Marcello
Sala Frankestein E
LE CATTIVE METAFORE
Il confine tra metafora e mito diventa
labile quando la metafora si riferisce a qualcosa di diffuso e di profondo
nella cultura e nell’antropologia. Quelli di Prometeo, dell’apprendista
stregone, del Golem, di Frankestein sono
metafore-miti legati alla scienza e alla tecnologia, al timore delle conseguenze
di violazioni dell’ordine della natura e della perdita di controllo dell’uomo
sulle proprie creazioni tecnologiche[1]. Ma se Frankestein
rappresenta ciò che è prodotto dalla mente umana, dalla scienza in particolare,
come strumento della conoscenza, e che poi sfugge al controllo e fa danni
fino a ritorcersi contro il proprio creatore, potremmo fare di Frankestein la metafora-mito della... metafora
scientifica: una specie di auto-metafora o di metafora ricorsiva, di
meta-metafora. Nel contesto della scienza le metafore sono necessarie e generative: “L’uso della metafora è uno dei molti mezzi
disponibili alla comunità scientifica per assolvere il compito dell’accomodamento
del linguaggio alla struttura causale del mondo. [...] In parole povere,
questo compito consiste nell’accomodare il nostro linguaggio in modo che le
nostre categorie linguistiche ‘taglino il mondo in corrispondenza delle sue
articolazioni’ ” (Richard Boyd (1979), Metafora
e mutamento delle teorie: la ‘metafora’ di che cosa è metafora?, in R. Boyd e T. Kuhn, La metafora
nella scienza, Feltrinelli 1983) “Le metafore costitutive di teorie rappresentano
una strategia per l’accomodamento del linguaggio a caratteri causali del
mondo non ancora scoperti.” [corsivo mio] (ibidem) Per la comunità scientifica le metafore sono dunque ipotesi che
saranno verificate o falsificate, saranno abbandonate o diventeranno teorie.
Una volta trasferite nel contesto della cultura di massa viene meno la
consapevolezza che si tratta di metafore e tanto più dunque che si tratti di
ipotesi falsificabili. Questo le sottrae alla verifica e alla falsificazione
mentre nello stesso tempo sono avvalorate dalla loro paternità scientifica in
un contesto socioculturale cui alla scienza è riconosciuta autorità. Così
diventano verità universali, a volte addirittura premesse culturali
paradigmatiche. Hanno comunque un grande potere: “Parte della potenza delle dichiarazioni
descrittive deriva quindi dal ruolo della metafora nel costruire similarità e
differenza, nel definire ‘l’aria di famiglia’ sulla base della quale
categorizziamo i fenomeni naturali e nel motivare lo svolgimento di
determinati esperimenti o la costruzione di determinati meccanismi tecnici.”
(Evelyn Fox Keller (1995), Vita, scienza & cyberscienza, Garzanti 1996). Dire che una metafora-Frankestein “sfugge al
controllo” significa che esce dal contesto in cui è nata e in relazione al
quale si è costruito il suo significato. Liberata nello spazio comunicazione
di massa, l’immaginario collettivo se ne impadronisce ricontestualizzandola.
Si costruiscono nuovi significati, ma soprattutto nuovi valori affettivi
vengono connessi ai significati; la specie umana ha sviluppato la capacità
simbolica, ovvero la facoltà di reagire ai significati; per questo l’uso
sociale di una metafora può “fare danni”. Ma perché le metafore fanno tanta strada nella cultura di massa? Dalla mia pratica con i bambini mi viene l’idea che ci sia una ragione
“genetica” (nel senso di Piaget e non di Mendel). Per i bambini il percorso che porta alla costruzione
di modelli, ovvero di uno dei nuclei del pensiero scientifico, passa dall'immaginazione,
intesa come capacità di evocare immagini, spesso tratte dalla realtà o dai
media. All’origine di un modello c’è l’analogia::
i bambini possono ricorrere a similitudini che permettono di individuare relazioni
fondamentali. L’analogia può passare attraverso un'immagine
o una metafora e a fare da confine tra le due è forse una diversa consapevolezza
(meta-cognizione). Ma anche agli adulti le metafore piacciono, per le ragioni per cui
sono generative: perché sono “suggestive”, suggeriscono cioè immagini e
contesti; e se questi appartengono ad un universo noto e quotidiano, ancora
di più la metafora si afferma perché dà la sicurezza di ciò che è familiare.
Una spiegazione semplice e familiare satura un bisogno affettivo più che un
bisogno di conoscenza; per questo si afferma anche se è “cattiva”. La responsabilità della “divulgazione” scientifica è quella di mettere
in circolo le metafore come semplificazioni e non come ipotesi di ricerca.
Una ragione è che le spiegazioni semplici si prestano meglio alla
“divulgazione”. Nella nostra società quando le esigenze della comunicazione
di massa entrano in conflitto con quelle della correttezza scientifica, sempre
più accade che siano le prime a prevalere. La politica ovviamente non è
estranea a questo tipo di sviluppo. Se la scienza, per elaborare spiegazioni
più adeguate alla complessità che si va scoprendo (e la complessità è la
caratteristica strutturale del vivente), rende più complesso il suo
linguaggio, fino a dover rinunciare alle metafore, il risultato è che le
nuove ipotesi non sostituiscono le vecchie metafore. La “semplificazione” implica che vi sia una conoscenza consolidata di
cui sarebbe possibile facilitare la comprensione semplificando il linguaggio
in cui viene comunicata; e la premessa di questo è che una stessa
idea si può esprimere in modi diversi. Io sono invece convinto, soprattutto
dall’osservazione di contesti in cui i bambini co-costruiscono
conoscenza scientifica, che dire con altre parole è dire altre cose. E ne
traggo, come formatore, l’indicazione che, quando l’educatore non è in grado
di garantire le condizioni per quei contesti, è meglio tacere che
semplificare. Mi chiedo se questo debba valere anche per il “comunicatore
scientifico”. LA
METAFORA DEL DNA
Facciamo un giro in Internet, usandolo come
“finestra antropologica” sul mondo in cui viviamo: “Il napoletano è mariuolo, la mariuolità ce l’ha nel sangue, nel DNA e chi non è mariuolo
è perché non ha ancora avuto l’occasione per diventarlo o perché ha troppa
paura” “Secondo i risultati di un recente studio
scientifico, si potrebbe quasi dire che la voglia di harem
l'uomo ce l'abbia scritta nel DNA” “Non a caso, siamo nati come cantiere per
la costruzione di navi commerciali. Tali requisiti di robustezza, ormai
acquisiti nel nostro DNA, li trasferiamo anche nella produzione di navi da
diporto” “Sembra irriverente in queste circostanze,
citare il Grande Torino, o meglio ancora, come dice il patron
Cimminelli, rimpiangere qualcosa che ormai è
passato, ma noi che il Toro ce l'abbiamo nel DNA...” Ma non si tratta soltanto di interventi
anonimi: “Intanto siamo in Emilia Romagna e la cultura
del lavorare insieme noi ce l'abbiamo nel DNA. Le cooperative sono nate qui,
non dimentichiamolo” Rossella Bonora, responsabile
Settore Informativo Provincia di Bologna. I caratteri genetici di cui si parla sono a
volte misteriosi: “L'institution
building è nel DNA di noi europei e di noi italiani in particolare” intervento
del Ministro degli Affari Esteri Franco Frattini presso il Centro Italiano di
Studi per la Conciliazione Internazionale sul Semestre di Presidenza italiana
del Consiglio dell’UE, Roma, 10 febbraio 2004 “...
siamo primi nella ladder in TKOTH.
il TKOTH ce l'abbiamo nel DNA, li abbiamo
stracciati nella mappa scelta da loro.” Ma anche il soggetto portatore di caratteri
genetici riserva sorprese: “Nel DNA delle Brigate rosse ci sono dunque
anche dei geni di una certa cultura cattolica?” “In
primo luogo la filosofia che ruota sulla scelta politica per l’autonomia e
per la competitività universitaria. Una scelta ormai decennale, che è entrata
anche nel DNA dell’università” Giuseppe De Rita ad un convegno del MIUR (dopo la scoperta del DNA negli organismi procarioti
e in quelli eucarioti ecco la scoperta del DNA
negli organismi... universitari) L’idea dominante che si ricava da queste espressioni (e sono sicuro
che ciascuno di noi ha l’occasione di ascoltarne di simili ogni giorno) è che
qualunque aspetto caratterizzi non solo le forme e le funzioni, ma anche i
comportamenti, e non solo di organismi individuali, è determinato in
quanto esprime ciò che è “scritto” nel genotipo ereditato. Ma come c’è arrivato il “DNA” nel linguaggio del tifo calcistico? Con
“DNA” intendo la parola, ovvero l’acronimo di “DeossiriboNucleic
Acid”, ma soprattutto il suo significato come “programma determinante”, che è
un significato evidentemente metaforico. La fonte non può essere che il mondo
della scienza. La storia della genetica è fortemente segnata dall’uso di metafore. Il
fisico Erwing Schrödinger
nel 1944, quando conosceva i cromosomi ma non ancora la dimostrazione di Avery che il DNA è portatore dei caratteri ereditari,
scriveva: “Paragonando la struttura delle fibre cromosomiche
al testo di un codice si vuol significare che la mente universale di cui
parla Laplace, alla quale ogni connessione causale si manifesta
immediatamente, potrebbe dire dalla loro struttura se l’uovo si svilupperà,
in opportune condizioni, in un gallo nero o in una gallina maculata, in una
mosca o in una pianta di granoturco, un rododendro, uno scarafaggio, un topo,
una donna...” (Erwing Schrödinger
(1944), Cos’è la vita, Sansoni 1947) Nel 1953 Watson e Crick pubblicavano la scoperta
della “doppia elica”. Nel 1958 Francis Crick enunciava il “dogma centrale” della biologia
molecolare: il codice genetico passa in modo unidirezionale dal DNA al RNA
(trascrizione) e dal RNA alle proteine (traduzione). Se alla genetica
mendeliana (ogni carattere si trasmette indipendentemente dall’altro e il fenotipo
è la somma dei caratteri ereditati) si aggiungeva il principio “un gene un
enzima“, scoperto da Tatum e Beadle
negli anni ‘40 lavorando su microorganismi, si
arrivava all’idea che esiste un gene per ogni caratteristica, fisica ma anche
mentale e sociale. Il razzismo è nato ben prima della genetica molecolare, ma
a questo punto poteva trovare sponde autorevoli nel campo delle scienze
“dure” [2]. Era ben consolidata a questo punto la metafora
dominante tratta dalla scienza dell’informazione[3]:
il genotipo è un software (“codice”, “programma”) e la sua implementazione
è il fenotipo; le unità di informazione ereditaria sono i geni e ad ogni informazione
corrisponde un carattere fenotipico. In realtà molto poco si sapeva di che cosa
erano metafore quelle metafore, ovvero di come si organizza un organismo a
partire da cellule con identico patrimonio genetico, o di come si costruisce
a partire da un’unica cellula. Nel campo della biologia l’affermarsi della
metafora informazionale fu comunque decisivo e
significò il prevalere di certi programmi di ricerca (genetica molecolare) su
altri, fino al Progetto Genoma Umano: “se l’intero sviluppo non è che il dispiegamento
di istruzioni preesistenti codificate nelle sequenze nucleotidiche del DNA,
se i geni fanno di noi ciò che siamo, ha senso infatti decretare che l’identificazione
di dette sequenze è il fine primo e anche ultimo della biologia.” (Evelyn Fox
Keller (1995), Vita, scienza & cyberscienza, Garzanti 1996). Tuttavia negli ultimi 40 anni (cioè da subito), a partire dalla
scoperta di Jacob e Monod del primo esempio di
regolazione di geni in batteri (1961), le ipotesi contenute in metafore quali
il “dogma centrale” o “un gene un enzima” sono cadute ad una ad una o sono
state ridimensionate. Oggi sappiamo che solo una piccola parte del DNA degli eucarioti codifica per enzimi, che ciò che distingue il
genoma umano da quello di altri primati o di altri mammiferi non è tanto
questa parte ma l’altra che è impegnata in complicate reti di regolazione e modulazione,
che le sequenze di DNA non codificanti sono soggette a ripetizioni,
trasposizioni, elisioni, inversioni, che i geni possono essere “spenti” e che
quelli inattivati mutano con più frequenza rendendosi disponibili a nuove
funzioni, una volta riattivati, che quindi alcuni tratti di DNA sono dei
“generatori di variabilità” fissati dall’evoluzione, che i geni possono ricombinare
e mutare durante la vita dell’organismo in linee somatiche come quelle del sistema
immunitario, e che specifiche sequenze di DNA sono indotte a replicare
amplificando la produzione proteica, che un gene può esprimere più proteine,
che i tratti di DNA codificanti per una proteina non sono in continuità ma
alternati a tratti non codificanti, che le unità polipeptidiche
così prodotte possono venire assemblate in proteine diverse, ecc.[4]. Man mano l’accumulo di dati empirici,
l’analisi critica e la discussione hanno portato a superare le idee troppo
semplici e riduzioniste espresse in quelle metafore. Per la comunità scientifica
niente di strano in questo: una volta che hanno svolto la loro funzione
generatrice indicata da Boyd, esse possono essere
sostituite, confinate o anche solo affiancate da altre con cui confliggere, e sono pronte a passare nei libri di storia
della scienza. Ma c’è evidentemente un filtro sociale che
agisce sulla comunicazione al pubblico dei discorsi scientifici. Il brano di Schrödinger che introduceva la metafora del “codice”, che
tanto avrebbe condizionato la genetica molecolare, proseguiva con un’altra
metafora: “L’espressione ‘testo di un codice’ ha però ovviamente
un significato troppo ristretto. Le strutture cromosomiche sono contemporaneamente
degli strumenti per portare avanti lo sviluppo che esse simboleggiano. Esse
sono codici di leggi e potere esecutivo o, per usare un’altra metafora, sono
il progetto dell’architetto e insieme abili costruttori” (Erwing
Schrödinger (1944), Cos’è la vita, Sansoni
1947). Questa seconda parte metteva a fuoco la distinzione fondamentale tra
essere vivente e non: la nostra familiarità con la tecnologia ci fornisce
moltissimi esempi di macchine che, rifornite di energia, sono in grado di
realizzare autonomamente un prodotto; molte sono anche macchine
“cibernetiche” cioè in grado di controllare autonomamente il processo di produzione;
ma nessuna macchina tecnologica produce se stessa come invece fanno
gli esseri viventi; in essi non c’è separazione tra produttore e prodotto[5].
Probabilmente quella di Schrödinger era una
risposta alle obiezioni che si potevano facilmente prevedere alla metafora
informatica, prima fra tutte l’implicazione di una intelligenza “esterna” (il
solito “orologiaio” di Newton). Ma la seconda parte del brano di Schrödinger non viene citata come la prima, e abbiamo
visto quanta strada ha fatto quell’idea nello spazio della comunicazione di
massa. Le obiezioni non furono fatte o trovarono ben poco spazio; vennero
accantonate per almeno 30 anni. Solo negli anni Novanta del Novecento la
metafora del DNA come programma è stata sottoposta ad una ampia e profonda
critica che ne ha rivelato i limiti[6].
Nonostante questo, continua ad avere enorme successo nella cultura di
massa. E allora vale la pena chiedersi perché questa metafora piace
tanto. Ma questa domanda non riguarda
soltanto la cultura di massa: se è vero che una metafora viene ricontestualizzata e entra nel gioco sociale del
simbolico, lo fa a partire da ciò che è: che cosa si porta dietro la metafora
informatica quando esce dalla casa della scienza, come è vestita quando si presenta
al suo ingresso in società? In questo senso è interessante notare che all’interno della metafora
della “macchina” applicata all’organismo, che risale almeno a Cartesio, la
macchina informatica ha prevalso sulla macchina cibernetica. Il conflitto si
è manifestato nell’ambito della discussione sui meccanismi della cognizione,
ricerca che costituisce una dimensione fondamentale per la comprensione dei
sistemi complessi, e per di più è avvenuto in un momento cruciale in cui
percorsi diversi si sono intrecciati
influenzandosi profondamente: da quel crogiolo sono passate computer-science,
cibernetica, intelligenza artificiale, neuroscienze, scienze cognitive,
genetica, biologia dello sviluppo e altro ancora: “Il primo orientamento
(quello di von Neumann) è la concezione secondo cui
la cognizione è fondamentalmente un'attività di problem
solving, e quest'idea è ciò che guida sia la
costruzione delle macchine artificiali sia lo studio dei sistemi viventi. Il
secondo orientamento (quello di Wiener) sottolinea
come la cognizione sia un'azione autonoma, autocreatrice,
e come questo aspetto della vita sia essenziale per comprendere i processi
cognitivi. [...] le cose sono andate in maniera tale per cui è stato
l'orientamento di von Neumann a diventare
predominante. Esso ha costituito ciò che oggi è la scienza dei computer,
nonché quell'insieme di discipline di tipo ingegneristico ad essa connesse;
ha fornito anche al cervello la sua metafora esplicativa più diffusa: il
computer appunto. Ha fatto nascere l'idea del trattamento di informazione quale
nozione centrale della scienza cognitiva, in quanto compito (o problema) che
i sistemi viventi e le macchine devono risolvere in un modo o nell'altro.”
(Francisco Varela, Complessità del cervello e autonomia
del vivente, in Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti (a cura di, 1985), La sfida della complessità,
Feltrinelli.) Questo discorso ci fornisce forse anche una delle chiavi per
comprendere il radicamento della metafora nella cultura di massa, ossia la
fiducia nella (o la dipendenza dalla) tecnologia, questo dentro un paradigma
che vede la tecnologia strumento a disposizione dell’uomo [7].
Se il DNA è qualcosa di assimilabile alla tecnologia allora è possibile far
rientrare anche le questioni fondamentali della vita nell’ambito del controllo
tecnologico; non a caso oggi si parla di biotecnologie e di bioingegneria. Ma perché questo dovrebbe “far danni” tanto da evocare Frankestein? Innanzitutto sono danni etici: “Che cosa significa essere determinati alla
nascita in ogni nostro aspetto fisico e comportamentale dall’assortimento casuale
degli alleli dei nostri genitori? Intanto che siamo ‘come ci è capitato’,
buoni e cattivi, belli e brutti, intelligenti e stupidi, capaci e incapaci
ecc. Abbiamo quindi ben poca responsabilità delle nostre azioni perché queste
sono in qualche modo già scritte nel nostro DNA.” (Marcello Buiatti (2004), Il benevolo disordine della vita,
UTET) In questa deresponsabilizzazione la metafora informatica c’entra per
quanto nell’immaginario della cultura di massa evoca idee di prevalenza delle
“ragioni del sangue” e di determinazione, in una versione moderna
dell’innatismo, rivestita di tecnologia che sposa il sentire magico,
profondamente radicato nell’antropologia, alla consuetudine passiva con la
tecnologia; si sottovaluta il contesto e con esso ogni processo costruttivo
in interazione con l’ambiente, e quindi in definitiva l’apprendimento e
l’evoluzione. Il determinismo genetico elimina da una parte la complessità e
dall’altra l’alea. Il “dogma” accondiscende alla esigenza del controllo
lineare; forse della linearità più che del controllo: come nelle forme di
superstizione tutto è scritto e, anche se io non posso sapere, mi basta
potermi affidare a qualcuno che sa. E qui il discorso si ricollega
all’atteggiamento di delega nei confronti della scienza, cui si affida la
soluzione di tutti i problemi che affliggono l’umanità, rivendicando quasi
con orgoglio la propria ignoranza (“non ci ho mai capito nulla”) [8].
E la rinuncia a partecipare ad una faticosa conoscenza è ricompensata da
evidenze condivise, anche se false. Ma, come si è visto recentemente in occasione del referendum sulla
procreazione assistita, la fiducia nella scienza viene revocata di fronte a
questioni che toccano profondamente la rappresentazione di ciò che significa
essere viventi ed essere umani, soprattutto se qualcuno è abile nel manipolare
l’emotività legata a questi temi, compito facile là dove scarseggia la conoscenza
scientifica e dalla tecnnologia si è più che altro
dipendenti. I due cervelli
Torniamo alla “finestra antropologica” di
Internet: “N.E.I.
(Integrazione Neuro Emozionale) significa far rivivere all'emisfero destro
del nostro cervello, sede delle emozioni, un'emozione vissuta e registrata
nel cervello limbico (il cervello animale, l'inconscio)
e rendere partecipe di questa emozione l'emisfero sinistro, sede della razionalità.
Spiegazione. Il nostro cervello è formato
da varie parti. Schematicamente possiamo individuare: -
L'emisfero
sinistro (cervello sinistro), sede della razionalità -
L'emisfero
destro (cervello destro), sede delle emozioni, sentimenti -
La
porzione limbica (cervello limbico),
cervello primitivo, animale, che registra come su un disco tutto ciò che ci
succede nella vita. [...] Questa tecnica (N.E.I.)
viene inoltre ampliata dall'E.E. (Equilibrio
Emozionale) e dalle nuove tecniche di integrazione, che permettono non solo
di integrare le emozioni irrisolte, ma, poiché il nostro cervello funziona
come un computer, di riprogrammare l'inconscio a nostro favore. Provare per
credere.” dal sito dell’Istituto Italiano N.E.I. (“Tutti i Soci Fondatori hanno un’esperienza ventennale
di Medicina Naturale, Elettroagopuntura, Omeopatia,
Fito-gemmo-terapia, Chinesiologia
Integrata, Integrazione Neuro-emozionale,
Equilibrio Emozionale, tecniche di comunicazione quali PNL, ecc.”). “il Transito di
Venere dell’8 giugno 2004 sarà seguito da un altro Transito il 6 giugno 2012. Questo è - grosso
modo - l’arco di tempo in cui si è inteso che avvenga l’Illuminazione
dell’umanità. [...] Questo è il momento di fare l’esperienza che Tutti Siamo
Uno ed Uno con il Divino. È tempo di recuperare, nella meditazione, le
energie del maschile e del femminile che si fondono, Oriente ed Occidente,
che stanno ora avvenendo su scala cosmica. [...] La ragione finale è che il
Sottomondo Galattico favorisce realmente la concezione dell’emisfero
orientale e del cervello destro. Una maggiore intuitività, nell’attuale
approccio alla vita mediata dal cervello destro, sta dunque portando ora una
nuova coscienza al mondo e circa 400 tun
(un baktun
nella terminologia Maya) di pensiero logico e lineare occidentale, come
cervello sinistro, secondo il Piano Cosmico, stanno ora per giungere a
termine.” dal sito www.stazioneceleste.it. Queste citazioni mi paiono largamente rappresentative di una cultura
ben presente nella nostra società [9],
dove mi pare manchi la consapevolezza delle implicazioni della metafora cervello
destro / cervello sinistro. Non serve identificare nella separazione tra res extensa e res cogitans,
tra corpo e mente, tra emozioni e intelletto, l’origine di una deriva
culturale che ha condizionato negativamente la cultura moderna, se poi si
ripropone la stessa separazione a livello del cervello: si riproduce così l’
”errore di Cartesio” [10].
Non ci si rende conto che l’apparente riequilibrio tra razionalità e affettività,
cui si tiene molto, non intacca, anzi rafforza la separazione perché la
assume come premessa. Il modello cervello destro / cervello sinistro è una rappresentazione,
una “mappa” inadeguata al “territorio”, che in questo caso è un territorio
biologico: “I dati dello scienziato che studia i fenomeni
biologici sono sue creazioni. Sono descrizioni di descrizioni, forma di
forme. Allo stesso tempo, il materiale dei messaggi, le descrizioni, le
ingiunzioni, le forme (chiamiamole come vogliamo) sono già immanenti nei
fenomeni biologici. Essere organizzati internamente, essere vivi, è proprio
questo” (Gregory Bateson e Mary Catherine Bateson (1987), La struttura del tessuto, in Dove gli angeli esitano, Adelphi
1989.) Gregory Bateson
nei suoi scritti argomenta a lungo attorno al fatto che il linguaggio con cui
l’uomo traccia una mappa della realtà fisica (dove sono importanti soltanto
urti e forze) deve solo rispondere ad una coerenza interna e sostenere una
capacità di prevedere, mentre il mondo dei viventi, dove diventano pertinenti
e vitali l’informazione e la comunicazione (si pensi ai circuiti di
regolazione ormonale, al sistema immunitario, all’ontogenesi, oltre che alla
ereditarietà), contiene mappe. Dunque l’adeguatezza
delle mappe del biologo si colloca ad un diverso livello logico e da essa
dipende la qualità della relazione tra l’uomo e il mondo in cui vive, se sarà
più o meno distruttiva o armonica. Può darsi che, quando è stata proposta, la metafora semplificante dei
due cervelli avesse una funzione generativa di ipotesi di ricerca; sta di
fatto che oggi i risultati della neurobiologia propongono un quadro in cui la
complessità è fattore decisivo: “[durante il sonno] Questo EEG ipersincrono, corrispondente alla scarica all’unisono di
un gran numero di cellule della corteccia, è associato a bassa complessità
[...] tale stato, mancando di complessità, non è compatibile con la consapevolezza
cosciente.” (Gerald Edelman e Giulio Tononi (2000), Un universo di coscienza, Einaudi) Oggi sappiamo che: “Ogni funzione mentale complessa deriva dai contributi
ben concertati di molte regioni cerebrali a livelli diversi del sistema
nervoso centrale, e non dalla funzione di una singola regione del cervello concepita
secondo i dettami della frenologia” (Antonio Damasio
(2003), Alla ricerca di Spinoza, Adelphi) “Le argomentazioni finora svolte indicano ampiamente
che, se integrazione e differenziazione sono realmente caratteri fondamentali
della coscienza, possono essere spiegate solo attraverso un processo neurale
distribuito e non ricorrendo a specifiche proprietà locali dei neuroni. [...]
Un nucleo dinamico è perciò un processo e non una cosa o un luogo, ed è
definito mediante interazioni neurali, piuttosto che attraverso la
localizzazione specifica, gli schemi di connessione o le attività neurali.”
(Gerald Edelman e Giulio Tononi
(2000), Un universo di coscienza, Einaudi) E quando la storia evolutiva della scienza non ha ancora selezionato
le teorie, quando si è ancora nell’incertezza della ricerca, con la sua quota
di conflitto e la sua possibilità di scegliere, è bene avere dei criteri di
scelta. Personalmente preferisco modelli e teorie che non abbiano come
premessa una sottrazione della specie umana alle dinamiche dell’evoluzione,
che facciano tesoro del pensiero di Kant e non
rimangano in balia della contrapposizione tra empirismo e razionalismo, che
si portino fuori dalla alternativa tra un meccanicismo che vuole ridurre
tutto alla chimica o addirittura alla meccanica quantistica e finisce per non
”spiegare” nulla di ciò che ci accade in quella dimensione che siamo soliti
definire “mentale” e uno “spiritualismo” che pretende di “spiegare” quegli
stessi fenomeni introducendo “principi dormitivi” [11].
Se “spiegare” significa rispondere alla domanda “perché accade ciò che
accade?” facendo ricorso a conoscenze note, a “mappe” adeguate, preferisco
alcune ipotesi di spiegazione che oggi sono disponibili: “Noi siamo in grado di descrivere sia le
configurazioni neurali – avvalendoci degli strumenti della neuroanatomia,
della neurofisiologia e della neurochimica – sia le immagini mentali,
servendoci degli strumenti dell’introspezione. Le modalità con cui avviene il
passaggio dalle prime alle seconde sono note solo in parte; ciò nondimeno, la
nostra attuale ignoranza non contraddice l’assunto che le immagini siano
processi biologici, né nega la loro fisicità” (Antonio Damasio
(2003), Alla ricerca di Spinoza, Adelphi). “Per esempio il sogno e l’immaginazione mentale sono straordinarie
dimostrazioni fenomenologiche del fatto che il cervello adulto può,
spontaneamente e intrinsecamente, produrre coscienza e significati senza
segnali che provengano direttamente dalla periferia, almeno nel breve lasso
di tempo.” (Gerald Edelman e Giulio Tononi (2000), Un universo di coscienza, Einaudi). “Noi abbiamo adottato le seguente impostazione:
focalizzarci sulle proprietà dell’esperienza cosciente – le proprietà
dell’integrazione e della differenziazione – e spiegarle riferendoci ai processi
neurali.” (ibidem). Di fronte ai risultati e alle nuove ipotesi della ricerca la metafora
dei due cervelli non è più dominante, è comunque solo una delle ipotesi in
gioco, in conflitto con altre, significativamente falsificata. E allora di
nuovo vorrei pormi la domanda: perché piace tanto da sopravvivere e avere
successo indipendentemente dalla sua evoluzione nel contesto scientifico? Da Platone in poi nella nostra cultura la razionalità (e da qualche
secolo anche il pensiero scientifico) viene considerata la facoltà mentale
“superiore”. Di conseguenza non mi sorprende che chi è ritenuto (o si
ritiene) non eccellere nella razionalità o non possedere il sapere
scientifico trovi un riscatto dalla sua presunta inferiorità nell’idea (che
gli si presenta come assolutamente razionale e di fonte scientifica) che le
facoltà non razionali, ovvero diverse dalla razionalità, sono riclassificate
allo stesso livello di quelle razionali in una partizione, e che abbiano sede
in quello stesso organo che fino a quel momento era occupato solo dalle
facoltà razionali. Dal momento che una cultura tradizionalmente dominata dai maschi
attribuiva la razionalità al genere maschile e la non razionalità, nel caso
migliore altre facoltà “inferiori”, a quello femminile, non mi pare un caso
che questa idea dei due cervelli abbia trovato casa anche nella cultura della
differenza di genere, come riequilibrio tra soggetti naturalmente e culturalmente
differenti ma non paritetici sul piano sociale e politico. E allora perché opporsi? Ma perché mi
appare come una semplificazione, una mappa non adeguata al territorio
biologico e questo per me si collega immediatamente alla coincidenza tra
conoscenza ed etica nel discorso di Bateson
riguardo all’esigenza di rispettare il linguaggio del vivente. In questo caso poi perché adottare una soluzione
piuttosto rozza che separa razionalità ed affetti, corpo e mente, rispetto ad
altre più elaborate che danno una mappa più integrata di un territorio
integrato? “Sentimenti alterati e una ragione imperfetta
si presentavano assieme come conseguenze di una specifica lesione cerebrale,
e questa correlazione mi suggeriva che il sentimento fosse una parte integrante
del modo di operare della ragione. [...] Io suggerisco soltanto che certi
aspetti del processo dell’emozione e del sentimento sono indispensabili per
la razionalità. Nei casi migliori i sentimenti ci volgono nella direzione
giusta, ci conducono al luogo appropriato dello spazio decisionale nel quale
possiamo fare bene operare gli strumenti della logica.” (Antonio Damasio (1994), L’errore di Cartesio, Adelphi
1995.) “[I sentimenti] sono altrettanto cognitivi
quanto gli altri percetti. Sono il risultato di una straordinaria
sistemazione fisiologica che ha fatto del cervello l’avvinto uditorio del
corpo”. (ibidem) “Proprio il nostro organismo, invece che
qualche realtà esterna assoluta, è usato come riferimento base per le
costruzioni che elaboriamo del mondo circostante e di quel senso di
soggettività, sempre presente, che è parte integrante delle nostre esperienze.
[...] la mente esiste dentro e per un organismo integrato [...] Sulla base
del riferimento che il corpo fornisce con continuità, la mente può allora avere
a che fare con molte altre cose, reali e immaginarie.” (ibidem) Al di là della riproduzione dell’ “errore
di Cartesio”, mi ha colpito trovare nel sito internet citato sopra la
riproposizione della metafora informatica in una espressione culturale
collocabile in quell’area che identifichiamo come “new
age”, con le sue suggestioni olistiche e i suoi
riferimenti a discipline e saperi della cultura orientale, una opzione culturale
che è nata anche in opposizione all’imporsi nella cultura di massa del
riduzionismo delle scienze dure. Ora, nell’ambito scientifico la grande
suggestione dell’intelligenza artificiale, basata sulla analogia
cervello-computer, dagli anni 70 del Novecento ad oggi ha perso il suo
carattere di mito fondante, di metafora paradigmatica per approdare ad una
considerazione più complessa articolata e critica all’interno delle “scienze
cognitive”. In ambienti che si collocano ai margini della comunità
scientifica istituzionale o che ne sono completamente esclusi il riferimento
all’informatica sembra invece ancora mantenere tutta la sua forza e il suo
potere di suggestione culturale. Più sopra, nella citazione di Varela,
abbiamo visto come la metafora del cervello come computer e quella del DNA
come programma abbiano una origine comune nell’ “idea del trattamento di
informazione quale [...] compito (o problema) che i sistemi viventi e le macchine
devono risolvere in un modo o nell'altro”. Ma l’esempio tratto da Internet ci
mostra la sua contestualizzazione in un ambito in cui il venir meno della
metodologia scientifica, con il suo spirito critico e il suo empirismo, fa
spazio a derive spiritualistiche e a suggestioni magiche: la metafora
informatica sembra essere la migliore candidata al ruolo di Frankestein nella nostra meta-metafora, un Frankestein che si ribella allo scienziato che l’ha creato
e lo uccide. |
[1] Umberto Galimberti
(1999), Psiche e techne, Feltrinelli; Yurij Castelfranchi (2004), Per una paleontologia
dell’immaginario scientifico, in La comunicazione della scienza, Zadigroma.
[2] Marcello Buiatti
(2004), Il benevolo disordine della vita, UTET.
[3] La definizione tecnica di informazione
proposta da Shannon non era applicabile al caso dei
geni, per cui si tratta propriamente di una metafora (Evelyn Fox Keller (1995), Vita, scienza & cyberscienza,
Garzanti 1996).
[4] Marcello Buiatti
(2004), Il benevolo disordine della vita, UTET.
[5] È la risposta di Maturana
e Varela alla domanda: “Che cosa è comune a tutti
i sistemi viventi, per cui noi li qualifichiamo come viventi?” H. Maturana – F. Varela (1980), Autopoiesi e cognizione, Marsilio 1985).
[6] Si veda: Richard Lewontin (1992), Polemiche sul Genoma Umano, in La
rivista dei libri ottobre 1992; Brian Goodwin, La traduzione della
complessità biologica in una sottile semplicità, in Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti (a cura di,
1985), La sfida della complessità, Feltrinelli.
[7]
Questo poteva essere vero fino a che la tecnica si esercitava dentro le mura
della città, enclave artificiale all’interno della natura. Ma poi l’uomo ha
continuato a trasformare la natura, adattandola a sé, fino a rovesciare il
rapporto. Oggi, che è la natura ad essere un enclave dentro le mura della città
umana, la tecnica è diventata l’ambiente dell’uomo (si veda: Umberto Galimberti (1999), Psiche e techne,
Feltrinelli).
[8] Marcello Sala (1997), I “super premi
Nobel”, in Cooperazione
Educativa n. 1/1997, La Nuova
Italia.
[9] Ho tratto le citazioni dai siti che compaiono
come primi risultati dell’applicazione di un “motore di ricerca” e cioè
quelli più frequentati.
[10] Antonio Damasio
(1994), L’errore di Cartesio, Adelphi 1995.
[11] Ne “Il malato immaginario“ di Molière un candidato dottore, alla
domanda d’esame perché l’oppio faccia dormire, risponde “perché contiene un
principio dormitivo”. Gregory Bateson
lo cita come un emblema di quell’errore epistemologico che consiste nel “trarre
dal mondo dell’osservazione una generalizzazione esterna, assegnandole un nome
grazioso, e di asserire poi che questa astrazione, con il suo bel nome, è un
principio esplicativo”, collocando come esistente all’interno
dell’organismo ciò che riguarda la relazione tra organismi. ( G.Bateson (1979), Mente e natura, Adelphi 1984 e
(1991), Mente/ambiente in Una sacra unità, Adelphi 1997.