienze. Sarebbe più facile rinunciare a questo obiettivo se si fosse convinti che rinunciandovi non si tradisce la scienza, anzi... 

Nello suo spettacolo una 5a liceo ha messo in scena il dramma umano di Saccheri, precursore delle geometrie non euclidee, dilaniato da conflitti esistenziali. Quello che lo spettatore percepiva attraverso l’azione teatrale era che per il personaggio Saccheri il merito del conflitto scientifico era vitale, ovvero che su di esso il vissuto era carico di investimenti valoriali, di sentimenti. Dunque la matematica non era solo un pretesto per altre dinamiche psicologiche, ma materia drammatica.

Il problema era come far capire allo spettatore quale fosse la sostanza matematica del dramma matematico. Nello spettacolo le soluzioni adottate sembravano due: nella cornice alla vicenda di Saccheri, in cui una classe si occupava di Saccheri, c’era ancora una volta una professoressa che spiegava ed era una soluzione un po’ scontata, ma soprattutto estrinseca; la seconda, che si collocava invece dentro la vicenda messa in scena, soprattutto in alcuni dialoghi, era più convincente. Non veniva tradito il contenuto matematico con semplificazioni e banalizzazioni, piuttosto si sceglievano alcune idee significative anche per i non esperti, ad esempio il fatto che la retta sulle superfici curve non è diritta, idee che avevano un aggancio a delle immagini (il triangolo sulla superficie della collina o della valle) che potevano diventare immagini mentali per lo spettatore: non erano metafore svianti ma rappresentazioni intrinseche. Lo spettatore inesperto, che non era in grado di comprendere il linguaggio matematico, coglieva delle immagini che sconcertavano e incuriosivano: erano oggetti matematici che avevano un impatto emotivo. Lo spettatore non imparava certo in quella sede le geometrie non euclidee, ma poteva uscire intuendo di che oggetto si trattasse avendone intravisti alcuni pezzi e soprattutto convinto che valesse la pena occuparsene.

Di passaggio ho citato la metafora, che è una delle strade più utilizzate nella comunicazione di contenuti scientifici sulla via della semplicazione: l’idea è che si utilizza l’analogia per far comprendere qualcosa di non noto e più astratto attraverso l’analogia con qualcosa di noto e di più concreto. Boyd e Kuhn hanno messo in luce il ruolo generativo che ha la metafora nella comunità scientifica, mentre Bachelard ne ha mostrato la pericolosità nella comunicazione della scienza ai non esperti per l’illusione di familiarità che crea e che impedisce lo sviluppo del pensiero scientifico.

In uno spettacolo di ragazzi di 2a e 3a media il tema messo in scena era proprio quello della metafora usata per descrivere fenomeni chimici (le “affinità elettive”), ma oggetto dell’azione scenica e dei dialoghi era un giocare con quella metafora, soprattutto in chiave comica; il suo significato intrinseco al linguaggio chimico o era dato per scontato o veniva “spiegato”. Dunque, al di là dello specifico teatrale, sul versante della scienza non si sviluppava un discorso sulla metafora in generale e sul contenuto di quella metafora. Più interessante il tentativo fatto in un istituto superiore di esprimere concetti scientifici relativi al II principio della termodinamica e all’entropia attraverso la metafora, ma non affidandola ai dialoghi bensì alle azioni dei corpi, al movimento collettivo, alla danza.

La scelta di non insegnare scienze, con tutto l’impegno per apprendere che non si può richiedere a un pubblico teatrale, era anche quella di uno spettacolo del Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano dove la cornice fornita da due “illusionisti” permetteva di presentare agli spettatori fenomeni ottici e visivi che di per sé fanno spettacolo, ovvero che suscitano stupore e meraviglia. Ma lo spettatore si domandava come c’entrasse la scienza e soprattutto che differenza ci fosse tra scienza e magia.

LA SCOPERTA

Ma, al di là della legittima non disponibilità di un pubblico teatrale a seguire una lezione di scienze, è proprio la lezione che non è una modalità adeguata per costruire conoscenza scientifica, perché fa venire meno il suo dispositivo basilare. Prendiamo lo scienziato, che ovviamente è il paradigma di chi costruisce conoscenza scientifica: lo scienziato è, per “essenza”, uno che non sa; il suo mestiere infatti è la scoperta, l’invenzione di qualcosa che prima non era noto.

Dalla osservazione del comportamento dei bambini mi arriva la convinzione che il modo migliore di costruire conoscenza scientifica è mettersi nei panni degli scienziati, che poi non sono epistemologicamente diversi da quelli dei bambini. Come si può pensare che si costruisca conoscenza scientifica eliminando proprio ciò che la qualifica, la scoperta, il processo che parte dalle domande di chi non sa?

In questo senso la scienza non si “comunica”: l’idea di comunicazione è quella di un trasferimento di idee e la scienza, o l’arte, della comunicazione si occupa delle modalità e delle condizioni di questo trasferimento a partire dall’esistenza di idee già formate. È chiaro che quest’ultima premessa è in contraddizione con la costruzione di conoscenza scientifica; e anche con l’idea che nella scienza non è pertinente la modalità di comunicazione, ma la costruzione di linguaggio, che è un processo strutturalmente connesso a quello della costruzione di rappresentazioni. Nella scienza non si possono comunicare le stesse cose con parole (o immagini) diverse: cambiando le parole, cambiano le idee.

La scienza non si comunica: si fa e si rifà. Come il teatro. Dalla consapevolezza di questa analogia profonda forse potrebbe venire qualche indicazione per la ricerca chi fa teatro scientifico a scuola.

Questo ci aiuta a capire perché tentare di far imparare la scienza a teatro non funziona: il pubblico, inteso anche nella sua dimensione di soggetto collettivo, non è nelle condizioni di fare scienza, perché gli sono impedite le azioni che sostanzierebbero il percorso della scoperta, che sono anche quelle di una interazione sociale.

Un processo di scoperta esclude la lezione, ma non un ruolo di “animazione” che si faccia carico di organizzare spiazzamenti cognitivi, di far sorgere e raccogliere domande, di organizzare le condizioni per sviluppare un processo di scoperta. E di nuovo possiamo domandarci se chi sta sul palco può svolgere questa funzione. La risposta è no, perché non ha la possibilità, che è fondamentale, di lavorare sulle risposte del pubblico per far sviluppare la co-costruzione di conoscenza.

Però, se accetta consapevolmente questo limite, può lavorare sulla prima parte del processo di scoperta, mettendo il pubblico nei panni dello scienziato nel momento in cui viene spiazzato da osservazioni o da idee, in cui comincia a porsi domande e si appassiona della ricerca delle risposte.