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filosofia della biologia (18/9/2005)

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Marcello Sala

 

Frankestein E

LE CATTIVE METAFORE

 

 

Il confine tra metafora e mito diventa labile quando la metafora si riferisce a qualcosa di diffuso e di profondo nella cultura e nell’antropologia. Quelli di Prometeo, dell’apprendista stregone, del Golem, di Frankestein sono metafore-miti legati alla scienza e alla tecnologia, al timore delle conseguenze di violazioni dell’ordine della natura e della perdita di controllo dell’uomo sulle proprie creazioni tecnologiche[1].

Ma se Frankestein rappresenta ciò che è prodotto dalla mente umana, dalla scienza in particolare, come strumento della conoscenza, e che poi sfugge al controllo e fa danni fino a ritorcersi contro il proprio creatore, potremmo fare di Frankestein la metafora-mito della... metafora scientifica: una specie di auto-metafora o di metafora ricorsiva, di meta-metafora.

Nel contesto della scienza le metafore sono necessarie e generative:

“L’uso della metafora è uno dei molti mezzi disponibili alla comunità scientifica per assolvere il compito dell’accomodamento del linguaggio alla struttura causale del mondo. [...] In parole povere, questo compito consiste nell’accomodare il nostro linguaggio in modo che le nostre categorie linguistiche ‘taglino il mondo in corrispondenza delle sue articolazioni’ ” (Richard Boyd (1979), Metafora e mutamento delle teorie: la ‘metafora’ di che cosa è metafora?, in R. Boyd e T. Kuhn, La metafora nella scienza, Feltrinelli 1983)

“Le metafore costitutive di teorie rappresentano una strategia per l’accomodamento del linguaggio a caratteri causali del mondo non ancora scoperti.” [corsivo mio] (ibidem)

Per la comunità scientifica le metafore sono dunque ipotesi che saranno verificate o falsificate, saranno abbandonate o diventeranno teorie. Una volta trasferite nel contesto della cultura di massa viene meno la consapevolezza che si tratta di metafore e tanto più dunque che si tratti di ipotesi falsificabili. Questo le sottrae alla verifica e alla falsificazione mentre nello stesso tempo sono avvalorate dalla loro paternità scientifica in un contesto socioculturale cui alla scienza è riconosciuta autorità. Così diventano verità universali, a volte addirittura premesse culturali paradigmatiche. Hanno comunque un grande potere:

“Parte della potenza delle dichiarazioni descrittive deriva quindi dal ruolo della metafora nel costruire similarità e differenza, nel definire ‘l’aria di famiglia’ sulla base della quale categorizziamo i fenomeni naturali e nel motivare lo svolgimento di determinati esperimenti o la costruzione di determinati meccanismi tecnici.” (Evelyn Fox Keller (1995), Vita, scienza & cyberscienza, Garzanti 1996).

Dire che una metafora-Frankestein “sfugge al controllo” significa che esce dal contesto in cui è nata e in relazione al quale si è costruito il suo significato. Liberata nello spazio comunicazione di massa, l’immaginario collettivo se ne impadronisce ricontestualizzandola. Si costruiscono nuovi significati, ma soprattutto nuovi valori affettivi vengono connessi ai significati; la specie umana ha sviluppato la capacità simbolica, ovvero la facoltà di reagire ai significati; per questo l’uso sociale di una metafora può “fare danni”.

Ma perché le metafore fanno tanta strada nella cultura di massa?

Dalla mia pratica con i bambini mi viene l’idea che ci sia una ragione “genetica” (nel senso di Piaget e non di Mendel). Per i bambini il percorso che porta alla costruzione di modelli, ovvero di uno dei nuclei del pensiero scientifico, passa dall'immaginazione, intesa come capacità di evocare immagini, spesso tratte dalla realtà o dai media. All’origine di un modello c’è l’analogia:: i bambini possono ricorrere a similitudini che permettono di individuare relazioni fondamentali. L’analogia può passare attraverso un'immagine o una metafora e a fare da confine tra le due è forse una diversa consapevolezza (meta-cognizione).

Ma anche agli adulti le metafore piacciono, per le ragioni per cui sono generative: perché sono “suggestive”, suggeriscono cioè immagini e contesti; e se questi appartengono ad un universo noto e quotidiano, ancora di più la metafora si afferma perché dà la sicurezza di ciò che è familiare. Una spiegazione semplice e familiare satura un bisogno affettivo più che un bisogno di conoscenza; per questo si afferma anche se è “cattiva”.

La responsabilità della “divulgazione” scientifica è quella di mettere in circolo le metafore come semplificazioni e non come ipotesi di ricerca. Una ragione è che le spiegazioni semplici si prestano meglio alla “divulgazione”. Nella nostra società quando le esigenze della comunicazione di massa entrano in conflitto con quelle della correttezza scientifica, sempre più accade che siano le prime a prevalere. La politica ovviamente non è estranea a questo tipo di sviluppo. Se la scienza, per elaborare spiegazioni più adeguate alla complessità che si va scoprendo (e la complessità è la caratteristica strutturale del vivente), rende più complesso il suo linguaggio, fino a dover rinunciare alle metafore, il risultato è che le nuove ipotesi non sostituiscono le vecchie metafore.

La “semplificazione” implica che vi sia una conoscenza consolidata di cui sarebbe possibile facilitare la comprensione semplificando il linguaggio in cui viene comunicata; e la premessa di questo è che una stessa idea si può esprimere in modi diversi. Io sono invece convinto, soprattutto dall’osservazione di contesti in cui i bambini co-costruiscono conoscenza scientifica, che dire con altre parole è dire altre cose. E ne traggo, come formatore, l’indicazione che, quando l’educatore non è in grado di garantire le condizioni per quei contesti, è meglio tacere che semplificare. Mi chiedo se questo debba valere anche per il “comunicatore scientifico”.

LA METAFORA DEL DNA

Facciamo un giro in Internet, usandolo come “finestra antropologica” sul mondo in cui viviamo:

“Il napoletano è mariuolo, la mariuolità ce l’ha nel sangue, nel DNA e chi non è mariuolo è perché non ha ancora avuto l’occasione per diventarlo o perché ha troppa paura”

“Secondo i risultati di un recente studio scientifico, si potrebbe quasi dire che la voglia di harem l'uomo ce l'abbia scritta nel DNA

“Non a caso, siamo nati come cantiere per la costruzione di navi commerciali. Tali requisiti di robustezza, ormai acquisiti nel nostro DNA, li trasferiamo anche nella produzione di navi da diporto”

“Sembra irriverente in queste circostanze, citare il Grande Torino, o meglio ancora, come dice il patron Cimminelli, rimpiangere qualcosa che ormai è passato, ma noi che il Toro ce l'abbiamo nel DNA...”

Ma non si tratta soltanto di interventi anonimi:

“Intanto siamo in Emilia Romagna e la cultura del lavorare insieme noi ce l'abbiamo nel DNA. Le cooperative sono nate qui, non dimentichiamolo” Rossella Bonora, responsabile Settore Informativo Provincia di Bologna.

I caratteri genetici di cui si parla sono a volte misteriosi:

“L'institution building è nel DNA di noi europei e di noi italiani in particolare” intervento del Ministro degli Affari Esteri Franco Frattini presso il Centro Italiano di Studi per la Conciliazione Internazionale sul Semestre di Presidenza italiana del Consiglio dell’UE, Roma, 10 febbraio 2004

 “... siamo primi nella ladder in TKOTH. il TKOTH ce l'abbiamo nel DNA, li abbiamo stracciati nella mappa scelta da loro.”

Ma anche il soggetto portatore di caratteri genetici riserva sorprese:

“Nel DNA delle Brigate rosse ci sono dunque anche dei geni di una certa cultura cattolica?”

 “In primo luogo la filosofia che ruota sulla scelta politica per l’autonomia e per la competitività universitaria. Una scelta ormai decennale, che è entrata anche nel DNA dell’università” Giuseppe De Rita ad un convegno del MIUR (dopo la scoperta del DNA negli organismi procarioti e in quelli eucarioti ecco la scoperta del DNA negli organismi... universitari)

L’idea dominante che si ricava da queste espressioni (e sono sicuro che ciascuno di noi ha l’occasione di ascoltarne di simili ogni giorno) è che qualunque aspetto caratterizzi non solo le forme e le funzioni, ma anche i comportamenti, e non solo di organismi individuali, è determinato in quanto esprime ciò che è “scritto” nel genotipo ereditato.

Ma come c’è arrivato il “DNA” nel linguaggio del tifo calcistico? Con “DNA” intendo la parola, ovvero l’acronimo di “DeossiriboNucleic Acid”, ma soprattutto il suo significato come “programma determinante”, che è un significato evidentemente metaforico. La fonte non può essere che il mondo della scienza.

La storia della genetica è fortemente segnata dall’uso di metafore. Il fisico Erwing Schrödinger nel 1944, quando conosceva i cromosomi ma non ancora la dimostrazione di Avery che il DNA è portatore dei caratteri ereditari, scriveva:

“Paragonando la struttura delle fibre cromosomiche al testo di un codice si vuol significare che la mente universale di cui parla Laplace, alla quale ogni connessione causale si manifesta immediatamente, potrebbe dire dalla loro struttura se l’uovo si svilupperà, in opportune condizioni, in un gallo nero o in una gallina maculata, in una mosca o in una pianta di granoturco, un rododendro, uno scarafaggio, un topo, una donna...” (Erwing Schrödinger (1944), Cos’è la vita, Sansoni 1947)

Nel 1953 Watson e Crick pubblicavano la scoperta della “doppia elica”. Nel 1958 Francis Crick enunciava il “dogma centrale” della biologia molecolare: il codice genetico passa in modo unidirezionale dal DNA al RNA (trascrizione) e dal RNA alle proteine (traduzione). Se alla genetica mendeliana (ogni carattere si trasmette indipendentemente dall’altro e il fenotipo è la somma dei caratteri ereditati) si aggiungeva il principio “un gene un enzima“, scoperto da Tatum e Beadle negli anni ‘40 lavorando su microorganismi, si arrivava all’idea che esiste un gene per ogni caratteristica, fisica ma anche mentale e sociale. Il razzismo è nato ben prima della genetica molecolare, ma a questo punto poteva trovare sponde autorevoli nel campo delle scienze “dure” [2].

Era ben consolidata a questo punto la metafora dominante tratta dalla scienza dell’informazione[3]: il genotipo è un software (“codice”, “programma”) e la sua implementazione è il fenotipo; le unità di informazione ereditaria sono i geni e ad ogni informazione corrisponde un carattere fenotipico.

In realtà molto poco si sapeva di che cosa erano metafore quelle metafore, ovvero di come si organizza un organismo a partire da cellule con identico patrimonio genetico, o di come si costruisce a partire da un’unica cellula.

Nel campo della biologia l’affermarsi della metafora informazionale fu comunque decisivo e significò il prevalere di certi programmi di ricerca (genetica molecolare) su altri, fino al Progetto Genoma Umano:

“se l’intero sviluppo non è che il dispiegamento di istruzioni preesistenti codificate nelle sequenze nucleotidiche del DNA, se i geni fanno di noi ciò che siamo, ha senso infatti decretare che l’identificazione di dette sequenze è il fine primo e anche ultimo della biologia.” (Evelyn Fox Keller (1995), Vita, scienza & cyberscienza, Garzanti 1996).

Tuttavia negli ultimi 40 anni (cioè da subito), a partire dalla scoperta di Jacob e Monod del primo esempio di regolazione di geni in batteri (1961), le ipotesi contenute in metafore quali il “dogma centrale” o “un gene un enzima” sono cadute ad una ad una o sono state ridimensionate. Oggi sappiamo che solo una piccola parte del DNA degli eucarioti codifica per enzimi, che ciò che distingue il genoma umano da quello di altri primati o di altri mammiferi non è tanto questa parte ma l’altra che è impegnata in complicate reti di regolazione e modulazione, che le sequenze di DNA non codificanti sono soggette a ripetizioni, trasposizioni, elisioni, inversioni, che i geni possono essere “spenti” e che quelli inattivati mutano con più frequenza rendendosi disponibili a nuove funzioni, una volta riattivati, che quindi alcuni tratti di DNA sono dei “generatori di variabilità” fissati dall’evoluzione, che i geni possono ricombinare e mutare durante la vita dell’organismo in linee somatiche come quelle del sistema immunitario, e che specifiche sequenze di DNA sono indotte a replicare amplificando la produzione proteica, che un gene può esprimere più proteine, che i tratti di DNA codificanti per una proteina non sono in continuità ma alternati a tratti non codificanti, che le unità polipeptidiche così prodotte possono venire assemblate in proteine diverse, ecc.[4].

Man mano l’accumulo di dati empirici, l’analisi critica e la discussione hanno portato a superare le idee troppo semplici e riduzioniste espresse in quelle metafore. Per la comunità scientifica niente di strano in questo: una volta che hanno svolto la loro funzione generatrice indicata da Boyd, esse possono essere sostituite, confinate o anche solo affiancate da altre con cui confliggere, e sono pronte a passare nei libri di storia della scienza.

Ma c’è evidentemente un filtro sociale che agisce sulla comunicazione al pubblico dei discorsi scientifici. Il brano di Schrödinger che introduceva la metafora del “codice”, che tanto avrebbe condizionato la genetica molecolare, proseguiva con un’altra metafora:

“L’espressione ‘testo di un codice’ ha però ovviamente un significato troppo ristretto. Le strutture cromosomiche sono contemporaneamente degli strumenti per portare avanti lo sviluppo che esse simboleggiano. Esse sono codici di leggi e potere esecutivo o, per usare un’altra metafora, sono il progetto dell’architetto e insieme abili costruttori” (Erwing Schrödinger (1944), Cos’è la vita, Sansoni 1947).

Questa seconda parte metteva a fuoco la distinzione fondamentale tra essere vivente e non: la nostra familiarità con la tecnologia ci fornisce moltissimi esempi di macchine che, rifornite di energia, sono in grado di realizzare autonomamente un prodotto; molte sono anche macchine “cibernetiche” cioè in grado di controllare autonomamente il processo di produzione; ma nessuna macchina tecnologica produce se stessa come invece fanno gli esseri viventi; in essi non c’è separazione tra produttore e prodotto[5]. Probabilmente quella di Schrödinger era una risposta alle obiezioni che si potevano facilmente prevedere alla metafora informatica, prima fra tutte l’implicazione di una intelligenza “esterna” (il solito “orologiaio” di Newton). Ma la seconda parte del brano di Schrödinger non viene citata come la prima, e abbiamo visto quanta strada ha fatto quell’idea nello spazio della comunicazione di massa. Le obiezioni non furono fatte o trovarono ben poco spazio; vennero accantonate per almeno 30 anni. Solo negli anni Novanta del Novecento la metafora del DNA come programma è stata sottoposta ad una ampia e profonda critica che ne ha rivelato i limiti[6].

Nonostante questo, continua ad avere enorme successo nella cultura di massa. E allora vale la pena chiedersi perché questa metafora piace tanto.  Ma questa domanda non riguarda soltanto la cultura di massa: se è vero che una metafora viene ricontestualizzata e entra nel gioco sociale del simbolico, lo fa a partire da ciò che è: che cosa si porta dietro la metafora informatica quando esce dalla casa della scienza, come è vestita quando si presenta al suo ingresso in società?

In questo senso è interessante notare che all’interno della metafora della “macchina” applicata all’organismo, che risale almeno a Cartesio, la macchina informatica ha prevalso sulla macchina cibernetica. Il conflitto si è manifestato nell’ambito della discussione sui meccanismi della cognizione, ricerca che costituisce una dimensione fondamentale per la comprensione dei sistemi complessi, e per di più è avvenuto in un momento cruciale in cui percorsi diversi si sono intrecciati  influenzandosi profondamente: da quel crogiolo sono passate computer-science, cibernetica, intelligenza artificiale, neuroscienze, scienze cognitive, genetica, biologia dello sviluppo e altro ancora:

“Il primo orientamento (quello di von Neumann) è la concezione secondo cui la cognizione è fondamentalmente un'attività di problem solving, e quest'idea è ciò che guida sia la costruzione delle macchine artificiali sia lo studio dei sistemi viventi. Il secondo orientamento (quello di Wiener) sottolinea come la cognizione sia un'azione autonoma, autocreatrice, e come questo aspetto della vita sia essenziale per comprendere i processi cognitivi. [...] le cose sono andate in maniera tale per cui è stato l'orientamento di von Neumann a diventare predominante. Esso ha costituito ciò che oggi è la scienza dei computer, nonché quell'insieme di discipline di tipo ingegneristico ad essa connesse; ha fornito anche al cervello la sua metafora esplicativa più diffusa: il computer appunto. Ha fatto nascere l'idea del trattamento di informazione quale nozione centrale della scienza cognitiva, in quanto compito (o problema) che i sistemi viventi e le macchine devono risolvere in un modo o nell'altro.” (Francisco Varela, Complessità del cervello e autonomia del vivente, in Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti (a cura di, 1985), La sfida della complessità, Feltrinelli.)

Questo discorso ci fornisce forse anche una delle chiavi per comprendere il radicamento della metafora nella cultura di massa, ossia la fiducia nella (o la dipendenza dalla) tecnologia, questo dentro un paradigma che vede la tecnologia strumento a disposizione dell’uomo [7]. Se il DNA è qualcosa di assimilabile alla tecnologia allora è possibile far rientrare anche le questioni fondamentali della vita nell’ambito del controllo tecnologico; non a caso oggi si parla di biotecnologie e di bioingegneria.

Ma perché questo dovrebbe “far danni” tanto da evocare Frankestein? Innanzitutto sono danni etici:

“Che cosa significa essere determinati alla nascita in ogni nostro aspetto fisico e comportamentale dall’assortimento casuale degli alleli dei nostri genitori? Intanto che siamo ‘come ci è capitato’, buoni e cattivi, belli e brutti, intelligenti e stupidi, capaci e incapaci ecc. Abbiamo quindi ben poca responsabilità delle nostre azioni perché queste sono in qualche modo già scritte nel nostro DNA.” (Marcello Buiatti (2004), Il benevolo disordine della vita, UTET)

In questa deresponsabilizzazione la metafora informatica c’entra per quanto nell’immaginario della cultura di massa evoca idee di prevalenza delle “ragioni del sangue” e di determinazione, in una versione moderna dell’innatismo, rivestita di tecnologia che sposa il sentire magico, profondamente radicato nell’antropologia, alla consuetudine passiva con la tecnologia; si sottovaluta il contesto e con esso ogni processo costruttivo in interazione con l’ambiente, e quindi in definitiva l’apprendimento e l’evoluzione.

Il determinismo genetico elimina da una parte la complessità e dall’altra l’alea. Il “dogma” accondiscende alla esigenza del controllo lineare; forse della linearità più che del controllo: come nelle forme di superstizione tutto è scritto e, anche se io non posso sapere, mi basta potermi affidare a qualcuno che sa. E qui il discorso si ricollega all’atteggiamento di delega nei confronti della scienza, cui si affida la soluzione di tutti i problemi che affliggono l’umanità, rivendicando quasi con orgoglio la propria ignoranza (“non ci ho mai capito nulla”) [8]. E la rinuncia a partecipare ad una faticosa conoscenza è ricompensata da evidenze condivise, anche se false.

Ma, come si è visto recentemente in occasione del referendum sulla procreazione assistita, la fiducia nella scienza viene revocata di fronte a questioni che toccano profondamente la rappresentazione di ciò che significa essere viventi ed essere umani, soprattutto se qualcuno è abile nel manipolare l’emotività legata a questi temi, compito facile là dove scarseggia la conoscenza scientifica e dalla tecnnologia si è più che altro dipendenti.

I due cervelli

Torniamo alla “finestra antropologica” di Internet:

N.E.I. (Integrazione Neuro Emozionale) significa far rivivere all'emisfero destro del nostro cervello, sede delle emozioni, un'emozione vissuta e registrata nel cervello limbico (il cervello animale, l'inconscio) e rendere partecipe di questa emozione l'emisfero sinistro, sede della razionalità.

Spiegazione. Il nostro cervello è formato da varie parti. Schematicamente possiamo individuare:

-           L'emisfero sinistro (cervello sinistro), sede della razionalità

-           L'emisfero destro (cervello destro), sede delle emozioni, sentimenti

-           La porzione limbica (cervello limbico), cervello primitivo, animale, che registra come su un disco tutto ciò che ci succede nella vita. [...]

Questa tecnica (N.E.I.) viene inoltre ampliata dall'E.E. (Equilibrio Emozionale) e dalle nuove tecniche di integrazione, che permettono non solo di integrare le emozioni irrisolte, ma, poiché il nostro cervello funziona come un computer, di riprogrammare l'inconscio a nostro favore. Provare per credere.”

dal sito dell’Istituto Italiano N.E.I. (“Tutti i Soci Fondatori hanno un’esperienza ventennale di Medicina Naturale, Elettroagopuntura, Omeopatia, Fito-gemmo-terapia, Chinesiologia Integrata, Integrazione Neuro-emozionale, Equilibrio Emozionale, tecniche di comunicazione quali PNL, ecc.”).

il Transito di Venere dell’8 giugno 2004 sarà seguito da un altro Transito il 6 giugno 2012. Questo è - grosso modo - l’arco di tempo in cui si è inteso che avvenga l’Illuminazione dell’umanità. [...] Questo è il momento di fare l’esperienza che Tutti Siamo Uno ed Uno con il Divino. È tempo di recuperare, nella meditazione, le energie del maschile e del femminile che si fondono, Oriente ed Occidente, che stanno ora avvenendo su scala cosmica. [...] La ragione finale è che il Sottomondo Galattico favorisce realmente la concezione dell’emisfero orientale e del cervello destro. Una maggiore intuitività, nell’attuale approccio alla vita mediata dal cervello destro, sta dunque portando ora una nuova coscienza al mondo e circa 400 tun  (un baktun nella terminologia Maya) di pensiero logico e lineare occidentale, come cervello sinistro, secondo il Piano Cosmico, stanno ora per giungere a termine.” dal sito www.stazioneceleste.it.

Queste citazioni mi paiono largamente rappresentative di una cultura ben presente nella nostra società [9], dove mi pare manchi la consapevolezza delle implicazioni della metafora cervello destro / cervello sinistro. Non serve identificare nella separazione tra res extensa e res cogitans, tra corpo e mente, tra emozioni e intelletto, l’origine di una deriva culturale che ha condizionato negativamente la cultura moderna, se poi si ripropone la stessa separazione a livello del cervello: si riproduce così l’ ”errore di Cartesio” [10]. Non ci si rende conto che l’apparente riequilibrio tra razionalità e affettività, cui si tiene molto, non intacca, anzi rafforza la separazione perché la assume come premessa.

Il modello cervello destro / cervello sinistro è una rappresentazione, una “mappa” inadeguata al “territorio”, che in questo caso è un territorio biologico:

“I dati dello scienziato che studia i fenomeni biologici sono sue creazioni. Sono descrizioni di descrizioni, forma di forme. Allo stesso tempo, il materiale dei messaggi, le descrizioni, le ingiunzioni, le forme (chiamiamole come vogliamo) sono già immanenti nei fenomeni biologici. Essere organizzati internamente, essere vivi, è proprio questo” (Gregory Bateson e Mary Catherine Bateson (1987), La struttura del tessuto, in  Dove gli angeli esitano, Adelphi 1989.)

Gregory Bateson nei suoi scritti argomenta a lungo attorno al fatto che il linguaggio con cui l’uomo traccia una mappa della realtà fisica (dove sono importanti soltanto urti e forze) deve solo rispondere ad una coerenza interna e sostenere una capacità di prevedere, mentre il mondo dei viventi, dove diventano pertinenti e vitali l’informazione e la comunicazione (si pensi ai circuiti di regolazione ormonale, al sistema immunitario, all’ontogenesi, oltre che alla ereditarietà), contiene mappe. Dunque l’adeguatezza delle mappe del biologo si colloca ad un diverso livello logico e da essa dipende la qualità della relazione tra l’uomo e il mondo in cui vive, se sarà più o meno distruttiva o armonica.

Può darsi che, quando è stata proposta, la metafora semplificante dei due cervelli avesse una funzione generativa di ipotesi di ricerca; sta di fatto che oggi i risultati della neurobiologia propongono un quadro in cui la complessità è fattore decisivo:

“[durante il sonno] Questo EEG ipersincrono, corrispondente alla scarica all’unisono di un gran numero di cellule della corteccia, è associato a bassa complessità [...] tale stato, mancando di complessità, non è compatibile con la consapevolezza cosciente.” (Gerald Edelman e Giulio Tononi (2000), Un universo di coscienza, Einaudi)

Oggi sappiamo che:

“Ogni funzione mentale complessa deriva dai contributi ben concertati di molte regioni cerebrali a livelli diversi del sistema nervoso centrale, e non dalla funzione di una singola regione del cervello concepita secondo i dettami della frenologia” (Antonio Damasio (2003), Alla ricerca di Spinoza, Adelphi)

“Le argomentazioni finora svolte indicano ampiamente che, se integrazione e differenziazione sono realmente caratteri fondamentali della coscienza, possono essere spiegate solo attraverso un processo neurale distribuito e non ricorrendo a specifiche proprietà locali dei neuroni. [...] Un nucleo dinamico è perciò un processo e non una cosa o un luogo, ed è definito mediante interazioni neurali, piuttosto che attraverso la localizzazione specifica, gli schemi di connessione o le attività neurali.” (Gerald Edelman e Giulio Tononi (2000), Un universo di coscienza, Einaudi)

E quando la storia evolutiva della scienza non ha ancora selezionato le teorie, quando si è ancora nell’incertezza della ricerca, con la sua quota di conflitto e la sua possibilità di scegliere, è bene avere dei criteri di scelta. Personalmente preferisco modelli e teorie che non abbiano come premessa una sottrazione della specie umana alle dinamiche dell’evoluzione, che facciano tesoro del pensiero di Kant e non rimangano in balia della contrapposizione tra empirismo e razionalismo, che si portino fuori dalla alternativa tra un meccanicismo che vuole ridurre tutto alla chimica o addirittura alla meccanica quantistica e finisce per non ”spiegare” nulla di ciò che ci accade in quella dimensione che siamo soliti definire “mentale” e uno “spiritualismo” che pretende di “spiegare” quegli stessi fenomeni introducendo “principi dormitivi” [11]. Se “spiegare” significa rispondere alla domanda “perché accade ciò che accade?” facendo ricorso a conoscenze note, a “mappe” adeguate, preferisco alcune ipotesi di spiegazione che oggi sono disponibili:

“Noi siamo in grado di descrivere sia le configurazioni neurali – avvalendoci degli strumenti della neuroanatomia, della neurofisiologia e della neurochimica – sia le immagini mentali, servendoci degli strumenti dell’introspezione. Le modalità con cui avviene il passaggio dalle prime alle seconde sono note solo in parte; ciò nondimeno, la nostra attuale ignoranza non contraddice l’assunto che le immagini siano processi biologici, né nega la loro fisicità” (Antonio Damasio (2003), Alla ricerca di Spinoza, Adelphi).

“Per esempio il sogno e l’immaginazione mentale sono straordinarie dimostrazioni fenomenologiche del fatto che il cervello adulto può, spontaneamente e intrinsecamente, produrre coscienza e significati senza segnali che provengano direttamente dalla periferia, almeno nel breve lasso di tempo.” (Gerald Edelman e Giulio Tononi (2000), Un universo di coscienza, Einaudi).

“Noi abbiamo adottato le seguente impostazione: focalizzarci sulle proprietà dell’esperienza cosciente – le proprietà dell’integrazione e della differenziazione – e spiegarle riferendoci ai processi neurali.” (ibidem).

Di fronte ai risultati e alle nuove ipotesi della ricerca la metafora dei due cervelli non è più dominante, è comunque solo una delle ipotesi in gioco, in conflitto con altre, significativamente falsificata. E allora di nuovo vorrei pormi la domanda: perché piace tanto da sopravvivere e avere successo indipendentemente dalla sua evoluzione nel contesto scientifico?

Da Platone in poi nella nostra cultura la razionalità (e da qualche secolo anche il pensiero scientifico) viene considerata la facoltà mentale “superiore”. Di conseguenza non mi sorprende che chi è ritenuto (o si ritiene) non eccellere nella razionalità o non possedere il sapere scientifico trovi un riscatto dalla sua presunta inferiorità nell’idea (che gli si presenta come assolutamente razionale e di fonte scientifica) che le facoltà non razionali, ovvero diverse dalla razionalità, sono riclassificate allo stesso livello di quelle razionali in una partizione, e che abbiano sede in quello stesso organo che fino a quel momento era occupato solo dalle facoltà razionali.

Dal momento che una cultura tradizionalmente dominata dai maschi attribuiva la razionalità al genere maschile e la non razionalità, nel caso migliore altre facoltà “inferiori”, a quello femminile, non mi pare un caso che questa idea dei due cervelli abbia trovato casa anche nella cultura della differenza di genere, come riequilibrio tra soggetti naturalmente e culturalmente differenti ma non paritetici sul piano sociale e politico.

E allora perché opporsi? Ma perché mi appare come una semplificazione, una mappa non adeguata al territorio biologico e questo per me si collega immediatamente alla coincidenza tra conoscenza ed etica nel discorso di Bateson riguardo all’esigenza di rispettare il linguaggio del vivente.

In questo caso poi perché adottare una soluzione piuttosto rozza che separa razionalità ed affetti, corpo e mente, rispetto ad altre più elaborate che danno una mappa più integrata di un territorio integrato?

“Sentimenti alterati e una ragione imperfetta si presentavano assieme come conseguenze di una specifica lesione cerebrale, e questa correlazione mi suggeriva che il sentimento fosse una parte integrante del modo di operare della ragione. [...] Io suggerisco soltanto che certi aspetti del processo dell’emozione e del sentimento sono indispensabili per la razionalità. Nei casi migliori i sentimenti ci volgono nella direzione giusta, ci conducono al luogo appropriato dello spazio decisionale nel quale possiamo fare bene operare gli strumenti della logica.” (Antonio Damasio (1994), L’errore di Cartesio, Adelphi 1995.)

“[I sentimenti] sono altrettanto cognitivi quanto gli altri percetti. Sono il risultato di una straordinaria sistemazione fisiologica che ha fatto del cervello l’avvinto uditorio del corpo”. (ibidem)

“Proprio il nostro organismo, invece che qualche realtà esterna assoluta, è usato come riferimento base per le costruzioni che elaboriamo del mondo circostante e di quel senso di soggettività, sempre presente, che è parte integrante delle nostre esperienze. [...] la mente esiste dentro e per un organismo integrato [...] Sulla base del riferimento che il corpo fornisce con continuità, la mente può allora avere a che fare con molte altre cose, reali e immaginarie.” (ibidem)

Al di là della riproduzione dell’ “errore di Cartesio”, mi ha colpito trovare nel sito internet citato sopra la riproposizione della metafora informatica in una espressione culturale collocabile in quell’area che identifichiamo comenew age, con le sue suggestioni olistiche e i suoi riferimenti a discipline e saperi della cultura orientale, una opzione culturale che è nata anche in opposizione all’imporsi nella cultura di massa del riduzionismo delle scienze dure. Ora, nell’ambito scientifico la grande suggestione dell’intelligenza artificiale, basata sulla analogia cervello-computer, dagli anni 70 del Novecento ad oggi ha perso il suo carattere di mito fondante, di metafora paradigmatica per approdare ad una considerazione più complessa articolata e critica all’interno delle “scienze cognitive”. In ambienti che si collocano ai margini della comunità scientifica istituzionale o che ne sono completamente esclusi il riferimento all’informatica sembra invece ancora mantenere tutta la sua forza e il suo potere di suggestione culturale.

Più sopra, nella citazione di Varela, abbiamo visto come la metafora del cervello come computer e quella del DNA come programma abbiano una origine comune nell’ “idea del trattamento di informazione quale [...] compito (o problema) che i sistemi viventi e le macchine devono risolvere in un modo o nell'altro”. Ma l’esempio tratto da Internet ci mostra la sua contestualizzazione in un ambito in cui il venir meno della metodologia scientifica, con il suo spirito critico e il suo empirismo, fa spazio a derive spiritualistiche e a suggestioni magiche: la metafora informatica sembra essere la migliore candidata al ruolo di Frankestein nella nostra meta-metafora, un Frankestein che si ribella allo scienziato che l’ha creato e lo uccide.

 



[1]  Umberto Galimberti (1999), Psiche e techne, Feltrinelli;  Yurij Castelfranchi (2004), Per una paleontologia dell’immaginario scientifico, in La comunicazione della scienza, Zadigroma.

[2]  Marcello Buiatti (2004), Il benevolo disordine della vita, UTET.

[3]  La definizione tecnica di informazione proposta da Shannon non era applicabile al caso dei geni, per cui si tratta propriamente di una metafora (Evelyn Fox Keller (1995), Vita, scienza & cyberscienza, Garzanti 1996).

[4]  Marcello Buiatti (2004), Il benevolo disordine della vita, UTET.

[5]  È la risposta di Maturana e Varela alla domanda: “Che cosa è comune a tutti i sistemi viventi, per cui noi li qualifichiamo come viventi?” H. Maturana – F. Varela (1980), Autopoiesi e cognizione, Marsilio 1985).

[6] Si veda: Richard Lewontin (1992), Polemiche sul Genoma Umano, in La rivista dei libri ottobre 1992; Brian Goodwin, La traduzione della complessità biologica in una sottile semplicità, in Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti (a cura di, 1985), La sfida della complessità, Feltrinelli.

[7] Questo poteva essere vero fino a che la tecnica si esercitava dentro le mura della città, enclave artificiale all’interno della natura. Ma poi l’uomo ha continuato a trasformare la natura, adattandola a sé, fino a rovesciare il rapporto. Oggi, che è la natura ad essere un enclave dentro le mura della città umana, la tecnica è diventata l’ambiente dell’uomo (si veda: Umberto Galimberti (1999), Psiche e techne, Feltrinelli).

[8]  Marcello Sala (1997), I “super premi Nobel”, in  Cooperazione Educativa  n. 1/1997, La Nuova Italia.

[9]  Ho tratto le citazioni dai siti che compaiono come primi risultati dell’applicazione di un “motore di ricerca” e cioè quelli  più frequentati.

[10]  Antonio Damasio (1994), L’errore di Cartesio, Adelphi 1995.

[11]  Ne “Il malato immaginario“ di Molière un candidato dottore, alla domanda d’esame perché l’oppio faccia dormire, risponde “perché contiene un principio dormitivo. Gregory Bateson lo cita come un emblema di quell’errore epistemologico che consiste nel “trarre dal mondo dell’osservazione una generalizzazione esterna, assegnandole un nome grazioso, e di asserire poi che questa astrazione, con il suo bel nome, è un principio esplicativo”, collocando come esistente all’interno dell’organismo ciò che riguarda la relazione tra organismi. ( G.Bateson (1979), Mente e natura, Adelphi 1984 e (1991), Mente/ambiente in Una sacra unità, Adelphi 1997.